COS'E' QUESTA
NUOVA RESPONSABILITA'? SORPRESA....
LA CORPORATE SOCIAL RESPONSABILITY (CSR) ALLA PROVA DEI FATTI
Mi sono appena stati anticipati i risultati di un’importante ricerca
a cura di Istud sulle “relations between business & society”,
su come il concetto di responsabilità sociale viene percepito dal
management delle imprese –piccole, medie o grandi che siano-, e
dalla società nel suo complesso.
Prima sorpresa: la Corporate Social Responsibility viene intesa come “un
modo” per gestire i rapporti, un modo che anziché seguire
degli standard può essere personalizzato e reso unico, specialmente
nell’ambito delle proprie relazioni interne (oltre il 50% delle
priorità).
Ho sempre pensato invece che la CSR costituisca un forte, determinato
impegno per l’azienda di esprimere i propri valori, oltre quanto
prescrive il codice e al di là dei prodotti e servizi che vende.
Questa latitanza di commitment può spiegare il successo di manufatti
come la carta dei valori, il codice etico e il bilancio sociale, dichiarazioni
e rendiconti personalizzabili più che strumenti di vera e propria
gestione dell’impegno sociale. E delle certificazioni con strane
sigle e cifre, ISO, SA, EMAS che attestano aspetti specifici –qualità
del prodotto, dei rapporti umani all’interno dell’azienda-
ma non la “qualità etica” dell’azienda nella
sua interezza.
La seconda sorpresa è
la responsabilità. Non c’è, nella quasi totalità
dei casi oggetto della ricerca, un responsabile della politica di CSR
ma piuttosto una distribuzione, o meglio una sfilacciatura di competenze,
ruoli, iniziative, che confluiscono immancabilmente nella figura del leader,
spesso l’ AD o il presidente del CdA, il quale accentra sulla propria
persona le decisioni. Il top management è informato e contribuisce
alla definizione dei progetti mentre il middle management in genere non
sa nulla e comunque non viene coinvolto.
Una procedura assolutamente top-down, in contrasto non solo con la cruciale
esigenza del coinvolgimento ma anche col buon senso proprio di chi è
orientato ai risultati. Questa prassi è ancor più incomprensibile,
e inaccettabile, quando si apprende che il leader decisionale, o il dux
aziendale, agisce di norma in stretto collegamento con la direzione delle
risorse umane, le quali non solo si trovano in condizione di non poter
condividere gli obiettivi ma devono spesso limitarsi ad accogliere ed
eseguire le decisioni.
Questo dimostra che di fatto il CSR non è assolutamente omologato
nei processi e non entra per nulla o quasi nella pianificazione e nel
controllo. Il povero bilancio sociale, neutro rendiconto delle decisioni
prese durante l’anno e per nulla indicatore degli impegni che l’azienda
intende assumere nel prossimo esercizio, e che non ha nemmeno la dignità
di rilevanza legale, è il documento preferito da sbandierare a
sostegno di una realtà etica per nulla dimostrata, ma in compenso
molto comunicata. Abbiamo così un veicolo aggiuntivo del mix di
comunicazione –che in sé non ha nulla di disdicevole- e per
contro la perdurante mancanza di un elemento irrinunciabile della gestione
etica.
Terza sorpresa: non interessa se rende! La metà abbondante degli
imprenditori intervistati afferma di praticare in qualche modo la CSR
sulla base di motivazioni morali, indipendentemente dal fatto che abbia
o no ricadute positive in termini economici, e nonostante che sappiano
calcolare con buona precisione i costi delle varie iniziative. La prima
considerazione è che si tratta molto spesso di iniziative che non
rientrano in un progetto strutturato e durevole. Interventi a soggetto,
sponsorizzazioni, charity, donazioni anche rilevanti, suscettibili tuttavia
di essere interrotte o abbandonate in funzione dell’andamento di
mercato e dei vincoli finanziari. Che però non connotano una politica
decisa di CSR: basata su una precisa valorizzazione, portata preventivamente
a budget per gli impegni di cui l’azienda si fa carico in base alle
sue priorità e che –questo sì- dovrebbe costituire
il valore aggiunto del vero bilancio sociale.
L’altra considerazione
è che non è assolutamente credibile l’assoluto buonismo
morale della maggioranza degli imprenditori – grandi, medie e piccole
imprese- che sarebbero indifferenti ai vantaggi derivanti dall’impegno
etico. Infatti, a precisa domanda, l’indifferenza si stempera in
una accampata difficoltà a misurarli economicamente. Una posizione
più realistica, eppure –incalzo- siete riusciti a valorizzare
asset assai intangibili come la fidelizzazione della clientela, la condivisione
degli obiettivi e dei valori, il clima aziendale… come non riuscire
a misurare i minori costi di controllo, la maggior produttività,
la miglior percezione di brand ottenibili con una buona strategia –nel
medio termine certo- di responsabilità sociale?
Emerge così il senso di colpa del nostro imprenditore italico nel
fare profitto, vissuto più come approfittamento che come equa –equa-
ricompensa per l’impegno profuso ed il rischio accettato e assunto
in proprio. La resistenza ad ammettere che sia giusto e logico un tornaconto
per l’azienda anche dall’impegno etico è pressoché
totale, a conferma che l’imprenditore –l’individuo imprenditore-
agisce sulla spinta di stimoli emotivi, poco durevoli per definizione,
e non ha ancora metabolizzato l’etica negli affari come inevitabile
condizione non solo di eccellenza ma di sopravvivenza nel medio e lungo
termine.
Quarta sorpresa: la CSR ha un
grande futuro… o no?
Quale evoluzione per la neonata (?) Responsabilità Sociale delle
aziende? La ricerca dà una risposta inquietante, anzi non c’è
risposta. Potrebbe indifferentemente affermarsi come un nuovo paradigma
di gestione, oppure passare di moda… sì, cessare d’essere
una questione rilevante e cedere il passo a qualcosa di più importante!
Tutto sembra essere in funzione del grado di “esposizione sociale”
che l’impegno, o il non impegno in una politica di CSR determina
per l’immagine aziendale. Insomma, senza persistenza di attenzione
da parte del mercato, le aziende –concediamo ovviamente le dovute
eccezioni- farebbero volentieri a meno della CSR!
Conclusione. A guardar bene
non si tratta di sorprese, dalla ricerca Istud arrivano piuttosto le conferme
dimostrate della confusione, delle incertezze, della scarsa e anche cattiva
informazione che avvolge questo nuovo grande trend che rischia seriamente
di piegare verso il basso prima ancora di essere capito e valutato nella
sua genuina natura: di un’etica –conveniente per tutti- solidarietà.
Dovremo tenere la guardia alta, dar fiato alle trombe e far rullare i
tamburi se vogliamo che l’etica sopravviva all’etichettatura
di tendenza e si consolidi come vincolo, impossibile da aggirare e quindi
da affrontare e risolvere.