BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 02/05/2008

 

AFFETTIVITA' E LAVORO (1)

di Renata Borgato

 

Un uomo è grande solo quando agisce secondo le passioni
Benjamin Disraeli

Nelle imprese e organizzazioni che abbiano compiutamente superato l’organizzazione tayloristica del lavoro, parole come  “emozione”e “benessere”  sono entrate a far parte del lessico aziendale e a esse è stato riconosciuto un ruolo funzionale agli obiettivi lavorativi.
Non solo le emozioni, precedentemente negate o relegate in spazi interstiziali e marginali, ottengono diritto di cittadinanza, ma addirittura la loro rimozione viene considerata come una minaccia: “Tanto più imprudente (impudente) è il tentativo dell’organizzazione di irridere il sentimento, di congelare l’emozione, di squalificare l’umore e l’impulso, tanto più sentimento, emozione, umore e impulso riprenderanno posizione nel territorio (nei sotterranei) dell’irrazionale: lo perturberanno, lo orienteranno di preferenza, … alla variante della rivalsa” (Quaglino, 2001)
Di conseguenza le imprese e le organizzazioni spesso considerano auspicabile che le persone riconoscano emozioni e motivazioni proprie e altrui, siano empatiche, pratichino l’ascolto di sé come strumento di comprensione dell’altro “consentendo così la condivisione del significato degli accadimenti ed una conseguente messa in atto di strategie sintoniche all’interno del contesto organizzativo, cioè la consapevolezza organizzativa… ( Essa) consente la comprensione dei fondamentali rapporti e giochi di potere in atto; l’individuazione delle reti sociali basilari, la percezione delle situazioni interne ed esterne alle organizzazioni (Gallo ed Erba, 2004)”

Se “emozioni” e “benessere”, almeno in teoria, sono ormai riconosciute nei luoghi di lavoro, nei confronti della parola “affettività” apparentemente si mantiene un maggior riserbo.
Ho provato a utilizzare le parole chiave “affettività” e “lavoro” come stimolo per un confronto molto informale con delle compagni e compagne di lavoro e ho costatato che si sono limitati a esprimere pareri sull’opportunità o meno di innamorarsi di colleghi e capi.
“Mai al lavoro… “ hanno dichiarato i più. Ho riscontrato qualche eccezione o blanda apertura da parte di chi pensa che  l’innamoramento sia energetico e faccia persino lavorare di più e meglio.
Ho persino recuperato un’acida considerazione sulla seduttività come strumento per fare carriera.

Eppure l’immediata identificazione affettività = innamoramento mi sembra riduttiva e penso che l’affettività possa trovare altre declinazioni.
Per esempio, come mi insegna l’esperienza, può esserci un innamoramento metaforico per il proprio lavoro.
È quanto, da alcuni anni, avviene a me.
Il mio , almeno per come lo vivo io, è un lavoro invasivo e pervasivo. Uno di quei lavori che non ne vuole sapere di farsi circoscrivere nell’arco delle 8 ore e deborda nel tempo libero. Nonostante io faccia la sindacalista. O forse proprio per questo.
Un lavoro indiscreto anche in senso etimologico, quindi.
La difficoltà a dividere quello che un po’ ritualmente si definiscono “tempi di vita e di lavoro” è legato a motivi soggettivi e oggettivi. Prevalentemente soggettivi, direi.
E qui entra in campo l’affettività. Io amo il mio lavoro e quello che mi dà l’opportunità di fare: studiare, mettermi alla prova, tessere e vivere relazioni stimolanti.
Quando sono sincera fino in fondo, dico che sarei persino disposta a pagare per farlo.

Certo, il mio è un lavoro privilegiato: sono la responsabile della formazione per la CGIL Lombardia cioè svolgo un compito gratificante e stimolante in un luogo che mi è congeniale dal punto di vista ideale. Nessuna contraddizione, almeno apparente.
Come ebbe a dire Primo Levi “se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”.

Fare un lavoro come il mio genera quello stato che Maslow (1954) chiama di autorealizzazione e con cui indica il più alto gradino della scala in cui  ha incluso in ordine gerarchico i bisogni delle persone.

Ma anche una situazione così gratificante presenta dei pericoli, connessi proprio all’innamoramento.
Il primo è costituito dal fatto che non ci si accorga più di quando è necessario staccare: un lavoro troppo coinvolgente, in cui l’affettività gioca un ruolo rilevante, una  sovraesposizione agli stimoli un’impossibilità a distinguere dove comincia e dove finisce il lavoro e soprattutto dall’intenso e costante coinvolgimento emotivo può essere assai affaticante
Ci si diverte, si “ben sta” quando si lavora e questo rischia di far sì che non si smetta mai di lavorare. Ma persino lo stato di eustress richiede una fase di riposo, di quiete, magari di noia per ricaricare le batterie. Non farlo consegna al di stress per eccesso di stimolazione.

Il secondo rischio è quello di mescolare troppo pubblico e privato.
In un lavoro come il mio è inevitabile farlo almeno un po’, ma c’è il vero pericolo consiste anche in questo caso nell’ esagerare.

Dividere, cernere sarebbe  necessario, anche se appare difficile e faticoso.
In certi momenti, ci vorrebbero proprio le formichine che aiutarono Psiche a dividere frumento e orzo, miglio, papaveri e ceci, lenticchie e fave.
Mi servirebbero non tanto per l’ozioso piacere di sapere che cosa faccio per me (sto leggendo per diletto o per autoaggiornamento?) e che cosa  per dovere d’ufficio (scrivo perché mi piace o perché mi può servire per il corso di …….?)  quanto per attenuare un certo allarme che non posso fare a meno di provare.
Io ho da tempo elaborato quella che chiamo la “teoria dei due canestri” in base alla quale ritengo molto pericoloso riporre tutte le uova in un solo paniere: se cade quello si resta senza uova.
Di conseguenza credo fermamente nella necessità di fare investimenti differenziati.
Nella pratica, però, tutto – o quasi – quello che amo fare è legato al mio lavoro.
Nel lavoro si declinano i miei elementi identitari più forti e di conseguenza per me ruolo e identità si confondono, il progetto di vita si articola prevalentemente in esso.

Quando pranzo con un amico, che è un collaboratore insostituibile e una persona a me cara e parliamo di tutto un po’ – di come gira il mondo, del partito democratico, del suo libro, del mio libro, di noi, del prossimo corso – sto lavorando o no?
Quando cerco di trasmettere quanto ho imparato a una giovane collega che stimo e apprezzo e a cui voglio anche un po’ bene svolgo il doveroso e responsabile atto di una senior che adempie all’obbligo morale di preparare una successione o mi concedo un semplice, gratuito piacere?

E ancora: la formazione non è una funzione autonoma, ma una funzione di staff dell’organizzazione. Questo è particolarmente vero in un’organizzazione sindacale in cui essa deve essere uno degli strumenti per la realizzazione della vision e la progettazione formativa si fonda sulla costruzione  di un progetto condiviso.
Alla base di tutto c’è la condivisione dei valori: l’ appartenenza permette di dare un  senso al proprio operare e caratterizza qualitativamente il lavoro, accogliendo al suo interno una forte componente relazionale, emozionale e affettiva.
Condividere una vision costituisce un forte collante, un elemento di aggregazione.
Ciò rende a volte esaltante il lavoro, ma implica anche dei rischi.
Un risultato non soddisfacente, un progetto accarezzato a lungo, ma non portato a buon fine, uno dei ritardi che sono tanto frequenti in un’organizzazione come la mia  rischiano di travalicare le loro prevedibili implicazioni, mi costringono a mettermi in discussione anche sul piano personale, mi impediscono di  circoscriverli nel solo ambito lavorativo

Anche l’attività d’aula durante la quale  entro più direttamente a contatto con i corsisti ha implicazioni affettive.
La formazione ha una forte componente di relazione: come scrisse Bion, la mente umana ha bisogno della relazione con l’altro per svilupparsi e si rende necessario un legame affettivo tra chi forma e chi apprende, un legame che, anche se può essere complementare sul versante delle conoscenze, si presenta frequentemente come simmetrico da quello affettivo.
 “La relazione nella formazione si gioca sul piano della capacità spontanea e insieme voluta di cogliere quanto alberga nell’animo della persona che ci sta di fronte” (Oe, 1995). Per questo il formatore si rispecchia e si riconosce nelle persone cui rivolge la sua azione formativa e per questo gioca continuamente la propria affettività.

L’ultimo rischio è quello di trarre tanta soddisfazione dal proprio lavoro  da non sapervi introdurre elementi di rinnovamento, da riprodurre ciò che si è già fatto e ha funzionato. Eccesso di appagamento, dunque..
Come disse Renzo Piano “Il passato è una costante tentazione. E tuttavia il futuro è l’unico posto dove possiamo andare”.
Anche se la tentazione di fermarsi è forte, occorre trovare l’energia – il necessario amore per il viaggio -  per utilizzare il gradino alto della scala di Ma slow come base per una nuova scalata.
Trasformare il punto di arrivo in punto di partenza: dalla scala dei bisogni a quella  dei desideri.

Qui scorgo altri elementi dell’affettività nel lavoro: il desiderio e la capacità di mettersi in gioco. .
Per trovare nuovi affetti occorre superare le esperienze che hanno gratificato ed esplorare nuovi spazi, allargare gli orizzonti cognitivi e affettivi, osare e sperimentare .

Ciò si traduce nell’amore per  la ricerca di nuove capacità e competenze, nel gusto per imparare a gestire esperienze e fenomeni  innovativi.
Consiste nel desiderio di generare un mondo nuovo, di essere ciò che diversamente non si sarebbe e nel piacere per la fatica, per la ricerca con l’obiettivo di capire meglio il significato di ciò che si è fatto  e generato e di metterlo in relazione con altri aspetti, di dare un senso a sé e al mondo che ci circonda.


1 - Brani di questa storia sono presenti nel libro di Giovanna Galletti, Gianna Mazzini, Luisa Pogliana, Abbracciare l'orso. Storie di affetti e sentimenti nel lavoro, in libreria a fine aprile 2008.

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