BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 27/05/2002

CERTIFICAZIONE ETICA: SA8000

di Andrea Casadei

Il capitalismo sta cambiando.

Non è né diventato più buono, né sta trasformando la sua morale, semplicemente sta adattando i propri sistemi alle nuove e continue richieste che il mercato gli sta imponendo. Diversi sono i fattori che stanno determinando questa trasformazione, uno di questi è il superamento delle barriere tra le aree di competenza dell’azienda e le sue responsabilità.

L’opinione pubblica, oramai, sembra non accettar più che alcuni temi restino di dominio esclusivo della politica (quali – prevalentemente - il rispetto ambientale, la tutela di alcuni prodotti e tradizioni tipiche, il rispetto dei diritti umani inalienabili) di conseguenza ha cominciato a far pressione sulle imprese affinché queste inizino ad assumersi le proprie responsabilità non solo nei confronti dello sviluppo ambientale sostenibile, ma anche (e forse soprattutto), in relazione ai diritti umani sia dei propri dipendenti sia di coloro che hanno a che fare - anche indirettamente - con tali organizzazioni.

È oramai evidente che l’attenzione dell’opinione pubblica si sta orientando non più solo verso il puro e semplice prezzo del prodotto, ma anche verso altri elementi ad esso associato, quali la qualità del materiale, il riguardo ambientale, l’utilizzo di sostanze biodegradabili, lo sfruttamento del lavoro minorile, il rispetto dei dipendenti, il ricorso di punizioni corporali o multe verso i lavoratori.

Questa tendenza sempre più marcata ed esplicita si sta facendo sempre più strada nella coscienza dei consumatori al punto che non potrà, a breve, non essere considerata da coloro che producono e/o commerciano un bene.

È opportuno sottolineare che tutte le principali conquiste sociali finora acquisite sono il frutto di lunghe ed intense battaglie da parte di quell’opinione pubblica maggiormente sensibile a particolari argomenti.

Negli ultimi vent’anni si sono verificate diverse ondate d’attivismo politico da parte dei consumatori, queste hanno portato a cambiamenti rilevanti nel modo di pensare e produrre un bene.

Nella prima la richiesta riguardava una più alta qualità dei beni e dei servizi, più convenienza, caratteristiche migliori dei prodotti ed un’aumentata sicurezza degli stessi. Per far fronte a tal richiesta si è creata la certificazione ISO 9000 per il controllo di qualità. Questa è diventata il modello di qualità riconosciuto in tutto il mondo, grazie anche ad una certificazione indipendente, a standards riconosciuti ed a verifiche regolari condotte da esperti imparziali.

Con la seconda ondata, l’attenzione si spostò dai prodotti alle attività delle imprese, con particolare riguardo all’ambiente. Il risultato fu che diverse compagnie cominciarono ad esaminare l’intero ciclo produttivo secondo un’ottica più attenta all’ecosistema ambientale. Nacque così ISO 14000, sviluppata per monitorare la gestione dei sistemi ambientali nell’impresa: a partire dagli acquisti delle materie prime fino alla gestione dei rifiuti ed allo smaltimento degli scarti in aria ed acqua.

Oggi, una terza ondata sta sorgendo: i consumatori si stanno chiedendo cosa si cela dietro la marca dei prodotti che comprano. Domande come “i miei vestiti o i cosmetici che compro sono costruiti in un’officina malfamata? Le mie scarpe sono fabbricate utilizzando lo sfruttamento di minori? Il mio ristorante preferito discrimina contro le donne e le minoranze?” sono sempre più frequenti.

Ultimamente, si sta facendo sempre più strada nell’opinione pubblica una particolare attenzione etica verso il prodotto da acquistare.

Ma, concretamente, cosa significa essere un’impresa eticamente a posto?

Un’azienda che fa lavorare bambini con meno di 14 anni o, addirittura, di nove (secondo l’UNICEF sono 250 milioni i minori che lavorano nel mondo; più di 500 mila in Italia, per l’ISTAT), un datore di lavoro che infligge ai suoi dipendenti punizioni corporali o violenze psicologiche o, quantomeno, li copre di insulti, un imprenditore che costringe i suoi operai a lavorare più di 60 ore settimanali, un altro che non concede neppure un giorno di riposo su sette, non si possono definire certo condotte eticamente corrette.

Cosa pensereste di un’azienda responsabile di uno o più di questi comportamenti? Comprereste ancora i suoi prodotti, magari allettati da un prezzo più basso?

Oramai, buona parte dei consumatori responsabili ricercano sempre maggiori informazioni di questo tipo sul prodotto acquistato, non s’accontentano più di prodotti qualitativamente buoni e che rispettino l’ambiente, ma vogliono - anzi pretendono - che chi li ha realizzati assicuri loro d’aver rispettato almeno i principi basilari del diritti umani riconosciuti.

Non ha importanza se l’impresa è in California o in Giappone, o se il problema è col venditore, fornitore o subfornitore, con l’attuale comunicazione istantanea dei mass-media e di internet, lo scandalo che colpisce un’impresa - anche se dall’altra parte del mondo - può fare il giro del globo in pochissimo tempo.

A questo punto, però, si presenta un altro interrogativo: chi garantisce che quanto dice l’azienda risponda a verità? È sufficiente una scritta sul pallone o sul vestito ad assicurare il mancato sfruttamento di lavoro minorile?  Sembra proprio di no: alcune ricerche hanno messo in luce che “le aziende (o meglio i subappaltatori che si occupano della produzione nei Paesi del terzo mondo) non esitino a certificare il falso pur di acquietare le coscienze degli acquirenti”. [1]

L’autocertificazione, evidentemente, non basta. È necessario, quindi, un ente esterno ed indipendente all’impresa che assicuri, monitori e verifichi il raggiungimento di standard etici prefissati.

Questo problema della tutela dei lavoratori, minorenni o adulti che siano, non è certo un’esclusiva del Terzo mondo. Basti pensare a tutti i laboratori più o meno clandestini scoperti nell’ultimo decennio in Italia (e non solo nel meridione) in cui giovanissimi (soprattutto ragazzine) erano costretti a lavorare con orari massacranti e retribuzioni da fame.

Un esempio recente è quello del Dicembre 1997 quando ”i Carabinieri ispezionarono venti ditte tessili tra Bronte e Randazzo, proprio sotto l’Etna (specializzate in abiti e capi d’abbigliamento per conto terzi), trovando irregolarità di tutti i tipi, lavoro nero come norma e dieci bambine costrette a stare otto ore al giorno davanti alla macchina da cucire per 400 mila lire al mese. Solo tre delle ditte esaminate risultarono in regola.” [2]

Se l’obiettivo principale dell’imprenditore è spendere il meno possibile, una strategia usata per raggiungere tale obiettivo è risparmiare sugli operai, magari assumendo soggetti “deboli” (giovani, donne, bambini, fino ad arrivare alle bambine). Di solito, al ”primo livello di subappalto è difficile riscontrare irregolarità vistose ed “eccessi” nello sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, anche perché è più semplice il monitoraggio. Al secondo livello (in cui si effettuano le lavorazioni di alcune parti del prodotto finito), invece, essendo più difficile effettuare un controllo accurato, è più probabile che si verifichino delle irregolarità.” [3]

Il tentativo di fornire una certificazione “etica” alle aziende che rispettano gli standards sociali riconosciuti si è concretizzato col marchio SA 8000, che riprende lo stesso criterio della certificazione ISO 9000.

Dopo indagini accurate quelle imprese che rispondono ai requisiti etici prestabiliti otterrebbero la certificazione, acquisendo così il diritto d’apporre sulla propria merce un marchio riconoscibile dal consumatore. Quest’ultimo avrà così la garanzia che un organismo esterno ed indipendente all’azienda avrà controllato - e continuerà a monitorare periodicamente - il comportamento dell’impresa. Proprio come la certificazione ISO 9000, quella etica estende i suoi effetti non solo ai produttori, ma agisce anche a monte, sui fornitori. Prima di essere produttori, infatti, le imprese sono acquirenti di beni realizzati da altri, per cui un’azienda certificata a livello etico dovrà controllare anche i propri acquisti, imponendo così ai fornitori lo stesso rispetto delle regole etiche a lei richieste.

Ma quali sono questi “requisiti etici” da rispettare?

Innanzitutto va specificato che per ottenere la certificazione “etica” le imprese devono rispondere ad una serie di requisiti minimi individuati dall’Agenzia di Accreditamento creata dal Council on Economic Priorities (CEPAA). Del CEPAA fanno parte esponenti di Organizzazioni Non Governative come Amnesty International, società di consulenza come SGS e Kpmg, Università ed altre imprese, come Body Shop e Avon. Questi “requisiti etici” sono basati principalmente sui modelli dei diritti umani internazionali già esistenti, quali la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la Convenzione dei Diritti del Bambino e le varie Convenzioni dell’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) riguardo la regolamentazione del lavoro (minorile e non). 

La certificazione SA 8000 è, come già accennato, costruita sui meriti provati delle tecniche di verifica ISO, in cui si specificano azioni correttive e preventive, s’incoraggiando continui miglioramenti e ci si concentra sui sistemi di gestione e di documentazione aziendali che forniscono a questi sistemi efficacia. ”Una particolarità rispetto a tutti gli altri standards previsti dai sistemi di certificazione, è il ruolo previsto per le Organizzazioni Non Governative ed i Sindacati del paese in cui l’impresa ha le sue fabbriche: è insieme con loro che vengono espletate le procedure di accreditamento che devono tener conto delle particolarità locali. A queste organizzazioni, inoltre, è riconosciuto il diritto di denunciare il mancato rispetto delle regole previste dal protocollo. Se le accuse sono fondate, la certificazione può essere revocata”. [4]

La certificazione etica SA 8000 fornisce degli standards trasparenti, misurabili e verificabili in nove aree essenziali: [5]

-         lavoro minorile: ovviamente è proibito il lavoro dei minori al di sotto dei 15 anni e qualora l’azienda se ne fosse avvalsa in passato deve impegnarsi a riparare garantendo ai bambini la possibilità di poter partecipare a programmi di recupero. Inoltre, le imprese certificate devono disporre un fondo per l’educazione dei minori che potrebbero perdere il lavoro a causa dell’osservazione di questi standards.

-         lavoro forzato: anch’esso è proibito. Ai lavoratori non può essere richiesto di cedere i propri documenti o di pagare un “acconto” come condizione per lavorare.

-         salute e sicurezza: le imprese devono rispettare gli standards minimi per un ambiente di lavoro sicuro e salubre, includendo in ciò almeno l’accesso all’acqua potabile, una stanza in cui riposarsi, un equipaggiamento di sicurezza adeguato e la formazione necessaria per svolgere il lavoro.

-         libertà d’associazione: deve essere garantito il diritto di formare ed unirsi in un sindacato a scelta e di poter richiedere un contratto collettivo, senza che ciò generi ritorsioni o intimidazioni verso i lavoratori.

-         discriminazione: non si devono verificare discriminazioni razziali, di casta, di nazionalità, religione, genere, disabilità, orientamento sessuale, d’appartenenza  sindacale o politico.

-         pratiche disciplinari: sono proibite, ovviamente, le punizioni corporali, la coercizione fisica come quella mentale, le multe e l’ingiuria nei confronti dei lavoratori.

-         orario di lavoro: si possono fare al massimo 48 ore settimanali, con (minimo) un giorno di riposo alla settimana. Gli straordinari, se previsti, non possono superare le 12 ore settimanali e vanno retribuiti con una tariffa speciale.

-         salario: deve rispettare tutti gli standards minimi legali locali e fornire una rendita sufficiente per coprire almeno i bisogni primari, se non qualcosa in più.

-         sistema organizzativo: le imprese devono nominare un rappresentante responsabile della politica aziendale, pianificare ed eseguire i controlli richiesti, selezionare i fornitori rispetto alla loro conformità agli standards etici, realizzare le azioni correttive necessarie per la certificazione etica, rendersi disponibili alle verifiche mostrando la documentazione ed i registri necessari.

Uno dei meriti principali di questa certificazione sociale è di fornire ”una cornice di lavoro comune per le risorse etiche per imprese d’ogni dimensione e tipo, in qualsiasi luogo del mondo”. [6]

Dal punto di vista di un’impresa, quanto gli conviene richiedere la certificazione etica? È veramente un vantaggio avere anche questo certificato oppure rimane solo un ulteriore onere? E, soprattutto, quali sono poi i benefici che otterrebbe da questa certificazione?

A parte l’adesione morale a questi principi etici (che gran parte degli imprenditori probabilmente condividerà), al momento della scelta - se aderire o meno a questa certificazione - inevitabilmente emergeranno dubbi e perplessità. Il rischio reale che si presenta nel vaglio delle possibilità (aderire o non aderire?) è di progettare il proprio futuro imprenditoriale - e quindi i relativi investimenti – con una concezione del profitto a breve termine, legato al vantaggio immediato. A causa della pressante concorrenza e del ruolo che l’immagine aziendale gioca per i consumatori, è necessario, oramai, avere una concezione strategica del profitto – e quindi degli investimenti necessari per realizzarlo – per poter rimanere nel mercato.

In queste nuove coordinate d’analisi l’ottica a lungo termine diventa vincente e, quindi, concetti quali credibilità, immagine aziendale, visibilità pubblica, impegno ambientale, responsabilità sociale ed etica, assumono connotati nuovi e primari, sia nell’ottica dei consumatori che degli investitori. È opportuno considerare che queste osservazioni hanno valore sia per le multinazionali sia (forse soprattutto) per le piccole-medie imprese le quali dovranno confrontarsi sempre più spesso con le prime.

In questa situazione concorrenziale sarà sempre più importante - se non strategico - l’immagine sociale, che l’azienda riuscirà ad offrire all’opinione pubblica. Se questa verrà gestita ad un livello pari all’improvvisazione, probabilmente i risultati faranno riferimento prevalentemente al caso. Diversamente, se l’impresa gestirà attivamente la propria immagine consapevole non solo dei possibili rischi, ma, soprattutto, delle eventuali occasioni legate al mercato, si otterrà un ritorno d’immagine più corrispondente ai risultati desiderati.

A questo punto è essenziale domandarsi, è possibile stimare in termini economici un crollo d’immagine? Ed un possibile rialzo?

L’Amministratore delegato della ODL Carlo Maria Pensa - un’azienda che produce componenti nel settore delle macchine distributrici di bevande e birra con 40 dipendenti e un fatturato attorno ai 14 miliardi – descrive così il vantaggio che gli può offrire la certificazione etica: “con la nuova certificazione (quella ambientale ed etica che si aggiunge a quella di qualità) la mia azienda si pone come azienda “eccellente” rispetto a tutti i concorrenti: il che si traduce in un vantaggio concreto sia sul piano dell’immagine sia per la possibilità di proporre e chiedere ordinazioni e contratti a lungo termine”. [7]

La certificazione SA 8000, grazie alle caratteristiche implicite che gli sono proprie, definisce – ed impone - anche un nuovo orientamento, una nuova sfida alle imprese non solo “per rimanere al passo del mercato” ma, soprattutto, per concepire e sviluppare obiettivi innovativi e nuove frontiere da affrontare. Questi concetti sono già realtà per alcune di queste imprese, tra cui la Coop Italia, che illustra in questo modo il proprio impegno etico: ”il codice di responsabilità sociale ci aiuta a sviluppare uno “stile commerciale” che sia economicamente valido e allo stesso tempo socialmente responsabile. Lo sforzo è quello di migliorare la qualità della vita dei lavoratori, specialmente delle categorie più deboli, e assicurare che sempre più fornitori aderiscano alle condizioni previste dal codice. L’obiettivo, infatti, è quello di stimolare un processo a catena di adeguamento da parte di fornitori e sub-fornitori che ne influenzi il comportamento, ne accresca la qualità etica e sociale e contribuisca a diffondere un atteggiamento corretto. Coop italia è convinta che fra i propri compiti non ci sia solo quello di fornire ai soci i prodotti e i servizi più convenienti, salubri e sicuri, ma che ci debba essere anche l’impegno di rispondere ai bisogni di correttezza, di solidarietà e di mutualità che nascono tra i cittadini per migliorare la coscienza etica e sociale. Un prodotto è etico quando nel processo produttivo sono rispettati anche i fondamentali diritti umani dei lavoratori. È quello che si può definire la nuova frontiera della qualità, la negazione del principio secondo il quale le necessità del mercato prevaricano quelle dell’uomo.” [8]

Oltre alle considerazioni e motivazioni già accennate, se ne aggiungono altre non meno importanti.

Innanzi tutto, investire in azioni eticamente corrette determina e stimola un processo a cascata in cui saranno sempre più coloro che investiranno e che, quindi, daranno credito sociale a tale settore, aumentando in tal modo la portata collettiva del fenomeno.

Qualcosa di simile ad un ”effetto palla di neve”.

Inoltre, va sottolineato un dato di fatto importante rilevato dall’andamento della Borsa: ”l’etica fa profitto. La Dow Jones rileva il “Dow Jones Sustainability Group Index” (Djsgi): un indice che raggruppa e monitora le performance borsistiche  di aziende [eticamente] “sostenibili”. Otto milioni di miliardi di lire sono una cifra impressionante, che dimostra come le aziende giudicate altamente sostenibili dal Dow Jones facciano profitto tanto quanto i concorrenti meno socialmente responsabili. Secondo uno studio pubblicato negli USA a fine ’99 dalla società di fondi d’investimento Wiesenberg, i titoli socialmente selezionati offrono rendimenti mediamente più elevati degli altri e performance invidiabili registrano anche fondi etici e responsabili.” [9]

Questi sono i benefici ed i vantaggi principali che una certificazione etica può offrire a qualunque impresa, piccola media o grande che sia. Come sottolineato più volte questi vantaggi non sono solo a livello sociale, e quindi d’immagine aziendale, ma si presentano anche nella sfera economica.

Si va da una superiore competitività ad una maggiore credibilità che si traduce concretamente nel poter richiedere ai fornitori ordini e contratti a lungo termine, nell’avere un andamento positivo dei propri titoli e nel poter ottimizzare le spese.

Ovviamente, l’adesione alla certificazione etica SA 8000 determinerà un nuovo investimento da parte dell’impresa che si traduce - dal suo punto di vista - ad una nuova spesa e a nuovi oneri a suo carico. Queste sono considerazioni più che legittime, oltre che ovvie, ma non furono anche le stesse resistenze espresse verso la certificazione ambientale ISO 14000 e, ancora prima, all’ISO 9000?

Eppure sono sempre più gli imprenditori che ultimamente certificano la propria attività con gli standards ISO.

Oltre a ciò, non va dimenticato la continua e pressante richiesta da parte dell’opinione pubblica per la realizzazione di prodotti sempre più “eticamente corretti”. Questa tendenza non può non essere presa in considerazione da coloro che producono e/o commerciano un bene.

Ragion per cui questi imprenditori dovranno adattarsi in misura sempre maggiore a tale esigenza, rispondendo ad una gamma d’interessi più ampia che va oltre la semplice produzione e commercializzazione di un prodotto.

Ignorare tale richieste equivale - nella maggior parte dei casi - a “tirarsi fuori dal mercato”, non riconoscendo quelli che saranno, probabilmente, i rapporti economici prossimi venturi.


[1] Fonte: Una sigla per certificare il rispetto dell’infanzia, V. Manna, La Repubblica, 13 Maggio 1998

[2] Fonte: Sfruttamento e globalizzazione alle falde dell’Etna, A. Mangano, ManiTese, 1998

[3]   ibidem

[4] Fonte: Le regole da rispettare per ottenere il certificato etico, La Repubblica, 13 Maggio 1999

[5] Fonte: SA 8000 Requirements, Human Resource Magazine, n° 6, June 1999

[6] Fonte: Financial Times, December 12, 1997

[7] Fonte: Un “timbro” etico-ambientale per spingere la competitività, Il Sole 24 Ore, 14 Dicembre 1999

[8] Fonte: La qualità non ha prezzo, A. Somenzi, Coop Consumatori, Maggio 2000

[9] Fonte: Il Dow Jones scopre l’etica del profitto, C. Jesi, Il Sole 24 Ore, Febbraio 2000

 

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