BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 13/01/2010

 

A META'. STUDIARE ALL'ESTERO (1)

di Marco Bruschi

Prendere l'aereo per me non è mai stato facile. Ricordo che la prima volta ero stretto fra due miei amici e ogni tanto gli chiedevo con voce piagnucolante di tenermi la mano. Un po' ci giocavo sopra, un po' avevo realmente una paura maledetta. Il fatto è che dopo il decollo ti affidi completamente agli eventi, ti senti impotente, e questo su di me ha sempre avuto un brutto effetto. Anche quella volta prendere l'aereo è stato difficile, ma soprattutto è stato diverso. Mi stavo affidando agli eventi anche allora, ma ero tutt'altro che impotente: avevo scelto. A ogni minuto mi allontanavo sempre di più da tutto quello che mi era familiare e mi avvicinavo a volti sconosciuti e a situazioni e luoghi nuovi. Avevo in bocca tanti sapori diversi e decisi che non era affatto il momento per sceglierne uno. Mi rilassai e lessi delle lettere che mi avevano lasciato persone care, da aprire solo dopo il decollo, mi raccomando. Poi chiusi gli occhi e aspettai l'atterraggio; senza paura.   

Birra e cappuccino
Sto facendo l'Erasmus in una città inglese che si chiama Leicester ma si pronuncia Leister. Guardando la cartina è poco sopra Londra, a circa due ore di treno, nel mezzo dell'Inghilterra.
È a misura di passeggiata, e mi piace camminarci. I primi giorni ho preso del tempo per me e mi sono avventurato alla scoperta dei vicoli, del centro, dei piccoli preziosi negozietti. Mi ricorda un po' Pisa, la città in cui studio in Italia, ma con meno cacche di piccioni e molto più vento. C'è anche una torre qui, ma questa ha un orologio, in cima, e sta dritta. Il centro non è molto grande e non ci sono certi scorci sorprendenti che puoi trovare in Toscana, ma va bene così. Più che altro ci sono posti in cui puoi bere e mangiare, sembra che gli inglesi non facciano altro. Il cibo italiano qua va fortissimo e c'è pieno di ristoranti come “La Tosca”, “Casa Romana”, “San Carlo”. Per non parlare del caffè. Solo nei pressi del centro ci sono tre posti che si chiamano “Caffè Nero”: è una catena di bar dove puoi bere un vero espresso o un cappuccino. Io non ci sono mai andato, perché mi sono portato un pezzo di Italia in valigia – la macchinetta per la moca – e perché un caffè ti costa tre euro e un cappuccino quattro.
Poi naturalmente ci sono i pub. C'è pieno di pub. Ovunque ti giri ne vedi uno e sono affollati fin dalle quattro del pomeriggio di gente che si beve una birra per merenda.
Dopo quasi due mesi è ancora difficile per me abituarmi agli orari. Semplicemente non riesco a cenare alle sei, e quando i miei amici mi dicono che ci si vede alle otto e si va downtown io gli dico pazzi, alle otto sto cucinando. Ma ci devi fare il callo, perché qui tutto chiude prima. I negozi durante la settimana sprangano i battenti alle sei del pomeriggio, alle otto solo nel centro commerciale più grande, e di domenica o sono tutti chiusi o rimangono aperti al massimo fino alle cinque. La maggior parte dei pub chiude attorno a mezzanotte, solo pochi stanno aperti fino all'una o addirittura alle due.
Quello che i giovani inglesi amano fare per divertirsi is clubbing, cioè andare in discoteca. E possibilmente andarci ubriachi. Sembra un luogo comune ma non lo è: gli inglesi bevono molto. Qua le birre non costano tanto rispetto all'Italia e loro ci vanno giù pesante. Nemmeno i cocktails costano tantissimo, ma in compenso fanno schifo.
Un'altra cosa che agli inglesi piace da matti è giocare a biliardo. Non ho mai visto un posto qualsiasi che vendesse alcolici dove non ci fosse anche un biliardo. Spesso ci scommettono sopra, si chiama killing pool, e chi vince piglia tutto. La passione per il biliardo vale solo per i maschi, le ragazze ne hanno un'altra: andare in giro mezze nude durante il week-end. Credo che io sarei già morto se facessi come loro. Naturalmente non tutte, ma molte, troppe, sgambettano di qua e di là per il centro con queste gonne ombelicali e dei top che ti spiegano l'anatomia. Io le guardo attraverso il giubbotto e la sciarpa e a volte non scuoto nemmeno la testa tanto che sono intirizzito dal freddo. Alcune non prendono nemmeno il taxi per andare a casa, si fanno direttamente trasportare dal vento.

 

Carbonara per tutti
Vivo in una delle accomodation fornite dell'università, si chiama Freemen's Common ed è tutta fatta di mattoni rossi. Nel mezzo c'è un grosso parcheggio e tutt'intorno ci sono vari block, che sarebbero delle mini palazzine. Sono una quarantina e in ognuna di esse ci sono dieci stanze singole, una cucina, due bagni e una stanza che si usa per far asciugare i vestiti e per farsi la barba. Intorno ci sono un bel po' di alberi che proprio adesso hanno perso le foglie e, sotto, la famosa erba inglese, verde verde e ben curata. C'è anche una common room, una stanza comune, dove se vuoi ti ci ritrovi per fare una partita a biliardo, a ping pong, o a guardare lo sport in TV. Due o tre volte nel parcheggio, di notte, ci ho visto una volpe.
Qui è come un microcosmo, una rappresentazione del mondo in miniatura. Nel mio block per esempio, su dieci che siamo apparteniamo a sette nazionalità diverse. Ci sono io, un tedesco, due spagnoli, due cinesi, una malese, due nigeriane e una tailandese che però vive da dieci anni a Londra, ha un perfetto accento british e mi chiama darling. E la cosa bella è che ognuno porta con sé le proprie abitudini e le mischia a quelle degli altri. Succede soprattutto col cibo, perché è una cosa con cui ci si rapporta tutti e tutti i giorni. Il mio amico tedesco è a cavallo, perché è abituato a mangiare alle sette di sera e per lui è un po' come essere a casa. A volte ci troviamo e mi chiede se voglio mangiare con lui. Io dico: come no?, ma poi mi trovo a mezzanotte a trangugiare un colpevolissimo sandwich perché mi è tornata la fame.
I due spagnoli sono pigri e lenti. Uno si è fatto mandare da casa salsicce e salami tipici di laggiù: chorizo e cistorra. A volte la domenica mi invitano a partecipare a certi pranzi che fanno alle tre del pomeriggio con i loro connazionali che vivono qui intorno. Vado pazzo per le loro “tortilla de patatas”, che in pratica sono tortini di patata e cipolla e per cuocerle ci vuole un'ora: così mi hanno detto.
A volte sono capitato anche in mezzo a delle cene con le mie coinquiline cinesi, che sono state gentilissime e hanno offerto del cibo a tutti. A me hanno anche regalato le bacchette e io ho cominciato a spiluccare dappertutto in quei piattoni pieni di ogni ben d'iddio. Loro si sono stupite che non mangiassi il riso, perché praticamente era come se saltassi la portata principale.
Del cibo tailandese e nigeriano so solo che è molto speziato. Le nigeriane, più che altro, mettono manciate di chili dappertutto e quando offrono qualcosa, o declino o divento tutto rosso dopo la prima forchettata.
Io non sono un gran cuoco, ma una sera ho cucinato carbonara per tutti. È piaciuta.

Piccole cose
È nelle piccole cose che in casi come questo si crea integrazione. Come la prima settimana, quando eravamo tutti spaesati e bastava guardarsi in faccia per capire se eri uno studente internazionale che non sapeva nemmeno dove fosse il più vicino negozio di vestiti. Per trovare un paio di ciabatte io ci ho messo quattro giorni.
Me l'ha fatto notare proprio oggi una mia amica svedese: quando vai in Erasmus è come se ti tirassero su con una calamita e ti sradicassero dal tuo habitat per metterti da un altra parte. Un posto diverso, diversa la lingua, diverso tutto. Ed è chiaro che è per forza più facile parlare con la gente, conoscersi e fare amicizie. Ti dai consigli. Parli di cose che magari possono sembrare banali, ma che non lo sono affatto. Dov'è l'ufficio per fare queste carte, a che orario passa il 46, come diavolo faccio a connettermi al computer della biblioteca e per favore dimmi dov'è il posto più economico per comprare le coperte che ieri notte ho dormito con sopra il cappotto. È come un formicaio, tutti aiutano e chiedono aiuto, e chiunque sembra una delle persone più gentili che tu abbia mai conosciuto. È semplicissimo fare nuove amicizie, perché ti ritrovi in un posto ed è come se fosse sottinteso che ci si debba conoscere tutti. E allora sotto con le domande di rito: come ti chiami, da dove vieni, cosa studi, da quale parte dell'Italia?, Toscana? oh lovely!
Arriva un momento in cui ti domandi se le stesse persone, conosciute a casa tua, in un contesto differente, sarebbero state diverse; ma poi lasci perdere.
Durante la Welcome Week, la settimana di benvenuto organizzata dall'università per gli studenti stranieri, avrò incontrato non so quante persone. Un crogiolo di nazionalità diverse. Che poi ricordarsi le facce, ma soprattutto i nomi, è un'impresa impossibile. Ogni tanto qualcuno per strada mi saluta e io ricambio calorosamente, ma poi passo i successivi cinque minuti a domandarmi chi diavolo fosse. La Welcome Week è una bella trovata, perché ti aiuta a partire e a fare gruppo, a non sentirti troppo spaesato e a darti nuove inaspettate possibilità. Ci sono stati un mucchio di International Party, che continuano anche adesso, ma dopo un po' smetti di andarci, perché alla fine  sono sempre le stesse facce.

Society e seminary
È bello il modo in cui qui l'università entra nella vita degli studenti, o forse è il contrario. Fatto sta che alunni e palazzo sembrano essere molto più vicini che in Italia. Sembra che l'università capisca di più i problemi e le esigenze dei ragazzi. Un esempio è il pacchettino che abbiamo ricevuto a casa, proveniente dall'unione studentesca, che oltre a diversi numeri utili conteneva un bel preservativo rosa. Anche quando siamo andati a registrarci al centro sanitario c'era questo cartello con su scritto “fai il test della clamidia: è gratis e avrai un regalo in cambio”. Il regalo erano una dozzina di profilattici e un portachiavi a forma di spermatozoo che si illumina di notte. Non ho mai ricevuto tanto per aver fatto pipì in un barattolo.
Durante la seconda settimana è stata montata una grossa tenda nel giardino e se volevi entrarci, il primo giorno, dovevi fare una coda di un'ora. Io ero curioso e ho chiesto, mi hanno risposto che lì dentro c'erano le society. Le society sarebbero le associazioni studentesche e  per curiosità, alla fine della giornata, quando la coda era ormai evaporata, sono andato a vedere. C'era un percorso obbligato da fare, una serpentina, e c'erano tavoli ovunque, con gente che ti offriva di entrare nella loro società perché era la migliore di tutte. C'erano cose come il club del teatro, dell'arte, del karate. Ma c''erano anche cose come la società del curry,  del metal, delle rievocazioni medievali e del frisbee. C'era anche la società del vino, ma l'ho scoperto dopo. Questi quando c'è bel tempo si siedono a chiacchiera nel giardino con una bottiglia aperta davanti. Ho anche fatto un pensierino sulla società dell'amaca, ma poi davvero non ho avuto la forza per chiedere come diavolo gli fosse venuta in mente una cosa del genere.
E l'università mette a disposizione aule e spazi per tutto questo. Non dà soldi, perché le società si autofinanziano con una quota d'iscrizione dei partecipanti, ma è già abbastanza. Il solo fatto che sia stata montata la tenda gigante per ospitare la presentazione è significativo. 
Poi qua, dentro l'università, c'è sempre vita sociale. C'è un pub che si chiama Scholar e che è aperto tutti i giorni, fin dalla mattina, ed è incorporato all'interno di uno degli edifici. Dal pub si può accedere a delle sale da ballo sparse lì intorno, dove a giorni comandati mettono la musica. Ogni mercoledì per esempio c'è questo party che si chiama Red Leicester, proprio come il formaggio che fanno qui, che tra l'altro mi piace un sacco. Poi ogni domenica c'è quest'altra cosa di cui non mi ricordo il nome, in cui entri gratis e ti svendono le birre. Con questi eventi ci guadagnano, questo è chiaro; ma poco importa. È la mentalità che mi ha stupito, il creare un luogo d'incontro all'interno dell'università, che non è più un point of sale dove vai a farti dare dei voti, ma qualcosa di più.
Una cosa che non sapevo riguardo le associazioni, ma che abbiamo scoperto con delizia, è che durante la settimana di presentazione, per attirare nuovi membri, organizzano incontri introduttivi in cui spessissimo ci scappa la cena o il pranzo gratis. Io e i miei amici allora si è cominciato a fare il giro. Siamo andati anche al buffet di quella del frisbee e devo dire che non era niente male. Un giorno stavo tornando a casa e ho incontrato un mio amico, gli ho chiesto dove se ne andasse.
- Cibo gratis.
La questione è che siamo finiti nella società musulmana, il che non sarebbe stato assolutamente un problema, se non che io e lui, il mio amico, quello che mi aveva proposto entusiasta di seguirlo, eravamo gli unici non musulmani a sentire il discorso pre-cena –perché sì, c'era da attendere a un discorso prima di poter mangiare, ma noi non ci eravamo lasciati intimorire da una cosa così da nulla– ed era chiaro, lampante, che si fosse lì soltanto per mangiare a sbafo. Abbiamo aspettato la prima pausa dell'oratore e mentre lui beveva dalla sua bottiglietta d'acqua noi siamo sgattaiolati via con la coda fra le gambe.
Qui le lezioni sono diverse. Ci sono le lecture, che sono molto simili alle lezioni che abbiamo in Italia, con centinaia di studenti che ascoltano un insegnante, e poi c'è una cosa chiamata seminary. Non bisogna confondersi, perché se si traduce con la nostra parola “seminario” si sbaglia. I seminary sono delle lezioni a cui attendono non più di quindici persone e sono un approfondimento. I gruppi dei seminary sono sempre gli stessi, e anche l'insegnante, che viene chiamato il tuo seminary tutor. Queste specie di lezioni ristrette rappresentano una grande possibilità per interagire con il professore e i colleghi e di dire la tua.
Ogni università dell'Inghilterra adotta questo metodo di insegnamento, ma non è tutto rose e fiori. Qui la scuola costa, e tanto. Fino ai primi anni '90 era gratis, poi piano piano sempre più studenti hanno iniziato a frequentarla e le tasse hanno cominciato a salire per far fronte all'affluenza e al contempo mantenere lo stesso metodo di insegnamento. Adesso sono circa tremila sterline per tutto l'anno e contando che si tratta di scuola pubblica e che la sterlina è più forte dell'euro di circa il dieci per cento sono un sacco di soldi. Se non hai la possibilità lo Stato ti aiuta con un prestito e con una borsa di studio, il cui ammontare dipende da quanto guadagna la tua famiglia. Il prestito copre le tasse di iscrizione e le spese per l'alloggio, se ti serve, e se e quando inizi a guadagnare più di quindicimila sterline all'anno dovrai ridarlo indietro piano piano. Da noi, almeno a Pisa, le cose sono diverse. Non paghi le tasse di iscrizione se i tuoi genitori non guadagnano un tot e puoi anche ricevere dei soldi dall'università. Se i tuoi guadagnano un po' di più non ti vengono dati soldi, ma ci sono comunque delle fasce di reddito per la riduzione delle tasse.
È meglio questa strada o la nostra? Io credo sia meglio il metodo inglese, perché il nodo centrale rimane la qualità dell'insegnamento e le opportunità offerte. Qua paghi molto, ma sei sicuro che avrai molto in cambio. Non parlo della preparazione degli insegnanti, ma delle strutture. Se studi letteratura non conta se sei in un'aula fatiscente, come spesso accade, ma se fai chimica o medicina, per esempio, le attrezzature contano eccome. Non poter far pratica con uno strumento perché non c'è rappresenta una possibilità in meno per lo studente. Certi miei amici che fanno medicina si leccherebbero le dita sapendo che quando qui inizi il tirocinio hai un tutor personale che ti segue per tutta la giornata in ospedale, che puoi fare degli incontri col primario a gruppi di cinque e che quando studi come rapportarti al paziente vieni filmato e poi potrai rivederti e farti consigliare dal tuo insegnante il modo in cui potrai migliorare.
Anche in questo caso si tratta di un fatto di mentalità. Molte persone che conosco si sono iscritte al primo anno di università giusto per provare; non gli è costato niente, o relativamente poco. Qua se ti iscrivi giusto per provare sai che un giorno dovrai ridare indietro la tassa di iscrizione e magari ci pensi due volte. È un po' triste dirlo, ma nella mia esperienza personale ho incontrato tante persone che hanno preso l'università come una specie di limbo, come una scusa per rimandare qualcosa, forse la vita vera. Qua l'università è un patto chiaro e importante fin da subito, estremamente proiettato verso il futuro.

A metà
Ieri ho sentito una conversazione fra due mie amiche.
- È strano. Più passa il tempo e più sembra difficile parlare in inglese con le persone che vivono con te, mentre invece dovrebbe essere più facile.
- È perché cominciate a conoscervi meglio.
Dopo un po' si va al di là degli entusiasmi iniziali, si comincia a grattare la superficie e cominciano a nascere le cose. Chi conoscevi solo un poco magari adesso lo chiami amico, altre persone le perdi di vista, altre ancora entrano inaspettatamente nella tua vita. Persone di cui non sapevi niente fuorché la nazionalità e il nome –se te lo ricordavi– possono stupirti, o deluderti, con l'andar del tempo. Scavando, si sa, si rischia sempre di trovare qualche pietra. E cominciano anche a nascere i primi gruppi di amici, più grandi o più piccoli. Le cose si sono assestate e ognuno ha avuto la sua possibilità, il suo nuovo inizio. Perché qua non ti conosce nessuno e il tuo passato è come se non esistesse. Ti porti solo dietro un po' dei pregiudizi sulla tua nazionalità, come i tedeschi che sono ferrei, gli italiani donnaioli e i francesi con la puzza sotto il naso. Sono cose su cui alla fine ridi e con cui stai al gioco, poi alcuni sono anche veri, come che parliamo con le mani.
Cominci anche a conoscere il posto e sai dove andare per prendere una birra e dove non andare se non ti piace un certo tipo di musica, o se non vuoi spendere un occhio. Impari a guardare prima a destra e poi a sinistra –e non il contrario– se non vuoi essere ammazzato mentre attraversi la strada. Impari che se non ti piacciono le melanzane non devi prendere qualcosa che contenga delle aubergine. Hai provato almeno una volta, e se dici il contrario menti, il cibo che qua va così di moda e sembra tanto caro a tutti. Il junk food. Hamburger, onion rings (letteralmente: anelli di cipolla) o le cheese chips, che sono patatine fritte cosparse di formaggio fuso, a cui puoi aggiungere salse a piacimento. Alla fine pensavo di morire.
Quella stanza di tre metri per quattro ti sembra sempre di più la tua, e sempre meno schifosa rispetto alla prima volta che l'hai vista, anche se continua a parlare un'altra lingua, e questo può sembrarti un po' strano e rischi che ti succeda di essere stanco una sera, magari, non sta scritto da nessuna parte che si debba andare sempre in discoteca, e magari sei in un pub, durante una serata tranquilla passata semplicemente a chiacchierare, e gli altri propongono questo club che si dice sia gratis stasera; let's go; ma declini gentilmente e non ti fai convincere dai soliti oh, come on!; ti stringi nelle spalle, sorridi e dici: I go home; vado a casa; e mentre ritorni camminando il vento ha cessato di soffiare finalmente, fa solo freddo, ma non è di quelli umidi e noiosi, è secco e può perfino piacere; quella sera ti piace; mentre cammini ti guardi intorno e ripensi che quella volta in quel posto avete avuto quella bella chiacchierata, e poi lì ancora le ragazze si sono volute fermare a comprare le ali di pollo fritte alle quattro di notte, e nel parco alla tua destra hai visto il tuo primo scoiattolo inglese e ti sei stupito di quanto fosse folta la sua coda, e quella discoteca che sta aperta fino alle sei di mattina, rarità assoluta, ha dei bei murales alle pareti ma puzza di piscio da far schifo, ed ecco il ristorante libanese, ottimo quel pranzo e ottima la compagnia; e mentre il buio ti circonda ti rendi improvvisamente conto di avere già dei ricordi qui, poi magari pensi ai tuoi amici e alle tue cose là, in Italia, e per un attimo hai come l'impressione che siano un poco evanescenti; smetti improvvisamente di camminare, ti guardi intorno spaesato e ti chiedi cosa sia quello che provi proprio adesso, per la prima volta, e quando scopri che ti senti un po' come diviso a metà non sai come rapportartici, se gioirne o averne paura, perché è una cosa tanto strana; e poi realizzi che per la prima volta non hai detto: vado nella mia stanza, ma qualcosa di ben diverso; e ti scopri a sorridere con te stesso.


1 - bruschima@gmail.com

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