BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 25/09/2007

LO SPECCHIO DI ALICE: LA CULTURA DEL BENESSERE NELLE ORGANIZZAZIONI

di Rosanna Celestino

Se è vero che la competizione si gioca sul fattore più adattabile e imprevedibile dell’organizzazione, la persona, promuovere il ben-essere può essere un buon investimento.
Il benessere è un problema individuale o c’è una responsabilità “sociale”? Cercare di stare bene nell’organizzazione nella quale si lavora è una responsabilità del singolo? Le domande non sono così banali come a prima vista potrebbe sembrare.
Di benessere si parla molto, addirittura si comincia a parlare di “felicità” nelle organizzazioni; sembrano furoreggiare manuali di “sopravvivenza organizzativa”: come essere felici nonostante capi indifferenti e/o incompetenti; come vivere la precarietà come opportunità; come affrontare e vincere la prepotenza e i prepotenti in azienda; ecc.
Certo il benessere ha una dimensione soggettiva importante ma, mi chiedo, non c’è una dimensione “oggettiva” altrettanto importante?  Se tutti impariamo a “sopravvivere felicemente” in organizzazioni dove si sta male, le organizzazioni avranno mai l’esigenza reale di acquisire e conservare una “cultura del ben-essere”?
Da qui una ricerca strutturata in tre parti:

  1. conversazioni sul benessere con imprenditori e manager di aziende italiane e case history;
  2. analisi delle tendenze nella letteratura organizzativa;
  3. strumenti di “misurazione”, rilevamento, costruzione e mantenimento del benessere (1).

Il concetto di benessere nelle organizzazioni si riferisce al modo in cui una persona vive la relazione con l'organizzazione in cui lavora.
Molta letteratura sostiene che tanto più una persona sente di appartenere all'organizzazione, perché ne condivide la cultura, tanto più “sta bene”, si sente a proprio agio ed è in grado di dispiegare il proprio potenziale.
Tanto più la cultura organizzativa, intesa come insieme di abitudini, attitudini, credenze e valori, è trasparente e condivisa, tanto più le persone sono in grado di rispondere velocemente ai cambiamenti dell’ambiente interno ed esterno, di rispondere positivamente all’instabilità e all’incertezza, di trovare motivazione nel lavoro e innovazione nell’affrontare i problemi.
Ma come si coniuga questo rapporto “benessere/appartenenza” con le esigenze e, a volte, le emergenze dell’organizzazione impegnata ad ottimizzare i costi operativi, a trasferire produzioni, ad esternalizzare attività?
La cultura di un’organizzazione è un fenomeno complesso e la sua efficacia, nella produzione di benessere, è strettamente collegata alla coerenza tra i valori dichiarati e i comportamenti agiti: come coniugare la coerenza e la trasparenza con la de-fisicizzazione e l’interculturalità dell’azienda globale?
Certo, nell’epoca della iperconpetizione, dell’incertezza, della velocità e del cambiamento continuo, l’ancoraggio ai valori è fondamentale: la coerenza tra dichiarato ed agito è una vera sfida per le organizzazioni. Tale sfida deve fare i conti con uno scenario caratterizzato da contraddizioni e paradossi.
Lo stesso concetto di appartenenza è cambiato. È importante considerare l’evoluzione del concetto, evoluzione che segue quella del panorama socioculturale e tecnologico: se ieri l’appartenenza all’organizzazione si fondava su sicurezza e continuità, su conformità normativa e contenimento dell’ansia, oggi si misura sull’adesione a valori e a progetti che vanno oltre l’organizzazione e che si riflettono sulla comunità (rilevante il ritorno economico dei codici etici e della responsabilità sociale); oggi l’appartenenza e l’identificazione si costruiscono sulla combinazione di progetti personali e collettivi, di impegno e coerenza verso la persona e l’ambiente, di sviluppo, esplorazione e realizzazione del potenziale.
Il rapporto lineare comando – reazione - controllo è sostituito da motivazione – azione - responsabilità: questa è la relazione che sostanzia quello “sviluppo dell’intelligenza collettiva” di cui scrive il filosofo francese Pierre Levy descrivendo i bisogni delle organizzazioni.
In questo panorama il ben-essere si porrebbe come obiettivo che va oltre la sicurezza e la salute per entrare nell’ordine di “senso”, di progetto di vita, di realizzazione. Come dire che, promuovere ben-essere nell’organizzazione, significhi poter contare su risorse “intelligenti”, su capacità quali cooperatività e problem solving, responsabilità ed innovazione.
Ma se nei rapporti contrattuali, prevalesse la tendenza a forme di lavoro “usa e getta”, come raggiungere il livello ottimale di partecipazione al progetto organizzativo? E avrebbe senso pensare allo sviluppo dell’intelligenza se quella intelligenza è solo di passaggio? Se l’organizzazione non ha il tempo di far fare esperienza, deve rivolgersi a specialisti: esperienza e specializzazione hanno a che vedere con il benessere?
Se è vero che la competizione si gioca sul fattore più adattabile e imprevedibile dell’organizzazione, la persona, promuovere il ben-essere può essere un buon investimento.
Ma quali sono le condizioni perché di ben-essere si possa parlare, quali gli strumenti per costruirlo e mantenerlo, quali i parametri per misurarlo, monitorarlo, adeguarlo alle mutevoli esigenze di persone e contesti?
Aspetti hard e soft si integrano e completano: dai modelli organizzativi ai modelli di comunicazione, dai  sistemi premianti  al “sistema relazionale”, dalle caratteristiche ambientali (spazi, luce, colori) alla trasparenza.
Sono queste le macro aree nelle quali si sviluppa il “paesaggio” del ben-essere nelle organizzazioni e che rappresentano l’oggetto di indagine della ricerca.
E voi cosa ne pensate?


1 - Ho avviato un blog sul sito della mia società (www.celestinoassociati.com) per raccogliere osservazioni, riflessioni ed esperienze.

 

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