BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 15/12/2003

APPUNTI DI VIAGGIO Grecia 2003 [1]

di Bruno Bonsignore

Senza fretta di arrivare

La Grecia si lascia scoprire pagando pegno, se ti piace una delle sue tremila isole devi conquistartela praticando qualche virtù come la pazienza e l’accettazione. Voler arrivare  subito a destinazione è partire sbagliando, perché il viaggio è parte essenziale, imperdibile dell’esperienza.

Atene è il crocevia praticamente obbligato di tutte le destinazioni, e già all’aeroporto, tutto luccicante di nuovo, può succedere che cambino il cancello di imbarco senza dirtelo e ti facciano perdere l’unico volo del pomeriggio per Samos. Per fortuna il bus ci aspetta e saliamo felicemente sul bi-turboelica che dopo nemmeno un’ora e un deciso atterraggio contro vento ci scarica in un aeroporto nuovo di zecca, costruito e consegnato puntualmente dopo un anno di lavori da un’efficiente ditta tedesca in vista delle Olimpiadi.

Niente traghetti per Furni fino a domani pomeriggio ci dicono, però c’è il Samos Sun che parte il mattino presto dal porticciolo di Pitagorio, sul lato opposto dell’isola. Sveglia alle sei col taxi che aspetta sotto e in venti minuti siamo a destinazione, un delizioso defilè di negozietti e bar fronte mare, dove puoi incontrare Tronchetti Provera con Afef.

Il sole già caldo del primo mattino rende persin piacevole il maestrale da nordovest ma le onde che sbatacchiano la prua costringono tutti a ripararsi sottocoperta.

Nikos lo riconosci prima di sentire il nome, è di presidio davanti  alla taverna del suo omonimo, proprio di fronte al molo e nessun turista gli può sfuggire. L’arrivo al porto è il momento della giornata, e tu turista ignaro quando scendi con la tua sacca capisci che devi crearti un posto nella comunità  che sei venuto provvisoriamente ad abitare, inserendoti con cortesia nella nuova realtà, un po’ come la barculla che, al ritorno dalla pesca, recupera il suo posto in porto spingendo e facendo accostare le compagne già ormeggiate.

In attesa della sistemazione ci accampiamo ai  tavoli di legno della taverna. Si chiama Nikos, ha una veranda e una bella toppia verde che la ripara dal sole e un paio di pareti foderate di nailon per proteggere i clienti dai venti freddi; poi c’e’ il retro veranda sempre all’aperto, con la griglia per preparare il pesce e le aragoste e pochi tavoli accostati alla parete occupati  d’abitudine solo dai locali che bevono usaki, magari giocano a tavli o semplicemente osservano. E finalmente c’è la porta che immette in un’unica grande sala, con pochi tavoli sul lato sinistro, tutto il centro vuoto e una grande cucina in fondo. Immagino che nei mesi invernali qui si rifugi tutto il paese a mangiare, giocare e guardare la televisione in compagnia e ben protetti dal freddo che sì, esiste anche in Grecia.

Kambos e Kambì

Kambì non è un paesino, sono poche case bianche e una lunga scalinata che cala su due spiaggette alberate e un paio di taverne con tavoli e sedie di plastica ben nascoste dall’ombra. Sarebbe perfetto se un giovanotto greco business oriented non affittasse, oltre ai pacifici windsurf anche un paio di  acquascooter che tagliano la baia in modo isterico cavalcati da turisti idioti. Le spiagge successive si raggiungono anche a piedi con sentieri caprini e faticosi, ma ti ripagano  con spicchi di mare che visti dall’alto  sembrano fiordi nordici battuti dal vento; quando finalmente i tuoi sandali poggiano sulla ghiaietta bianca senza una macchia di catrame ti può capitare di incontare lo sguardo risentito di quattro turisti ignudi che sventolano fieri i genitali avvizziti. Proseguendo a est, dopo Petrokopio,  c’è Aghios Ioannis, proprio sotto Agrelidis, la quarta cima dell’isola alta ben 223 metri.

Lo studio che ho affittato per due settimane è  sull’altro lato del promontorio rispetto a Furni, una costruzione di tre piani bianchi  terrazzati che si sporgono sulla baia semiquadrata sottostante, e poi a destra e sinistra altre baie e altre isole spazzolate alternativamente dal maestrale e dal meltemi. Il vento ha scelto la superficie piatta dell’acqua per disegnare, crea mulinelli che durano un attimo, screziature che s’allargano asimmetriche, pieghettature, piani d’argento che avanzano rapidi e svaniscono prima d’infrangersi contro le rocce, archi di turchesi blu scuro che s’uniscono a vortici chiari e righe sottili che sembrano la firma dell’artista in trance creativa … forse Pitagora si era ispirato a questo vento mutevole quando illustrava sulla sabbia le sue teorie matematiche agli allievi ammirati.

Scopro che da Furni a Kambì c’è un buon chilometro di strada asfaltata che sale di un centinaio di metri; a piedi e senza le borse della spesa il percorso è accettabile, altrimenti si paga la corsa a Manolis, l’unico taxi dell’isola, costantemente in agguato davanti alla fontana del porticciolo. C’’è anche  un sentiero che s’arrampica dietro la nuova chiesetta turchese con il campanile in stile vagamente lecorbusiè,  ridotto com’è a una semplice incastellatura che sorregge le campane; la stradina fa risparmiare almeno duecento metri di cammino ma t’impone un attacco brutale con settantun gradini tagliagambe. Si può arrivare a Kambì anche navigando  mare permettendo, con una delle tre barche per escursioni che stazionano al porto, quella di Giorgio. Pragmatico come uno yankee, Jorgòs porta i turisti dove e quando vogliono, infischiandosi degli orari, purchè si raggiunga il breakeven, 4-6 paganti almeno, così che spesso poi siamo  tornati a casa chiedendogli un passaggio  sulla sua Stavros; il gozzo a fondo quasi piatto è capace di superare canali con un metro d’acqua  e il suo nocchiero sa sfiorare senza toccare gli spuntoni rocciosi vicinissimi  sui due lati.

Nella baia di Kambì tutto è silenzio almeno fino alle otto del mattino, anche i passerotti non cinguettano e solo due galli si lanciano richiami sgangherati, ma loro lo fanno anche in piena notte. Ti accorgi che è ora di aprire le persiane perché giù nella piccola spiaggia qualcuno assesta piano qualche colpo col martello di legno, una coppia di stranieri scende la lunghissima scalinata al mare conversando sottovoce,  una barca s’allontana col diesel che ronfa lento verso il capo a sud per tenersi il mare a poppa. La luce è satura di quel bianco che rende troppo luminose le fotografie e le cicale stanno già lavorando anche se il gran concerto che stordisce arriverà solo tardi nel pomeriggio. A quest’ora il vento è fresco e per fare colazione ci si mette volentieri la Tshirt; la giornata deve ancora iniziare e pregusto con piacere la passeggiata a Furni, andare al minimarket, salutare le facce ormai familiari di gente che non conoscerò mai e rinforzare con qualche nuova espressione il poco greco che manovro con astuzia per guadagnarmi simpatia …

Fourni e forni

Per  fare un po’ di caccia subacquea come si dovrebbe il problema è irrisolvibile, barche da affittare non ce ne sono, i pescatori anche se volessero non possono accompagnarti pena la perdita della licenza e allora bisogna mettersi d’accordo con Giorgio, che tra un gruppo di tedeschi che vuol vedere  Petrokopio e una famiglia greca che va a trovare i parenti a Crisomilià, ci dedica ogni tanto un paio d’ore per portarci su qualche fondale, tutti promettenti da fuori ma assolutamente deserti quando ci immergiamo. L’unico vantaggio di questa soluzione è che possiamo lasciare tutto l’equipaggiamento in barca, a cominciare dal peso letale delle cinture coi piombi.

Ci consoliamo con un bicchiere di retsina sotto la veranda del Meltemi, la taverna preferita dai greci perché è fronte mare ma ha un lato protetto dal vento;  la tovaglia di plastica a quadri bianchi e blu  s’appiccica agli avambracci intanto che aspettiamo di sapere da Giorgio  dove andrà col prossimo gruppetto per decidere se salire sulla Stavros o andare a piedi in una spiaggia vicina.

Intanto chiedo a Nikos perché il paese si chiama Fourni, lui mi spiega nel suo italiano essenziale aiutato dai gesti che “prima” –quanto prima è difficile dire, possono essere pochi anni o mezzo secolo- tutte le case avevano il proprio forno per farsi il pane, poi hanno lasciato che un paio di fornai cuociano lo psomì per tutta la comunità, e così i forni si sono lentamente trasformati in camere, bagni, giardinetti. Guardo davanti a me, in lontananza c’è Ikaria e cerco la montagna dalla quale si sarebbe gettato il primo aspirante volatore, temerario sfortunato; quel giorno non ci doveva essere il freddo maestrale a proteggere le ali di cera di Ikaro dal dardeggiante Elios…

Giorgio ha caricato sei persone ancora  bianche di città e ci fa segno di salire, si va a Kiramidù; un quarto d’ora di onde sulla murata di dritta e poi la Stavros può virare a sinistra col mare al giardinetto per puntare tranquilla alla spiaggia. C’è un piccolo attracco ben protetto e una fila di tamerici che arrivano quasi a bordo mare, interrotte da un ombrellone giallo; una famiglia saltella nell’acqua trasparente e l’unico rumore oltre al nostro diesel sono i gridolini eccitati dei bambini che si tuffano da una barca semisommersa. L’ombrellone, ancorato con diversi lacci alle pietre, resiste impavido alle raffiche mentre noi puntiamo all’ombra rassicurante degli alberi più vicini alla taverna, bianca e blu, che offre da mangiare e dormire. Un posto ideale per una settimana di ritiro spirituale marino, senza auto e moto d’acqua. C’è lo sfrigolio delle cicale che parte alle dieci del mattino e tira dritto fino a ora di cena.

La Grecia comunica un’Essenza  dove c’è ancora spazio per l’improvvisazione, le soluzioni ingegnosamente povere, il ritegno; la sera le quindicenni eccitate dalla libertà di passeggio transitano innumerevoli volte davanti ai pochi locali affollati, rese grandi dal cellulare e ancora piccole per fumare, sorvegliate dalle donne nere sedute fuori dall’uscio di case basse e scure, che controllano la frequenza del passaggio delle ragazze. Sento di essere entrato in un mondo che resiste al mutamento, che mi si offre con semplicità senza far nulla  per compiacere le mie abitudini, nella consapevolezza che noi ospiti passeggeri non potremo  cambiarlo.

Crisomilià e parenti

In attesa che scadano i canonici  tre giorni di maestrale decidiamo di andare a Crisomilià, all’estremo nord di Fourni, sotto una montagna di 500 metri. Il nome è fascinoso e così abbiamo prenotato i posti sul barcone che salpa domani alle dieci.

Il gozzo esce da Fourni e punta a nord, naviga  veloce  approfittando della bonaccia e così arriviamo in meno di un’ora davanti alla spiaggia che ha un colore grigio sporco, di quelle che sanno più di terra che di sabbia, ma di straordinario ci sono le piccole case a un piano dei pescatori che ancora ci abitano con famiglia, le donne in nero e le immancabili tamerici che regalano ombra protettrice fin sul mare. Le casette mi fanno venire in mente Buzios, a nord di Rio, prima della calata in massa degli argentini, quando Brigitte Bardot flirtava col chitarrista Bob Zaguri

C’è l’immancabile taverna di fronte all’attracco con Vangelis, il proprietario della barca che ci ha portato, che s’industria ora a servire ai tavoli. Prima del fritto di calamari tento un’immersione a fondo baia dove c’è un promontorio con qualche caduta di massi ma non riesco nemmeno ad avvistare una preda, che so un sarago, una corvina fuori rotta… niente. Torno alla base con un senso di giornata incompiuta, perché non vado in mare per mangiare e qui per giunta non ho visto nemmeno un bel fondale.

 E’ pomeriggio tardi, il sole smette di mordere e t’accende l’abbronzatura quando la barca di Vangelis viene circondata da greci salutanti greci partenti, una coppia con figli piccoli che hanno tutta l’aria d’andare lontano. Si scambiano abbracci sobri e sorrisi trattenuti, qualche lacrima della nonna Emilià che salita a bordo non vuole tornare sul molo e i bambini che restano  salutano allegri come quelli che partono.

Domani ancora bonaccia, si può andare a Vliciada, così dico a Jorgòs endaxi, ti aspettiamo al molo di Kambì e poi si va fino al vertice dell’isola, sul lato opposto a Crisomilià.

Case e retsina

La retsina sa di Grecia, mi evoca tanti sapori quasi più della presenza reale; la taverna col pergolato e il pavimento di cemento, un piattino di metallo ovale con le piccole olive nere, il molo con la Stavros che ci porta verso  spiagge solitarie, la bevuta con nuovi occasionali amici greci destinati a durare una breve estate…  prima di cenare il bicchiere di retsina è un rito che amo rinnovare, questo vino ruvido che pulisce il palato come nessun altro dopo un boccone di pesce, o l’ouzo che s’opacizza  nell’acqua… penso che anche questo è la ragionevolezza mediterranea che ci racconta Serge Latouche contro il dominio della ragione funzionale,  della logica di cui non sappiamo più controllare l’influenza.

Mi viene immancabile il desiderio di piantare le radici nel posto e così s’ipotizza una casa, che poi non si compra mai e la prossima volta sei libero d’andare su altri traghetti che ti scaricano in altre isole da scrutare con occhio avido appena ci metto piede.

A Fourni non ci sono case in vendita tipo “mi piace la compro”. Si parte dal terreno, si verificano i titoli degli eredi (tutti gli eredi), poi la costruzione o il rustico da sistemare, organizzare i lavori, trovare gli operai e specialmente il fiduciario greco; l’abitazione bisogna conquistarsela dedicandole tempo e presenza sul posto. E’ un’isola rustica e aspra dove gli abitanti rispettano gli stranieri senza slanci di simpatia eppure con cordialità. Le barriere di ingresso, dopo Atene, continuano a Samos che detiene il monopolio dei collegamenti, così per arrivarci bisogna investire del tempo, tempo di viaggio prezioso come quello di vacanza. E ci vuol anche la ragionevolezza, la phronesis di cui parla Edgar Morin contro la logica razionale: la difficoltà dell’arrivo è parte integrante del valore del viaggio.

Così capisco che è bene non suggerire agli amici delle isole greche trucchi e scorciatoie proprio per non privarli del dono della scoperta di tante piccole cose, del superamento degli inevitabili contrattempi, la carenza dei trasporti e l’opinabilità degli orari, e dove mangiare, dove dormire, le spiagge da vedere e quelle che si possono perdere….

Meglio comunque prepararsi al vento, meltemi da nord est e maistro da nord ovest sono gelidi e alzano l’onda, ma quando fanno vacanza i raggi del sole quasi feriscono e l’acqua fredda consente  al più tanti brevi ammolli, certo non lunghe nuotate. Pesci? Abbondanti al ristorante, quelli da cacciare se ne sono andati, probabilmente bombardati, lasciando bellissimi fondali deserti.

Nella baia sotto casa, a Kambì, il sole tira tardi e la moto d’acqua ne approfitta per gli ultimi passaggi da calabrone; per leggere il mio libro aspetto che rientri a riva sperando che l’energumeno che la cavalca si ribalti rovinosamente e invece non succede niente. Quando infine il sole abbandona la baia le ultime figure scurite dal sole lasciano la spiaggia e s’arrampicano su per i sentieri che stroncano le gambe e strappano la pelle; i più fortunati salgono sulle barche dopo un ultimo tuffo che già mette i briividi, e tutto ritorna naturale. Due ragazzi sdraiati sui loro teli dormono, il libro accanto a loro  scompaginato dal vento e intanto dalle case esce odor di pietanze; sul barchino proprio davanti all’uscio un uomo e il figlio sistemano le reti per domani; tu non sei più un turista estraneo mentre osservi discreto le  vite semplici di altri che non conosci e ti è permesso di condividere il loro lavoro, i colori, l’aria, i loro ritmi. Mentre la cena invade i piatti il mare s’è finalmente liberato dalle sfregiature umane, metà della baia è ancor chiara e  venti  barchette, tutte col muso puntato a riva, annuiscono piano. Adesso c’è il silenzio.

Arriva il Papa

Questo lunedì mattina ha una luce speciale, il sole è reso più tagliente dal maestrale che, mi dice Jorgòs, soffia ad almeno 8 bofor. Dalla cima della scalinata bianca vedo Fourni e Kambì e tutte le isole davanti che si incaricano di formare baie, calette e istmi con tanti mari e blu tutti diversi per la gioia degli occhi.

Scendo in un insolito fervore che coinvolge tutti, i pensionati ai tavoli sono vestiti a festa e anche i bambini, le donne hanno abbandonato il nero e indossano abiti colorati, i turisti guardano al molo in attesa,  così immagino che ci sarà l’offerta simbolica di pane e suvlaki secondo la tradizione d’agosto. Noto una bandiera gialla con aquila bifronte che si agita accanto a quella greca, e poi vedo che anche le imbarcazioni hanno sul pennone la stessa bandierina gialla; intanto le tre barche più grandi escono dal porto e virano a destra incontro al maestrale che gli tinge di spuma bianca la prua. Cosa succede? chiedo a una faccia che ho già visto,  mi dice “venire il pope da Samos”, il pope? dico e lui “no pope, il papa, the big one” quello che sta ad Atene e mi spiega che sta facendo una visita pastorale  nelle principali isole greche. Adesso le tre barche stanno tornando in un tripudio di razzi fumogeni, tallonate da una corvetta grigia della marina e da un intercettore veloce color arancione della polizia militare. Tutte le barche e barchette del porto accompagnano le manovre d’attracco con bordate lunghissime delle sirene e delle trombe a pressione e lanciano fumogeni colorati che il sole mortifica sbiadendoli subito; la corvetta ormeggia con manovra impeccabile mentre l’intercettore deve duellare duramente col vento che  preme sulla murata sinistra. Viene spinta fuori bordo la passerella che si variopinge all’istante di donne in grigio uomini della televisione in maglietta gialla pope in nero e personaggi in giacca blu e cravatta con cellulare e microfono. Ecco il Papa degli ortodossi, ha una bella barba bianca e il viso ancor giovane accaldato, attorniato da alcuni  soldati in mimetica; l’equipaggio  biancovestito della corvetta saluta la sua discesa a terra con ripetuti trilli variati di fischietto come nei film di guerra mentre un volo di bambini precede il prezioso ospite correndogli davanti e gridando d’eccitazione; qualche donna temeraria passa attraverso le braccia dei protettori e gli ghermisce la mano per toccarla e baciare l’anello, lui benedice gioviale con la destra e riceve compiaciuto i nostri applausi prima di sparire lungo la strada che sale leggermente fra gli oleandri alla piazza dove è atteso in chiesa.

Taverne e bar riprendono a servire solo dopo che le campane annunciano che il massimo rappresentante del Culto Ortodosso di Grecia ha varcato la soglia d’ingresso.

Ho visto emozione e devozione e ho sentito il rispetto della gerarchia militare verso il potere che quella bandiera gialla squassata dal maestrale esercita sulle isolette sperdute.

Ho anche aggiunto un po’ di greco al mio bagaglio striminzito, adesso la sera so salutare con Kalò vradi, una variante che non conoscevo di kalì nikta, e ho una nuova  bella risposta al solito polì kalà: panta kalà, un mare di bene…

Panta kalà Grecia mia, sto già progettando il prossimo incontro con te.



[1] 26 Luglio 8 Agosto 2003.

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