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Pubblicato in data: 12/02/2007

L'AUTOSTIMA

di Rosanna Celestino

“Una definizione di ‘bassa stima’ di sé?

Davanti ad una porta automatica penso sempre che potrebbe non aprirsi!” 

Nella mia esperienza di formazione alle pari opportunità, ho incontrato tante donne che temevano “le porte automatiche”: l’idea di non essere viste, di non essere “lette”, di non essere abbastanza “presenti”, di avere un corpo “inconsistente”.

In una traduzione letterale, l’autostima è la considerazione, stima, che abbiamo di noi stessi. Alla sua base c’è quindi una “auto valutazione”, un valore che ci attribuiamo sulla base delle esperienze affettive (sentirci accettati, riconosciuti) e cognitive (le conoscenze, le cose che sappiamo fare) accumulate,

Il concetto di valutazione ci porta, inevitabilmente, all’idea di un “sistema di riferimento” con il quale misurarsi. Il sistema di riferimento sul quale si basa la valutazione di sé è costituito dall’insieme delle “regole” e “valori” culturali, sociali, economici e politici propri del contesto nel quale la persona si confronta e si valuta.

L’autostima, nel suo significato di “valutazione di sé”, non è un “fatto privato” che si gioca nell’intimità individuale: è un fatto sociale, culturale, politico ed economico.

Per questo motivo, per molti anni, il tema dell’autostima è stato al centro del pensiero femminista:

quando non trovi nei libri di economia il “valore” del lavoro casalingo, quando ci devono essere “quote” di rappresentanza, quando la religione o la politica parlano solo al maschile (pensate alla parola “governante”: se la decliniamo al maschile pensiamo ad un Capo di Stato, se la decliniamo al femminile pensiamo ad una persona di servizio), quando in molti paesi le donne non possono avere la proprietà di beni (terra, casa, mucca o altro…), ecc., è naturale pensare di “valere meno”. E comportarsi di conseguenza.

Interessanti studi effettuati negli anni novanta a Los Angeles sulla popolazione femminile nera ed ispanica, (dopo i gravi disordini che devastarono la città) hanno evidenziato il rapporto tra una bassa valutazione di sé e i comportamenti distruttivi e autodistruttivi: dall’alcolismo alla prostituzione, dalle violenze famigliari ai disturbi dell’alimentazione. Se non mi attribuisco valore…il mio corpo non ha valore, la mia vita non ha valore, l’altro non ha valore.

Ma l’autostima non è un “problema di genere”, bensì un aspetto che riguarda donne e uomini. È vero che l’uomo si è, fino ad oggi, nascosto abbastanza bene dietro certezze, modelli, sistemi di pensiero che gli hanno permesso di confrontarsi, e quindi riconoscersi, “in positivo”; ma è anche vero che oggi l’uomo affronta una crisi esistenziale profonda perché le sue certezze si sono frantumate nello scontro con modelli sempre più esigenti (prestazioni “estreme” nel lavoro, nello sport, nel sesso), il suo ruolo ”dominante” è squilibrato nel rapporto con un ruolo femminile più forte e consapevole, la pressione costante (ansia da prestazione) induce una pervasiva sensazione d’inadeguatezza. Dagli atteggiamenti autodistruttivi a quelli distruttivi, la gamma delle conseguenze della “disistima” maschile è variegata: dalla deriva sociale agli estremismi ideologici, dall’edonismo sfrenato all’aumento delle violenze sessuali (lo stupro come ultima manifestazione della supremazia, del dominio sull’altro).

Ma anche nella nostra piccola e conosciuta vita quotidiana, più cerchiamo di acquisire i simboli e gli “emblemi” della riuscita, del successo, più sentiamo un vuoto, una mancanza, una insoddisfazione senza nome. Così pensiamo di dover acquisire altri simboli, altri emblemi… Ci assegniamo nuovi obiettivi: una casa più bella, una seconda casa, una macchina nuova, un viaggio avventuroso, una nuova avventura, ecc. Entriamo in un “trip” (in un viaggio) che ci travolge: ci muoviamo, corriamo, senza sapere dove stiamo andando, perché, per soddisfare cosa. Apparentemente diamo un grande valore a noi stessi ma in realtà il valore è degli “oggetti” della nostra vita (un valore economico: il “prezzo” di ciò che abbiamo e facciamo).

Riassumendo, il valore che ci attribuiamo è eterodiretto, è indotto, guidato, formato, dal contesto. Fin dall’attesa di nostra madre, i suoi pensieri su di noi, le sue immaginazioni, i suoi sogni, così come le sue ansie, le sue paure o le sue incertezze, hanno rappresentato le nostre prime esperienze di accettazione o rifiuto, riconoscimento o disconoscimento.

Da bambini, poi, i nostri comportamenti sono stati accettati o rifiutati a seconda delle regole condivise in quel dato luogo e momento: “un maschietto non piange”, “questi sono giochi da maschio”, “non fare la femminuccia”, “non fare il maschiaccio”…: imperativi comportamentali che, allontanandoci da noi stessi, dai nostri desideri, dalla nostra curiosità, ci portano ad adeguarci a modelli esterni per rispondere al bisogno istintivo di sentirci accettati, riconosciuti dall’altro.

Per soddisfare questo bisogno siamo disposti a tutto: anche ad abbandonare noi stessi, ad annullarci.

Questa “rincorsa” al riconoscimento, anziché condizione, bisogno naturale, può diventare l’obiettivo stesso della nostra vita.

Quando esprimiamo una valutazione su noi stessi, quando ci descriviamo, di cosa, realmente stiamo parlando?

Quando pensiamo di poter o non poter fare qualcosa, di poter o non poter cambiare, quando pensiamo a noi come a “vincenti” o a “falliti”, quel pensiero, cosa esprime?

Quando “cerchiamo noi stessi”, sappiamo cosa cercare e, sapremmo riconoscerci una volta “trovati”?

Da cosa è formato questo “noi stessi”? Chi è questo “noi stessi”?

L’idea che abbiamo di “noi stessi” (e la valutazione che ne consegue) non è forse formata da idee, parole, costruzioni prodotte dalla relazione con il “mondo” esterno?

Un mondo esterno che ha un bisogno altrettanto istintivo del nostro bisogno di riconoscimento: il bisogno di controllo.

La società ha bisogno di controllare i comportamenti e l’individuo ha bisogno di sentirsi parte della società: una complementarietà tanto “perfetta” quanto “pericolosa”. L’uomo è un essere sociale ed in quanto tale ha bisogno di “sentirsi parte” e, nello stesso tempo, sempre come essere sociale, ha bisogno di ridurre l’ansia prodotta dall’incertezza controllando e prevedendo i comportamenti propri e dell’altro.

La pericolosità della complementarietà “appartenenza-controllo”, è nell’allontanamento progressivo dall’individuo come “originalità”, “unicità”.

Quando il modello esterno prende il sopravvento, quando va al di la della “regolazione” dei rapporti all’interno di un gruppo, di una comunità, di una società, per diventare l’unico riferimento, il metro, la bilancia del bene e del male, del giusto e sbagliato, del bello e del brutto, l’uomo, come individuo, è perso, si è allontanato tragicamente da se stesso. Ciò che desidera ha a che vedere con se stesso o, piuttosto, con ciò che pensa di “dover” desiderare?

Noi siamo si un prodotto relazionale (la relazione con il “mondo”), ma possiamo essere in relazione, in scambio con l’altro (con il “mondo”), solo se siamo in grado di riconoscere i nostri bisogni, desideri, talenti. Altrimenti siamo “persi” in un magma di bisogni, desideri, talenti che non ci appartengono, ci costringiamo a vivere una vita che non è la nostra.

Avendo lavorato per molti anni con gruppi di donne, ho raccolto tante storie di vite “perse”: scelte fatte sempre per qualcun altro (per i genitori, per i figli, per il marito, ecc.), accettazione di situazioni ingiuste, la rinuncia ad un proprio spazio ed ad un proprio tempo.

La condizione di “allontanamento” da se ha raggiunto, oggi, livelli parossistici.

Ma come riprendere contatto con se stessi se questo “se stessi”, in fondo, è una costruzione astratta, un’insieme di idee indotte in una sorta di gioco degli specchi? C’è un qualcosa che “sono io”, inequivocabilmente, sinceramente, che testimoni della mia esistenza ma che non sia una “biografia” di idee-parole prodotta dal gioco di specchi dell’appartenenza e del controllo?

C’è un altro modo di intendere l’autostima? C’è un senso, un approccio meno “meccanico” ed eteroditetto?

Nel francese parlato, autostima si traduce con “confiance en soi” : fiducia in sé. Fiducia nelle proprie capacità, che non significa sentirsi super uomini o super donne, ma, “semplicemente”, saper contare sulla propria conoscenza di sé, sulla consapevolezza dei propri punti forti e dei propri limiti (un ragionamento a parte sarebbe interessante sul concetto di limite: limite come confine che può essere inteso sia come “chiusura e protezione” ma anche, è più correttamente come “luogo dell’incontro” con l’altro, con la diversità. Pensiamo ai confini di stato: è si luogo che delimita un territorio, ma contemporaneamente è luogo di incontro di due territori diversi; e “le zone di confine” sono sempre particolari e ricche di “contaminazioni” culturali. Una lettura positiva del concetto di limite ci porta a pensarlo come individuazione di opportunità, di potenzialità).

Saper di “poter sbagliare” perché si ha la fiducia nelle proprie capacità di apprendere e cambiare. Saper di poter perdere, perché si ha la fiducia nella propria capacità di “ricominciare”. Saper di poter ridere o piangere, di mostrare la propria gioia o il dolore, perché si ha la consapevolezza che la propria “dignità”, il proprio valore, dipendono proprio dalla nostra capacità di essere “trasparenti”. Saper esprimere il proprio consenso ed il disappunto, le proprie aspettative e delusioni, perché si ha la fiducia nella propria capacità di esporsi all’altro, di ascoltare e “scambiare” con l’altro (comunicare), nella consapevolezza che “l’altro” non è una minaccia, ma una opportunità da esplorare. Saper stare con gli altri e saper stare da soli. In altre parole, questa “confiance en soi” è volersi bene, prendersi per mano. Non si tratta di adorare la propria immagine riflessa come nel mito di Narciso, ma di sentire la propria “presenza”, esserci, sentire il proprio peso, l’energia, la forza vitale del corpo, sentire il proprio respiro che si diffonde in tutto il corpo: questo è quel “ben-essere” in cui l’io aderisce al suo stato corporeo, lasciandosi invadere dalla calma, dal silenzio, ascoltando e ascoltandosi vivere.

“C’è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza” – F. Nietzsche Also sprach Zarathustra.

Ecco il terreno dell’incontro, del contatto, ecco “se stessi”: il nostro corpo.

Il nostro corpo ha memorizzato tutte le nostre esperienze, ma non ne parla, esso è le nostre esperienze.

Il nostro corpo, ogni momento nuovo e, nello stesso tempo, memoria viva; il nostro corpo che raccoglie il passato ma vive, istante per istante, il presente.

Il tema del tempo è importante. Pensiamoci un momento (prendiamoci il tempo!): i nostri pensieri sono sempre avvinti nel passato e proiettati nel futuro:

Il passato è un recriminare su cose fatte o non fatte, che non possono cambiare; il futuro è, spesso, un procrastinare le situazioni, un rimandare le decisioni o un “immaginare” anziché agire.

Questo non vuol dire che il passato non ci in-segna (ci segna, ci incide, ci forma), che il passato non debba essere presente nel nostro pensiero; così come pensare al futuro non vuol dire solo procrastinare o immaginare. Per Binswanger il progetto (valutare il futuro anticipandolo a partire da una corretta valutazione del presente e del passato) è il tratto costitutivo dell’esistenza umana.

Prendiamo esempio dal nostro corpo: il corpo è sempre nel presente, in-corpora il passato, che, in quanto incorporato, è presente, ma non può (se non nei film di fantascienza) essere nel futuro che è un tempo solo pensabile. Possiamo dire che se il corpo è il territorio, il luogo dell’incontro con “noi stessi”, il presente è il tempo di tale incontro?

Noi siamo il nostro corpo, anche se spesso ne siamo troppo distanti: il nostro corpo è vissuto come “macchina”, come mezzo, che ci permette di realizzare il pensiero.

Ma è il nostro corpo che pensa e che “parla”:

"...i versi, ahimè, significano così poco, se scritti presto. Si dovrebbe aspettare a farne, raccogliere saggezza e dolcezza per una vita intera, una vita lunga, se possibile, per riuscire forse, alla fine, a scrivere dieci righe che sono buone. Perché i versi non sono, come si crede, sentimenti (che si hanno abbastanza presto), sono esperienze.

Per un solo verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna sentire come volano gli uccelli, e sapere i movimenti con cui i piccoli fiori si aprono al mattino. Bisogna sapere ripensare a cammini e contrade sconosciute, a incontri inattesi, ad addii che si vedevano da tanto in arrivo, a giochi dell'infanzia ancora inesplicati...a giorni in stanze quiete e raccolte...al mare, a notti di viaggio...E non basta neppure avere ricordi. Bisogna saperli dimenticare, quando sono molti, e attendere, bisogna avere la grande pazienza di attendere che tornino. Perché neppure i ricordi sono ancora esperienze. Solo quando essi diventano in noi sangue, sguardo, gesto, anonimi e indistinguibili da noi, soltanto allora può succedere che la prima parola di un verso, in un'ora rarissima, s'alzi ed esca dal loro centro.

(I quaderni di Malte Laurids Brigge di Rainer Maria Rilke)

Entrare in contatto con la parte più profonda e naturale di noi attraverso il nostro corpo, il suo respiro, il suo movimento; incontrare il corpo che pensa e parla senza entrare nella “trappola” del pensiero e della parola.

C’è uno strumento che può aiutarci a riprendere contatto con noi stessi, ad incontrare i nostri sentimenti, le nostre emozioni, i nostri desideri, la nostra forza inespressa; che può aiutarci a trovare o ritrovare quel ben-essere che dipende dalla “fiducia in sé”: la maschera neutra.

La maschera, in tutte le civiltà ed in tutti i tempi, è sempre stata un “mediatore”: simbolo, rappresentazione, porta sul mistero, ponte tra umano e divino.

I latini facevano riferimento alla parola “persona” definendo la maschera che gli attori adattavano al volto e, per estensione, il ruolo che un individuo rappresenta nel sociale. In tutta la Commedia dell’Arte, ma anche nel teatro tradizionale giapponese, il NÖ, la maschera designa un carattere, una “personalità” definita: indossando una determinata maschera, l’attore assume la postura, il movimento, la voce, l’atteggiamento mentale, esistenziale della “persona” da quella maschera rappresentata. Le maschere della Commedia dell’Arte sono mezze maschere, maschere che lasciano libera la bocca, quindi sono maschere che parlano a differenza delle maschere giapponesi che, essendo intere sono mute: la voce, le parole sono date da un “coro”, mentre l’attore con la maschera usa solo il corpo.

La maschera neutra, la più recente nella storia delle maschere, non ha una funzione rappresentativa: essa nasce per scopi didattici, per permettere all’attore di prendere consapevolezza del proprio corpo, delle proprie emozioni.

Si tratta di una maschera intera, quindi muta, bianca o color cuoio, con le fessure degli occhi e della bocca.

La maschera neutra ha un’origine precisa: nasce dalla riflessione di Jaques Copeau, attore e regista francese che, all’inizio del secolo scorso, getta le basi di un teatro austero, semplice, libero da convenzioni, stereotipi e abitudini; un teatro che risente fortemente della lezione di Stanislavskij. La maschera senza espressione, neutra appunto, diventa, per lui e i suoi attori, uno strumento essenziale:

essa permette di “svelare” la natura più profonda dell’attore, di “togliere i veli” dell’identità, “raccolta” nel volto e della “biografia” testimoniata dalla parola.

L’attore, indossando la maschera neutra, si denuda: eliminando il volto e la parola, il corpo, la sua forza e la sua energia vitale, così come la sua fragilità e i suoi blocchi, si scopre, si manifesta, diventa visibile mostrando “noi stessi”.

Nel film The mask di Charles Russel, il timido protagonista Stanley Ipkiss (l’attore Jim Carrey), ad un certo punto cerca di spiegare cosa accade quando indossa la maschera: è come se tutto quello che sei negli angoli più nascosti, venisse fuori.

Nei gruppi in formazione la proposta di usare la maschera neutra crea sempre curiosità e timore. Presentata la maschera, si propone di cominciare ad indossarla, semplicemente per imparare a respirare: una respirazione lenta e regolare che servirà nei momenti di tensione.

Dopo questo primo approccio, con l’ausilio della videocamera, si comincia il lavoro vero e proprio: muoversi nello spazio, da soli e in gruppo, condurre il gruppo o seguirlo, spostarsi su linee tracciate che s’intersecano a rete.

La fase successiva è d’osservazione in video, analisi e “decodifica”: il corpo, la postura, il movimento, il ritmo del gruppo, la capacità di “creare” coreografie spontanee, improvvisate sullo stimolo delle poche regole date, sono gli elementi che permettono un collegamento metaforico, analogico con altri livelli della realtà.

Il proprio “esporsi”, la propria capacità di interpretare la direzione dell’altro (l’ascolto), la capacità di entrare in relazione con più persone, con l’intero gruppo, coniugando direzioni individuali (obiettivi individuali) e gruppo, la capacità di “sentire” il gruppo e condurlo seguendo un proprio progetto ma, nello stesso tempo, essendo sensibile e attento alla capacità del gruppo stesso.

Le coreografie spontanee, che appaiono come geometrie studiate a tavolino, rappresentano, forse l’esperienza più gratificante:

verificare che il gruppo, se in possesso di regole semplici, chiare e condivise, ricerca naturalmente l’armonia, tende all’integrazione, che l’individuo, inserito in una “rete” relazionale consapevole, è in grado di seguire una propria “strada” senza perdersi ma beneficiando delle altre “strade”, che diventano altre possibilità, altri punti di vista, altre storie.

Così, grazie alla maschera neutra, al gruppo, allo spazio e al ritmo, ognuno di noi può intraprendere un viaggio che lo porterà a sviluppare

“Nessuno sa perché sono nate le maschere. Forse all’inizio servivano durante la caccia, perché facilitavano l’avvicinamento della preda. (…) Può darsi che siano nate come strumenti di un potere sovrumano. Le maschere furono i primi idoli. (…) Venivano indossate per enfatizzare le danze rituali, per spaventare il nemico in battaglia, per placare gli dèi.”(D.McNeill).

Come abbiamo già detto, nella Commedia dell’Arte, le maschere sintetizzavano precise personalità. Dietro la “maschera” di Carnevale ci nascondiamo, così come, a volte, ci nascondiamo dietro la “maschera sociale”. Ma la maschera neutra, nata per studiare il corpo e il suo movimento, non ci nasconde, non ci imprigiona in un personaggio, al contrario, ci può “svelare” molto di noi.

Attraverso il lavoro corporeo con la maschera neutra, possiamo osservare e sentire la nostra energia, la nostra armonia, la nostra forza, la nostra capacità espressiva, poetica, possiamo essere consapevoli del nostro movimento, del peso e della leggerezza…e, quando ri-scopriamo il volto, questo, finalmente è “l’anima del corpo” (Wittgenstein).

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