BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 21/09/2009

STILI DI DIREZIONE. DUE SCORCI DI VITA REALE, UN PO' ROMANZATI

di Isabella Covili Faggioli

“Lei non saprà mai quanto ho fatto”
La mensa è interrata. Non è una bella mensa, ma lo stabile è vecchio,  ci sono progetti di ristrutturazione, ma ora è così. Abbiamo un’unica sala riunioni che spesso è occupata per cui, per i corsi di formazione, talvolta, utilizziamo la mensa. Se vogliamo guardarla dal punto di vista della motivazione, capisco che ci vorrebbe qualcosa di meglio.  Oggi è prevista la lezione settimanale di inglese. E’ un corso avanzato per chi non è ai primi passi, ma che aiuta anche chi è più indietro. Un corso per poche persone, 7 al massimo perché si deve interagire molto.
Alle 15.10, dieci minuti dopo l’inizio del corso, sono sola. Mi sento un po’ sconfortata perché ho spinto tanto per  questa opportunità da dare  ai capi servizio. Ritengo che se si opera in un contesto multinazionale non ci saranno mai possibilità di crescita se non si è in grado di sedere ad un meeting interaziendale senza traduttore. Siamo io ed il professore, uno scozzese dall’aspetto un po’ alternativo, ma decisamente in gamba come insegnante. Per cui incominciamo  a conversare in inglese sul perché gli altri 6 capi servizio non siano presenti. Le ipotesi sono tante ma alla base c’è la presunzione di non avere bisogno di conoscere l’inglese ed il considerare questo come tempo perso. Dopo l’ora di lezione, che è diventata così one to one, torno in ufficio. Parlando con i colleghi capisco che è proprio così, come avevo pensato. Ognuno di loro aveva cose più importanti da fare. La priorità loro non era la lezione di inglese ma quello che tutti i giorni dovevano governare in produzione, in manutenzione, in amministrazione e così via. Mi arrovello su come far loro capire cosa stanno perdendo. Sarebbe molto più semplice dichiarare la sconfitta e chiedere al capo che annulli il corso con risparmio di costi. Ma il capo mi anticipa e mi chiama a colloquio. Sa già come è andata la prima lezione ed anche la seconda. Mi chiede cosa intendo fare. Lui, se io ritengo, non cancella  il corso, ma io devo trovare la strada per far partecipare spontaneamente i capi servizio. Bel problema.
E’ in calendario un meeting a Milano circa  una innovazione che la casa madre vuole adottare. Normalmente i meeting, quando sono in Italia, si tengono in italiano con traduzione per chi viene dall’estero.  Propongo al mio capo di fare il contrario. Se consideriamo importante che si parli inglese anche in questa divisione, occorre che diventi la lingua madre dei meeting anche tenuti in Italia. Lui, che in Inghilterra ha vissuto, e sa quanto sia importante mettere tutti in condizione di capirsi, ci sta. Ho preparato tutto il materiale del meeting in italiano. Lo consegnerò a fine meeting. Alla fine occorre che tutti sappiano quello che si è detto. L’aria persa di alcuni miei colleghi mi ha fatto pentire di questa idea. Mi sono sentita male. Ma oramai... Mi sento invece molto bene oggi, quando arrivando alle 15 meno 5 minuti trovo tutti i miei colleghi nella sala mensa. Non sono allegri, ma ci sono. Questo è quello che conta.
Dopo una ventina di incontri le lezioni vengono sospese per la pausa estiva ed uno dei miei colleghi mi propone di festeggiare con una bottiglia di spumante ed un po’ di pasticcini. In fondo è un po’ come la fine dell’anno scolastico. Sono molto soddisfatta di questa proposta e lo tranquillizzo sul fatto che penserò a tutto io. L’insegnante è strabiliato. Non ha mai avuto una classe così attenta e con risultati così buoni.
Tra i miei colleghi ce n’è uno che è partito da un po’ più indietro e fa un po’ fatica, studia come un pazzo, non dorme per studiare, ma parte da zero e questo lo mette spesso in difficoltà.
Propongo una soluzione al mio capo che  l’accetta. “Non so se lui sarà d’accordo” mi dice “non è facile mettere in discussione le ferie, ma ci provi”
Chiamo il mio collega e gli propongo di andare in Inghilterra (non a Londra, è troppo facile) durante le sue ferie, l’azienda gli avrebbe pagato le spese ed il corso, lui si sarebbe impegnato ad andare solo ed a studiare. Chiedergli di andare solo non è masochismo ma la necessità di fare davvero una full immersion anche nei momenti non di studio. Il professore mi ha garantito che non ci sono italiani in quel college sperduto nel Galles. Capisco che la proposta lascia il mio collega un po’ perplesso. 3 settimane all’estero senza vedere la sua famiglia, lascerebbe tutti perplessi. Ed io gli spiego chiaramente che lui, secondo me, ha bisogno di questo per il suo futuro. Che ha i numeri per crescere, ma che, se non scioglie questo nodo non crescerà mai. Ha capito ed è partito.
Tante volte si denigra il mestiere del direttore del personale, è un mestiere che tutti vedono come quello di una persona senza cuore che, al servizio del padrone, castiga e licenzia provando quasi piacere nel farlo. Nulla di più lontano dalla maggioranza dei professionisti e persone per bene che ho conosciuto. Noi abbiamo in mano la vita lavorativa delle persone, ed il lavoro nella vita di una persona è importante, questo non lo dimentichiamo mai. A quante persone cambiamo la vita, diamo opportunità…
Ad un amico dicevo a proposito di una top manager “Sai, lei non saprà mai quanto ho fatto perché lei sia lì, pensa che il suo capo la voleva licenziare perché la riteneva troppo poco consistente per la dimensione che stava prendendo l’azienda”  “Beh? e di cosa ti lamenti?” mi risponde “in fondo è  il modo migliore. E’ troppo semplice fare aspettandosi la riconoscenza. Tu sai cosa hai fatto. Questo ti deve essere sufficiente. Se l’hai fatto è perché, oltre che per la stima ed amicizia nei confronti della tua collega,  tu eri nelle condizioni di farlo. Sei una privilegiata solo per questo”
Ho molto riflettuto su questo. Ho molto riflettuto anche come insegnamento di vita.
 Non sarà  un caso che mi è venuto da una persona speciale a cui io devo gratitudine non solo per quello che ha fatto quando ho avuto bisogno io,  ma anche per come lo ha fatto.

 

Risorse veramente umane
In casa mia si è sempre parlato bene. Mio padre aveva fatto studi classici e ci faceva rimarcare i verbi e le parole non corrette.
Poi ci si abituava a sentire i nonni parlare dialetto, un dialetto che capivamo bene ma che non riuscivamo a parlare. Né io né mio fratello. Non so perché.
Questi sono i pensieri che mi vengono mentre sono alle prese con una relazione e penso a quando all’esame di stato ho avuto un brutto voto nel tema.  Forse era vero che non scrivevo poi così bene come sosteneva il mio professore di italiano che mi aveva presentato come la migliore nella sua materia. Mi manca l’ispirazione per questa relazione che dovrebbe spiegare agli americani della casa madre  come sono diverse le leggi sul lavoro in Italia. E spiegare al mio grande capo perché loro (i dipendenti) possono andare via quando vogliono ed io non li posso licenziare quanto l’azienda vuole. Devo anche spiegare perché noi dobbiamo assumere una quota di lavoratori che vengono da una lista speciale chiamata “invalidi” .
Arnaldo era un avviato dalla lista invalidi che mi torna in mente. Era un operaio. Era anche un etilista ed in quella fabbrica noi producevamo liquori. Ma lui ora era guarito e voleva lavorare. Come mettere un topo in una fabbrica di formaggio. Ma era sempre sorridente e contento. E sempre in ritardo. La sera la corriera portava i dipendenti in città e lui faceva quasi sempre aspettare tutti perché non era pronto. Si doveva cambiare e fare bello perché  arrivato in città andava a passeggiare per trovare moglie. Era venuto anche in ufficio a parlare con mio marito. Mio marito era un mio collega, aveva la scrivania non lontana dalla mia. Ed allora lui era andato da mio marito, che non si occupava di personale, e gli aveva chiesto di potergli parlare. Mio marito era una persona gentile con tutti i dipendenti. Ma era rimasto un po’ stupito quando Arnaldo gli aveva chiesto come aveva fatto a trovarmi.  Proprio così aveva detto “a trovarmi”. Perché lui voleva una ragazza come me (non proprio come me, aveva detto, anche meno, ma circa) perché così si sarebbe sistemato e sarebbe diventato migliore. Ora nessun dipendente potrebbe fare una domanda così, non lavoro più con mio marito. Ma pensando ad Arnaldo mi prende una grande tenerezza. E mi viene difficile spiegare a quei signori cosa significa dare un lavoro ad un invalido.
E penso anche all’altro, quello più piccolo, che soffriva di crisi epilettiche e che cadeva in terra con la scopa in mano. Non la lasciava per tutta la crisi, le sue colleghe guardavano che non si fosse fatto male, poi quando si riprendeva gli davano un po’ di acqua e lui ricominciava a pulire il pavimento. Sono passati 30 anni da quando sono uscita da quell’azienda e lui mi telefona ancora ogni tanto per raccontarmi della sua casa al mare e del fratello che si prende cura di lui. Non riesco mai ad accorciare le telefonate, ma con il cordless non è più un problema, si può ascoltare con attenzione facendo anche altro.
A quelle persone è stata data una possibilità.
Ecco cosa dirò nella relazione, che a quei signori è stata data una possibilità, quella che qualcuno gli ha tolto quando sono nati o dopo. So che capiranno. Dovrò spiegare che è la legge che ce lo impone. Ma so anche che lo farebbero anche loro senza essere obbligati se avessero conosciuto Arnaldo e Giuseppe. Però non voglio e non posso sembrare sentimentale e fuori dal progetto di business. Ci sono anche situazioni diverse. Ci sono anche persone diverse. Come faccio a spiegarlo senza fraintendimenti.
Spiego la legge e basta. E faccio alcuni casi. Credo che capiranno. In fondo sono i risultati che contano e se poi quelli sono buoni vuole dire che va bene.
Ho cambiato azienda tre volte. Sono stata fortunata. Le aziende dove ho lavorato sono sempre state belle e floride. Così floride che ancora si ricordano i regali di Natale e le feste per  i bambini dei dipendenti  in occasione della Befana e le gite premio per tutti e la formazione.. ed intanto gli anni sono passati ma io non ho mai avuto in dono l’orologio per i dieci anni di servizio. Non ho mai fatto i dieci anni in un azienda, poco meno, ma i dieci anni no. Ma i ricordi li ho tutti nella mente e le persone che ho incontrato anche. Questo vale più dell’orologio.
Ed ora inizio la relazione spiegando che le leggi per il lavoro in Italia ci sono. Possono essere anche da cambiare. Anzi sono anche già cambiate da allora. E cambieranno ancora. Ma che le aziende “belle” vanno anche oltre la legge perché le persone che le fanno “belle” lo meritano.
 

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