BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 26/01/2009

UN INVESTIMENTO CHE NON TRADISCE: LE PERSONE

di Rosanna Celestino

Il bellissimo film di Bertrand Tavernier “Ricomincia da oggi” (Francia, 1998), si chiude con una frase del protagonista: “dai nostri padri ereditiamo un mucchio di pietre e il coraggio di sollevarle”.

Spesso si prova la sensazione (e non la sola sensazione) di essere davanti ad un mucchio di pietre, di macerie: certezze, regole, idee, tesi, interi sistemi di pensiero e di azione crollati in un attimo. Ci si sente incapaci di agire e quasi paralizzati al pensiero di dover fare qualcosa, di dover cominciare a ricostruire.
In realtà i crolli non avvengono mai in un attimo ma sono processi lunghi, lenti, fatti di piccole crepe, di timidi sussulti ma noi siamo bravissimi ad ignorare questi segnali, più o meno consapevolmente e responsabilmente.
Sta di fatto che quando il crollo avviene siamo sempre impreparati, siamo sempre spaesati e pronti a cercare colpevoli o ineluttabilità storiche, anziché a comprendere la “natura” del crollo; ci muoviamo parossisticamente, temiamo le macerie e cerchiamo di guardare altrove. Ma le macerie, le pietre, sono lì, ed è da lì che bisogna ricominciare: cominciare a sollevare ogni pietra, a conoscere e comprendere la costruzione, a immaginare e progettare un nuovo paesaggio.
Fuori dalla metafora, la crisi mondiale del sistema finanziario con tutta la scia di difficoltà nell’economia reale, può rappresentare, come ogni crisi, un’opportunità per ripensare radicalmente al “fare impresa”. Raccogliendo l’osservazione di Diego Della Valle (1)“ubriachi di finanza, torniamo all’industria”, possiamo approfondire cosa significa questo tornare all’industria, in altre parole, tornare ad un’imprenditoria ancorata all’economia reale, al prodotto, alla relazione di fiducia con il cliente, all’investimento nell’innovazione, alla visione a lungo periodo, al valore della cultura e di un sapere costruito sull’esperienza e, “condicio sine qua non”, alla centralità della persona, alla strategicità delle persone che lavorano nell’impresa.
Seppure da anni la letteratura e una parte di pratica organizzativa dichiarino la centralità della persona nel successo dell’Azienda, la realtà quotidiana è lontanissima dalle dichiarazioni. Eppure il rapporto tra benessere delle persone, produttività e redditività è stretto e fortemente connesso. Ma fino ad oggi, così come accade ad esempio con il protocollo di Kyoto, nonostante la conoscenza razionale e la consapevolezza concreta dei danni del “disimpegno” (verso il benessere delle persone e/o del clima), si continua in maniera automatica, quasi compulsiva, a perseguire una politica del profitto che penalizza e mortifica l’unico valore reale dell’Azienda: le sue persone, appunto, la loro intelligenza, la loro passione.
Il primato della finanza sull’impresa, così come delle incompetenze sulla competenza manageriale, hanno mostrato tutta la loro capacità distruttiva. Ora bisogna ricominciare e ricominciare dalle persone. Forse deluderà gli analisti ma, diciamocelo, la crisi del sistema finanziario è il risultato di un profondo e lungo sonno della cultura e non dell’ineluttabilità del destino: una cultura del fare impresa, una cultura manageriale, una cultura organizzativa fondata sull’etica, sull’essere responsabili delle conseguenze delle proprie azioni, delle scelte e dei comportamenti.
Ora è necessario costruire un patto forte tra persone e impresa, una partecipazione reale, un reale investimento sull’intelligenza collettiva, sulle potenzialità, sul ben-essere.
Nel luglio del 2003 per una rubrica curata da Luigi Cancrini su L’Unità, scrivevo a proposito di “diritti negati”: la differenza sostanziale tra imprenditori e finanzieri è che i primi creano sviluppo - innovazione, tecnologia, acculturamento, benessere – di cui beneficiano tutti, mentre i secondi producono ricchezza a beneficio di pochi. Nel contesto di quell’intervento, la differenza era enfatizzata, ma ritorna sostanzialmente nelle affermazioni di Della Valle. Tornare all’industria non significa abbandonare la finanza, ma ribaltare il primato: la finanza deve essere al servizio dello sviluppo dell’impresa e non viceversa.
E questo significa puntare sulle persone e sul ruolo responsabile dell’impresa nel tessuto sociale: le aziende possono incidere positivamente nella realtà quotidiana e indirizzare la progettualità delle persone.
Letteratura e istituzioni formali sono ricchissime in materia: responsabilità sociale, codice etico, ISO 9000, ISO 14000, SA 8000. Ma sappiamo come, svuotate da comportamenti coerenti, letteratura e istituzioni sono solo carta, etichette che producono, sul lungo termine, più danno che vantaggio: all’inizio l’investimento ritorna perché “il consumatore” è sensibile ai temi della responsabilità e dell’etica, del rispetto dell’ambiente e dei diritti umani ma, quando lo scollamento tra dichiarato ed agito è forte, si verifica un “effetto boomerang” che può travolgere tutto e tutti.
Penso al caso di una importante azienda alimentare che ha costruito la sua identità, il suo brand sul concetto “fiducia” e che è stata “sfiduciata” proprio dalle sue persone. Sarà difficile per questa azienda ricostruire la propria identità se non partendo dalle sue persone. Così mi viene in mente un altro caso, meno grave e necessariamente anonimo ma significativo: quello di una grande e famosa multinazionale che ha ottimi prodotti ma che lentamente, con un fenomeno che si allarga come i cerchi nell’acqua creati da un sassolino, è boicottata dalle sue persone. I dipendenti, con determinazione e accuratezza, non acquistano i prodotti della loro azienda e non perché non siano buoni o convenienti ma perché tra ciò che l’azienda dichiara all’esterno in termini di attenzione alla persona, al suo benessere, al suo sviluppo, ecc. ecc. e ciò che essi vivono quotidianamente, tra il brand e l’esperienza concreta di chi “dentro” quel marchio vive, c’è un tale scollamento, una tale distanza, da svuotare di senso le dichiarazioni, producendo rancore e disistima.

Nel novembre 2006 ho avviato una ricerca sul tema della cultura del benessere nelle organizzazioni: era mia intenzione continuare il lavoro avviato con il libro “Team building, fare squadra nelle organizzazioni”, (2) andando alle radici di quel ben-essere che rende possibile e concreta la partecipazione attiva delle persone nei progetti aziendali.
Ho incontrato molti manager e imprenditori ma il libro che doveva raccogliere testimonianze ed esperienze non sono ancora riuscita a scriverlo. Perché?
Perché volendo essere un lavoro di ricognizione del reale piuttosto che un’opera teorica, troppe volte mi sono trovata di fronte a quello “svuotamento di senso” prodotto dall’eccessiva distanza tra dichiarato e agito.
Troppo spesso mi sono trovata di fronte a montagne di codici etici, procedure comportamentali, statuti interni, bilanci intangibili, brand identity, certificazioni ISO di varia natura … parole, parole, parole, come cantava Mina, non agganciate a comportamenti osservabili, esperienze dirette, testimonianze informali.
Poche (ancora troppo poche per poter avere il rilievo di una ricognizione) sono state le occasioni in cui le parole avevano un corpo, una corrispondenza in comportamenti, gesti, azioni.
"...i versi, ahimè, significano così poco, se scritti presto. Si dovrebbe aspettare a farne; raccogliere saggezza e dolcezza per una vita intera, una vita lunga, se possibile, per riuscire forse, alla fine, a scrivere dieci righe che sono buone. Perché i versi non sono, come si crede, sentimenti (che si hanno abbastanza presto), sono esperienze.
Per un solo verso bisogna vedere molte città, uomini e cose, bisogna conoscere gli animali, bisogna sentire come volano gli uccelli, e sapere i movimenti con cui i piccoli fiori si aprono al mattino. Bisogna sapere ripensare a cammini e contrade sconosciute, a incontri inattesi, ad addii che si vedevano da tanto in arrivo, a giochi dell'infanzia ancora inesplicati... a giorni in stanze quiete e raccolte... al mare, a notti di viaggio... E non basta neppure avere ricordi. Bisogna saperli dimenticare, quando sono molti, e attendere; bisogna avere la grande pazienza di attendere che tornino. Perché neppure i ricordi sono ancora esperienze. Solo quando essi diventano in noi sangue, sguardo, gesto, anonimi e indistinguibili da noi, soltanto allora può succedere che la prima parola di un verso, in un'ora rarissima, s'alzi ed esca dal loro centro.” (3)
Il testo di Rilke interpreta magnificamente il tema dell’”incarnazione” dei valori. I valori vivono attraverso i comportamenti. E quando sono “vivi” sono quella forza attrattiva che permette il riconoscersi, che permette la condivisione, che permette alle persone di esprimere il meglio di sé e all’azienda di “testimoniarsi” attraverso le sue persone.

Il concetto di ben-essere nelle organizzazioni si riferisce al modo in cui una persona vive la relazione con l'organizzazione in cui lavora.
Molta letteratura sostiene che tanto più una persona sente di appartenere all'organizzazione, perché ne condivide la cultura, tanto più “sta bene”, si sente a proprio agio ed è in grado di dispiegare il proprio potenziale.
Tanto più la cultura organizzativa, intesa come insieme di abitudini, attitudini, credenze e valori, è trasparente e condivisa, tanto più le persone sono in grado di rispondere velocemente ai cambiamenti dell’ambiente interno ed esterno, di rispondere positivamente all’instabilità e all’incertezza, di trovare motivazione nel lavoro e innovazione nell’affrontare i problemi.
La cultura di un’organizzazione è un fenomeno complesso e la sua efficacia, nella produzione di benessere, è strettamente collegata alla coerenza tra i valori dichiarati e i comportamenti agiti.
Nell’epoca dell’iper-competizione, dell’incertezza, della velocità e del cambiamento continuo, l’ancoraggio ai valori è fondamentale: la coerenza tra dichiarato ed agito è una vera sfida per le organizzazioni. Tale sfida deve fare i conti con uno scenario caratterizzato da contraddizioni e paradossi e, come abbiamo visto, non tutte le organizzazioni sono in grado di affrontarla o di comprenderne la natura: a volte le aziende investono cifre enormi per elaborati “make up” strategici mentre potrebbero ottenere di più, magari con investimenti più contenuti, prendendosi cura delle proprie persone, delle loro idee, delle loro aspettative, delle loro motivazioni.
Come faccio a propormi sul mercato con una determinata “personalità”, investendo in pubblicità, comunicazione, grafica e packaging coerenti, se poi questa “personalità” è, al suo interno, “altra”?  Su quali basi potrò costruire quel “senso di appartenenza” che può fare la differenza nella competizione?
Il senso di appartenenza è cambiato ed è importante considerarne l’evoluzione: se ieri l’appartenenza all’organizzazione si fondava su sicurezza e continuità, su conformità normativa e contenimento dell’ansia, oggi si misura sull’adesione a valori e a progetti che vanno oltre l’organizzazione e che si riflettono sulla comunità (rilevante il ritorno economico dei codici etici e della responsabilità sociale come abbiamo visto precedentemente); oggi l’appartenenza e l’identificazione si costruiscono sulla combinazione di progetti personali e collettivi, di impegno e coerenza verso la persona e l’ambiente, di sviluppo, esplorazione e realizzazione del potenziale.
Il rapporto lineare comando – reazione - controllo è sostituito da motivazione – azione - responsabilità: questa è la relazione che sostanzia quello “sviluppo dell’intelligenza collettiva” di cui scrive il filosofo francese Pierre Levy descrivendo i bisogni delle organizzazioni.
In questo panorama il ben-essere si pone come obiettivo che va oltre la sicurezza e la salute per entrare nell’ordine di “senso”, di progetto di vita, di realizzazione.
Se è vero che la competizione si gioca sul fattore più adattabile e imprevedibile dell’organizzazione, la persona, promuovere il ben-essere può essere un buon investimento:
promuovere ben-essere significa poter contare su risorse “intelligenti” e su capacità quali cooperazione, responsabilità ed innovazione.
Ma se nei rapporti prevale la tendenza a forme di lavoro “usa e getta”, come raggiungere il livello ottimale di partecipazione al progetto organizzativo?
E avrebbe senso pensare allo sviluppo dell’intelligenza se quella intelligenza è “solo di passaggio”?
Se l’organizzazione non ha il tempo di far fare esperienza si rischia l’incompetenza generalizzata.
Il ben-essere ha anche una dimensione soggettiva importante e il “come si sta nelle cose” dipende anche dagli atteggiamenti personali verso il cambiamento, la difficoltà, l’autorità, ecc.
Quindi condizione indispensabile per promuovere il ben-essere in una organizzazione, è la capacità di ascolto dell’azienda, la non omologazione, la vocazione alla differenza, all’interculturalità all’interno di una “cultura quadro” semplice e condivisa e insieme una visione a l ungo termine, un progetto “di vita”.
In una conversazione con Pier luigi Celli gli ho chiesto:
Pier Luigi, qual è, se c’è, la caratteristica che distingue aziende sane da aziende malate?
La stessa che distingue le persone: la posizione. La persona (o organizzazione) malata è distesa, gli manca la prospettiva.  La persona (o organizzazione) sana ha una posizione eretta, può guardarsi intorno. Ha un orizzonte. Una visione.


1 - Intervista apparsa su La Repubblica il 29 settembre 2008

2 - Rosanna Celestino, Team building. Fare squadra nelle organizzazioni, Guerini e Associati, 2005.

3 - Rainer Maria Rilke (Praga 1875 –Montreux 1926) I Quaderni di Malte Laurids Brigge, Garzanti, Milano, 2004.

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