BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 13/09/2004

CINQUANT'ANNI DOPO DOVE STA L'ETICA?

Il Manager dal miracolo economico all'era post-global.

di Bruno Bonsignore

La grande industria italiana cinquant'anni fa ha portato a Nord centinaia di migliaia di lavoratori che si sono fusi con la loro fabbrica in un legame basato non solo sul salario ma sulla casa, la mensa, le colonie estive, i trasporti, la Cinquecento e persino la passione calcistica. Un'osmosi che garantiva all'imprenditore e ai suoi manager la continuità della produzione e alla comunità immigrata la sopravvivenza e il sapore del benessere. La logica di portare la forza lavoro dove c'è la fabbrica si fondava sul presupposto di un rapporto duraturo, che implica fiducia e sicurezza reciproche.

L'abbiamo chiamato miracolo economico ma era anche un patto etico, che teneva conto dei bisogni di tutte le parti in causa, produttrici di uno sviluppo di cui hanno beneficiato le grandi città e la stessa Nazione.

Mezzo secolo più tardi è la montagna che va a Maometto. Il padronato ha progressivamente passato la mano ai manager, e questi ai finanzieri che impiantano le fabbriche dove c'è forza di lavoro abbondante, inventandosi una nuova legge economica: portare la domanda (di lavoro) dove c'è l'offerta (di mano d'opera) per poi distribuire e vendere in tutto il mondo, rendendo superfluo il concetto stesso di stabilità e di solidità.

E' uno degli effetti della globalizzazione in cui è difficile vedere un valore etico, ma non tutti hanno segno negativo. Se la perdita di potere dei singoli Stati ci sta consegnando a un inquietante mondo praticamente unificato ma senza un'autorità centrale, bisogna anche ammettere che la globalizzazione ci può liberare dai limiti, dai pregiudizi del nazionalismo senza che con questo venga imposta la rinuncia alla cultura e alle tradizioni locali. Questa in fondo è una nuova libertà resa possibile proprio dalla mancanza dell'autorità.

L'etica è anche il pretesto, l'occasione per riflettere sul ruolo del manager post-global.

Il bisogno di solidarietà è al centro di mille richiami quotidiani, come uno Stato Nascente che si prepara a rivelarsi in tutto il suo potenziale di cambiamento, innescato da internet e alimentato, paradossalmente, proprio dall'appiattimento dei mercati mondiali. Se si consumano le stesse automobili, gli stessi hamburger, gli stessi telefonini, le stesse partite di calcio in tutto il mondo, allora può essere oggetto di consumo di massa anche la solidarietà, che è trendy e risponde come ogni cosa alle leggi del mercato.

Il marketing adesso non è altro che attualità spettacolarizzata e distribuita a ogni singolo individuo in tempo reale. Tutto basato, però, proprio sulla mancanza di durevolezza.

In questo contesto di dilagante precarietà che senso può avere pensare ancora al lavoro come un “posto”, e tantomeno “fisso” ? e come deve affrontare il nuovo manager le implicazioni etiche legate al bisogno di certezze, prima fra tutte proprio quella del lavoro? La prossima svolta sarà probabilmente la scomparsa del lavoratore stipendiato, perché tutti dovranno essere imprenditori di se stessi, ponendo fine così una volta per tutte anche al problema della disoccupazione…

Il problema di tutti sarà invece arricchire la propria vetrina con competenze più appetibili e facili da vendere grazie a un costante, ininterrotto aggiornamento della conoscenza. Un'esigenza che spinge il manager, mezzo secolo dopo il miracolo economico a preferire, agli spazi fissi e predefiniti, quelli mobili, fluttuanti. Tutto può avvenire ed essere fatto in qualsiasi posto, perché basta essere sempre connessi per gestire qualsiasi situazione. Il luogo in cui ci si trova e la realtà che ci sta intorno sono del tutto irrilevanti. Connesso e distaccato, con la massima flessibilità operativa e schermato da una totale indifferenza, questo è l'environment del manager di questa prima decade milleniale.

Ed è a questo manager, che sposta uno stabilimento magari mai visto da una nazione a un'altra per generare profitto prima ancora d'iniziare a produrre, è a questo decision-maker che gli imprenditori sensibili, gli spiriti illuminati, i politici accorti chiedono, in nome dell'etica, di portare l'azienda verso uno “sviluppo sostenibile”.

Vuol dire, per essere chiari, chiedergli di programmare un futuro basato non solo sul consumo ma sulla conservazione! Tutta l'impresa dovrebbe riconvertire la propria cultura e, se ne ha, i propri valori e cambiare una management education basata sul concetto di competenza come criterio organizzativo, che considera le persone come risorse da gestire e non come individui unici, capaci di esprimere idee e soluzioni originali, magari senza programmazione. Un'educazione manageriale che, come possiamo verificare quotidianamente, rende di fatto non percettibile –invisibile- qualsiasi problema di tipo etico.

Il nuovo manager “post-global” deve innanzitutto resistere all'appiattimento culturale imposto dalla golosità illimitata dei finanzieri che hanno soppiantato gli imprenditori. Deve diventare membro di una elite umanistica e ispirata, capace di renderci tutti attori protagonisti di un nuovo impegno etico collettivo, perché ormai la sola motivazione del profitto non garantisce la sopravvivenza nemmeno più alla minoranza privilegiata di chi sta bene.

Il manager è etico se sa ascoltare, sa di dover prendere decisioni difficili e mai ottimali, e sa di doversene assumere la responsabilità. E si ispira al monito di Levinas: “l'etica è il ricordo di un debito che non abbiamo mai contratto”.

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