BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 24/08/2010

 

ERRORI MANAGERIALI LETTI CON L'AIUTO DI DANTE ALIGHIERI

di Enrico Cerni (1)

Nel leggere la Divina Commedia, possiamo trovare una miriade di spunti per una migliore gestione delle aziende, riconoscendo i sette “peccati capitali” così da evitarli e inseguendo le “virtù” del Paradiso. Nel Purgatorio, Dante Alighieri descrive il monte dove le anime purgano i peccati commessi in vita. Con la mente abbarbicata alle realtà e ai linguaggi delle nostre aziende contemporanee, abbiamo oggi l’opportunità di tentare un nuovo viaggio tra le quelle sette cornici, dove i penitenti sono puniti secondo la dantesca legge del contrappasso.

Superbia
Nella prima cornice, coloro che furono superbi in vita si purificano. Nella cultura medievale, la superbia è la radice di tutti i mali. I superbi sono i seguaci di Lucifero, l’angelo ribelle che di superbia ha peccato, aspirando a un’impossibile uguaglianza con Dio. Sono coloro che, come aveva detto Sant’Agostino, desiderano un’altezza perversa. Non la propria eccellenza, che significa altezza, ma altezza perversa, cioè un alto che in realtà è basso, ponendosi in conflitto con Dio e con l’ordine da lui stabilito. È evidente la complessità e l’ambivalenza di questo peccato radice di tutti i mali. Chi si distingue per valore non è colpevole di essere superbo. La superbia semmai consiste nello sbattere l’eccellenza in faccia agli altri.
Per Sant’Agostino la superbia non è grandezza ma gonfiore e chi è gonfio sembra grande ma non è sano. Un gonfiore molto comune nei sales departments ma di cui non sono immuni tantissime altre direzioni aziendali: autoesaltazione e poca stima degli altri.
Jim Collins, l’autore di Good to great, ha riscontrato che nelle aziende eccellenti nel lungo periodo c’è la presenza di un management non caratterizzato da un ego spropositato ma, al contrario, da una buona combinazione di umiltà personale e di volontà professionale. Possiamo quindi definire high thinking la virtù opposta al vizio della superbia. Significa pensare guardando in alto. Significa avere punti di riferimento alti, misurarsi a tal punto con l’eccellenza da percepire in ogni momento dell’esistenza il senso profondo del proprio confine. Sfidare sé stessi non solo con ciò che è grande (thinking big) ma anche con ciò che è veramente alto (thinking high) non può non comportare un atteggiamento modesto. Pensare alto vuol dire sapere di non sapere.

Invidia
Invidiosi, che poi diventano astiosi, lividi, biliosi, acidi e, in definitiva, soli. Quelli per i quali l’altrui successo provoca rancorosa malevolenza, anziché generare un riverbero di benessere. Quelli che si gonfiano di acredine malmostosa. Quelli che vivono concentrandosi e macerandosi sulla carriera non fatta e riservata invece ad altri dalla Mala Sorte. Quelli che la cooperazione non sanno cosa sia, perché l’altro è sempre un oggetto di confronto insano che li fa rodere in profondità. La seconda cornice è dedicata tutta a loro: invidia è in-videre, guardare di mal occhio, e per questo le anime purganti hanno gli occhi legati dal filo spinato.
Alcune voci, per prodigio, risuonano nell’aria della seconda cornice: propongono esempi di carità su cui meditare. Altre voci prospettano esempi di invidia da condannare: sono stimoli alla riflessione che alcuni spiriti velocissimi fanno echeggiare nell’etere. Brevissime frasi, una sorta di daily quotes che invitano a raggiungere il successo nella condivisione e nella co-creazione aziendale: ognuno ha quanto più mette in comune con gli altri. Chi coopera, vince. Con le parole di Virgilio, e quanta gente più là sù s’intende, / più v’è da bene amare, e più vi s’ama, / e come specchio l’uno a l’altro rende.
Tanto più la conoscenza sarà in comune, tanto più ogni essere umano trarrà benefici dai meccanismi del web 2.0 e godrà i profitti della condivisione, come gli specchi che si riflettono a vicenda la luce che ognuno attinge dal sole.

Ira
Chi in vita si era lasciato rapire dall’ira, nella Commedia è costretto a purgare la colpa nella terza cornice. Una nebbia fitta impedisce ai due viandanti, Dante e Virgilio, di vedere attorno a sé: camminano come ciechi, l’uno accanto all’altro. Del resto, non è proprio l’ira-vizio quel fumo interiore che acceca e soffoca la ragione, impedendo di distinguere, discernere e capire? Non è proprio la collera quel sentimento che avvolge tutto in una cappa di caligine e impedisce trasparenza e chiarezza di pensiero? Non è proprio l’esplosione della rabbia quell’impulso che per primo bisogna separare dagli obiettivi per gestire in modo efficace un meeting?
In questa cornice, le best practices da seguire e i modelli di ciò che non va sono rivelati a Dante sotto forma di apparizioni: il nostro manager è come rapito, in visione estatica. Pur nella cecità dei suoi occhi, vede con l’anima una rassegna cinematografica: prima esempi di pazienza (la virtù contraria all’ira) e poi di furore collerico punito. La tecnica di riprodurre una visione rappresenta  spesso un’eccellente modalità di comunicazione efficace: con le parole racconto un film e consento all’interlocutore di vedere ciò che non può toccare con mano. È la tecnica del corporate storytelling.

Accidia
Nella quarta cornice, ronza accanto a Dante, correndo velocissima e senza mai un attimo di tregua, la folla degli accidiosi. Gli accidiosi, in vita, sono stati i nemici della proattività. Apatici? Senza dubbio. Pigri? Quanto meno intellettualmente. Oziosi? Beh, per certo non dinamici. E poi svogliati, indolenti, imbalsamati, incollati sulla sedia, non disposti al cambiamento, incapaci di entusiasmarsi qualunque cosa facciano. E per certo non all’altezza di motivare il prossimo. In una parola, annoiati!
Il linguaggio del corpo degli accidiosi? Se non hanno le braccia conserte, tengono le mani in tasca, in perenne attesa di qualcosa o qualcuno che provvederà per loro. La cifra della loro attitudine è la de-motivazione: sono demotivati dal fare qualunque cosa e preferiscono non cambiare atteggiamento. Si svegliano la mattina e non hanno desiderio di fare nulla: non solo i doveri ma nemmeno i piaceri. Al Purgatorio, soffrendo il supplizio del contrappasso, sono anime in pena, costrette a correre incessantemente, spronandosi a vicenda a non perdere tempo. Vite di corsa, direbbe Bauman, invitando i manager e più in generale gli abitanti di questo pianeta a cercare di salvarsi dalla tirannia dell’effimero.
In testa alla schiera impegnata nella maratona dei penitenti, due spiriti danno il tempo alla squadra. Esaltano persone proattive, che hanno dimostrato capacità di auto-attivarsi a fronte di un evento, un’opportunità o un problema, in modo da influenzarne lo sviluppo positivamente e di garantire il conseguimento degli obiettivi.
Attenzione, però, a mantenere l’equilibrio. Le aziende pullulano di manager che si lasciano blandire dal vizio opposto all’accidia: una sollecitudine eccessiva e compulsiva, che porta allo stress, paralizza e impedisce una visione alta e di lungo periodo. I workaholic ne sono patologicamente affetti. Mettendo il lavoro al centro della propria esistenza, trascurano tutto il resto, affetti personali compresi. Dipendono dal lavoro, corrono velocissimi verso il nulla.

Avarizia
Nel quinto terrazzamento, il popolo dei purganti con contratto a termine subisce la pena del contrappasso per l’avarizia: i penitenti stanno in giuso, distesi a terra, mani e piedi legati, perché le loro azioni furono sempre volte al prendere e mai al dare. Piangono e cantano il salmo Adhaesit pavimento anima mea, “l’anima mia s’è attaccata al suolo”. È fissata alla polvere. Ha lo sguardo verso il basso.
Gli avari hanno vissuto un’esistenza convinti che le cose contassero (in quanto beni contabili) e le persone no. Che hanno attribuito al denaro un’importanza assai maggiore di quella che ha, trasformando un mezzo in un fine. Certi che accumulare ricchezze fosse l’unico stile di vita possibile: soldi, soldi, soldi e null’altro intorno. Incapaci di gesti di altruismo. Inadeguati agli slanci, alla nobiltà, all’onesto torreggiare in generosità. Autocentrati cronici, che depauperano gli altri di energia e non contribuiscono alla moltiplicazione delle ricchezze (plurale) e dei saperi (plurale). Con gli occhi mai rivolti verso l’alto e col pensiero fisso alle cose terrene. Pancia a terra. Il massimo dell’elevazione sono le flessioni per tonificare i propri muscoli. Quanto ci guadagno? Ecco l’unica domanda che ricorre nelle menti avare: l’unica fonte di pensiero, l’unico oggetto di desiderio.
Avare sono le culture aziendali che si limitano a trarre il massimo profitto dagli stessi prodotti e dalle stesse strategie di competizione di sempre, investendo il minimo per ricavare il massimo oggi, senza alcuna visione a medio-lungo termine. Gli avari in azienda sono coloro che non si danno, quelli che non ci stanno fino in fondo, quelli che concedono poco di sé. Sono quei manager tirchi della loro essenza. Avidi della loro autosufficienza, incapaci di relazioni aperte.

Gola
Nel Purgatorio i penitenti per gola allungano le mani verso i frutti di un albero che si presenta con la punta in basso e le radici in alto ma non riescono a toccarli. Sono pelle e ossa. Magri da far paura. Occhi incavati nelle orbite. Devastati dalla fame e dalla sete, nella ferrea logica del contrappasso. Si erano abbandonati in vita alle delizie raffinate del palato? E ora eccoli a soffrire, insaziabilmente alla ricerca dei basics, dei fondamentali dell’esistenza, della frugale semplicità, della sobrietà virtuosa di pane e acqua. Desiderosi di ciò che dà davvero frutto. Che per altro, nel dizionario delle aziende, è sinonimo di guadagno, interesse, utile, profitto: tutti sostantivi propri del lessico dell’impresa.
Essere smodati nel mangiare e nel bere fa allontanare dagli stili di condotta healthy, che sempre più i manuali focalizzati sulla manager effectiveness fanno tracimare dalle loro pagine, mescolando in un frullatore ormai impazzito diete e tips professionali, fitness e gestione, perdita di peso in eccesso e leadership. È la cifra della nostra stramba contemporaneità.
Allegoricamente, poi, la gola per il manager è la bulimia dell’accumulazione degli incarichi. Posti nei consigli di amministrazione, cose da fare, mansioni, ruoli, cariche più o meno di prestigio. Crescita insostenibile, il contrario di sviluppo sostenibile. Ognuno di noi ha in mente questa tipologia di golosi, nella propria azienda.

Lussuria
Le pareti della montagna scagliano fiamme. Fiamme che si propagano dalle pareti roccoiose e che - ancora una volta - sono un simbolo: simbolo della passione scomposta che ha caratterizzato i lussuriosi, coloro che vissero sulla terra ossessionati dal sesso. Dante è atterrito dall’idea di finire dentro quelle vampe a luci rosse della settima e ultima cornice purgatoriale. Atterrito dall’idea di piombare nella tentazione che evoca il sesso ma, per noi contemporanei, non solo il sesso: lussuria in inglese si dice lust. Luxury, invece, vuol dire lusso (proprio come in latino), che restituisce una concezione di spreco, di inutile scialo di ricchezza. Richiama lo sperpero. Dantescamente, richiama l’amore troppo intenso per i beni terreni (troppo di vigore). Esistono milionari che vivono da ossessi frustrati, che al benessere preferiscono appunto il lusso, che confondono la bellezza con la pacchianeria, con la volgarità. E questa è lussuria. E di questo genere sui generis di luxuria è opportuno diffidare.
Come evitare il peccato? Come evitare le lussazioni, nel senso di ferite, impedimenti, storture, etimologicamente e intimamente connesse a questo vizio capitale? Nei primi decenni del Duecento, il manuale per confessori scritto da Roberto di Sorbona consigliava di usare nei confronti dei lussuriosi una sorta di “terapia della paura”: il confessore doveva prospettare ai peccatori per lussuria una check-list delle peggiori patologie, malattie tremende per quantità e qualità.
Oggi, la virtù (anche manageriale) contraria al vizio della lussuria possiamo chiamarla pudore, anziché castità. Pudore nel senso di riservatezza, di discrezione, di competenza vera e non esibita.


1 - Enrico Cerni è autore di Dante per i manager. La Divina Commedia in azienda, Il Sole 24 ore, 2010. Il testo qui prestato è una breve sintesi di alcuni dei temi trattati nel libro.

Pagina precedente

Indice dei contributi