BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 01/03/2004

IL MITO DI TOLKIEN E L'ORGANIZZAZIONE: IDEE PER UNA TERATOLOGIA COMPARATA

di Mauro de Martini

Introduzione

Il potere e la sua difficile gestione

Il ruolo

Importanza dei sentimenti e dei valori

Globale e locale

Aporie del coaching e counseling organizzativo

Etica ed estetica dell’organizzazione

Introduzione

Incontrai gli scritti di Tolkien nel 1981, durante gli studi del ginnasio. Un mio compagno, con cui condividevo la passione per i romanzi di avventura, mi consigliò Lo Hobbit. Di quell’incontro ho un ricordo molto vivo, pieno di particolari, proprio come accade quando si conosce una persona che lascia il segno. Iniziai a leggere il romanzo un giorno di settembre, caldo. Spirava una piacevole bava di vento da sud-est. Ero seduto su una panchina davanti al lago di Como, rubando attenzione alle prime frasi di greco e latino. Dopo aver scorso alcune righe capitò che tutto, attorno a me, scomparisse ed io venissi rapito verso un mondo  realissimo in cui era normale che convivessero uomini, elfi, nani, orchi, maghi, draghi e – ovviamente – hobbit. La normalità era data non solo dalla presenza di tali personaggi, ma da una rete di relazioni interne tra luogo, tempo, attori e linguaggio, simile a quella del mondo reale. In pochi giorni passai al Signore degli Anelli e a fine novembre avevo già intrapreso la faticosa (per me, almeno) lettura del Silmarillion. Ma, come o già scritto, quel giorno di settembre, Tolkien è entrato nella mia vita e ha rappresentato un punto di riferimento e un paragone per ogni storia e avventura letta in seguito. Oltre a questo, il mondo di Tolkien è stato una mia “nuova mitologia” e un paradigma interpretativo per gli accadimenti della vita.

Oggi che Tolkien è divenuto più popolare, grazie alla fortunata versione cinematografica, mi capita di vivere un sentimento contrastato. Da un lato mi piacerebbe esprimere alcune riflessioni sull’esperienza organizzativa a partire da Tolkien, o meglio attraverso il Signore degli Anelli, come metafora della vita d’azienda - considerazioni nate qualche anno fa, parlando con alcuni amici-. Dall’altro però intravedo qualche rischio. Alcuni potrebbero pensare che la mia lettura sia ispirata da una moda. Pur negando che vi sia una ispirazione concettuale data dal pressante battage per “l’evento cinematografico”, ammetto che il film ha stimolato in me un rinnovato desiderio di discutere con altri a proposito di Tolkien e del suo mondo fantastico. Tuttavia considero un piccolo danno il fatto di essere guardato come una persona che segue le mode (fatto smentito, per fortuna o purtroppo, da chiunque mi conosca direttamente). Mi sembra più pericoloso, invece, un rischio interno alla pretesa interpretazione simbolica di Tolkien. Indubbiamente Tolkien ebbe il merito di progettare e costruire un edificio mitico partendo dalla tradizione, ma infondendole una linfa di originalità sconosciuta. Tolkien creò un mondo e un tempo che hanno caratteristica di alterità rispetto al nostro mondo, ma al nostro mondo alludono. Questo è forse ciò che ogni lettore apprezza quando intraprende la lettura dei romanzi di Tolkien. Ed è giusto che questo mondo non gli venga tolto con esegesi astrusamente lontane dalla lettera dell’autore. Una banale trasposizione in chiave organizzativa certamente ridurrebbe la portata immaginativa dell’universo tolkieniano, così come una lettura in chiave religiosa, politica, ideologica, ecc. Tuttavia è innegabile la forza mitica del costrutto di Tolkien, che potentemente riverbera sul mondo reale a cui allude. Così azzarderei un parallelo tra la mitologia classica e la mitologia di Tolkien affermando che il mito creato dall’autore inglese potrebbe rappresentare a buon diritto una forma di pensiero sul mondo [1] . Quello che cercherò di fare, pertanto, non ambisce a commentare tutto il mito tolkieniano partendo dal mio orizzonte interpretativo. Proverò invece a suggerire alcune idee che mi sono venute in mente osservando alcuni vissuti d’azienda alla luce di categorie di pensiero che trovo in Tolkien.

Il potere e la sua difficile gestione

Azione e potere sono legati. Non si può fare nulla senza avere la concreta possibilità di cambiare gli eventi. Ma l’esercizio del potere porta con sé l’inevitabile rischio dell’errore e della corruzione. Il potere esercitato in funzione dell’azione e della creazione può trasformarsi, se non si è particolarmente attenti,  nel fine di se stesso e può essere concepito come controllo e dominio. Intenderlo in questo modo porta l’uomo a mostrare la sua faccia più brutale e malvagia. Contestualizzare il potere in un orizzonte più ampio, in una logica di “servizio agli altri” riscatta la radice ambivalente del potere stesso.

La prima idea nasce dalla trama narrativa del Signore degli Anelli. Il romanzo si presenta come un viaggio e richiama nel lettore altri viaggi famosi (Ulisse, Argonauti, Dante ecc.), che, classicamente, oltre ad essere viaggi fisici, sono metafore di percorsi interiori alla ricerca di sé o della verità. Il viaggio inoltre segue il modello classico della “Cerca”, ma come mostra bene Paolo Gulisano nel suo recente saggio sul mito di Tolkien, si tratta di una Cerca al contrario: «Di che tipo è dunque la queste del Signore degli Anelli? Anche in questo caso la ricerca si svolge tra prove, tentativi, fallimenti e ricominciamenti, e naturalmente – come nei precedenti classici – intorno a un oggetto il cui valore è incommensurabile; ma a differenza della Cerca tradizionale, dove il Santo Graal deve essere raggiunto e degnamente conquistato, la prova che deve affrontare l’hobbit Frodo è esattamente il contrario: l’oggetto (l’Anello) è dato fin dall’inizio, e lo scopo del lungo viaggio, della peregrinazione attraverso la Terra di Mezzo, con i suoi luoghi di insidie e pericoli e le sue zone di momentanea beatitudine (come il Bosco di Lorien), è quello di distruggere l’anello magico, potente ed affascinante, da cui può derivare il potere di dominare la terra. Visto che questo potere non può essere controllato, la saggezza vuole che vi si rinunci, e che lo si distrugga perché nessun animo corrotto ne possa fare pessimo ed esiziale uso» [2] .

Il potere è certamente uno dei temi centrali del Signore degli Anelli e intesse un legame molto forte con tema della libertà. Coloro che posseggono l’Anello ne diventano schiavi. Sono schiavi anche i potenti tra gli uomini che hanno ricevuto in dono gli Anelli del potere controllati dall’Unico Anello, i Cavalieri Neri o Spettri dell’Anello, che gli Hobbit incontrano nella Contea proprio all’inizio del romanzo e che avranno un ruolo importante in tutto il procedere della narrazione. Sauron stesso, l’Oscuro Signore, è schiavo dell’Anello, oggetto che proprio lui aveva forgiato e che gli era stato tolto da Isildur. Sauron vive in un incessante stato di attenzione - simboleggiata da un occhio di fuoco senza palpebre – che lo porta a scrutare la Terra Mezzo alla ricerca dell’Anello, nel quale ha infuso il proprio potere allo scopo di controllare gli altri Anelli e quindi tutta la terra. La schiavitù di Sauron, però, non si limita al desiderio ardente di riappropriarsi dell’Anello. Sauron è schiavo della logica stessa di gestione del potere attraverso il controllo ed il possesso. Egli vuole l’Anello per controllare gli eventi e pensa che tutti gli esseri viventi desiderino fare la stessa cosa. Ciò lo rende estremamente vulnerabile alla strategia del consiglio di Elrond, che, invece di servirsi dell’Anello per sconfiggere il nemico, decide di distruggerlo.

Il mito di Tolkien ci propone un percorso interpretativo. Il potere non può essere posseduto. Il controllo degli altri esseri viventi possiede la persona che presume di controllarlo. È questo il tipo di potere a cui si chiede una rinuncia.

In Tolkien però non esiste una lettura unilaterale. La posizione dell’autore non porta una semplicistica rinuncia al potere in ogni sua forma, indifferentemente. Molti personaggi del mondo di Tolkien esercitano un potere che comporta una responsabilità, ossia un “portare il peso”. È un  potere per raggiungere un fine alto, che armonizza la realizzazione individuale con la realizzazione della collettività. Portare il peso del “potere al servizio degli altri” non è certamente facile e il Signore degli Anelli è ricco di esempi in questo senso, ma emblematica è proprio la figura di Frodo che porta l’enorme peso dell’Anello, appeso al collo, fino a strisciare per raggiungere il monte Fato.

Accanto a questa interpretazione si affianca la visione storica di Tolkien. Il potere assoluto non può essere posseduto perché nessun essere vivente è assoluto. Tolkien non assolutizza la vita dei suoi personaggi. Nessun essere vivente è immortale, onnipotente (l’immortalità degli Elfi prevede comunque un allontanamento dalla terra di Mezzo, un ciclo). Il bene e il male assoluti sono al di fuori della Terra di Mezzo. Ogni essere ha un inizio ed una fine. Anche gli esseri più potenti hanno un inizio, per quanto lontano nel tempo e nello spazio, e una fine. Gandalf è un Mago, ma non è il Bene assoluto, così come Sauron non è il Male assoluto. Entrambi hanno una loro storia. Gli esseri viventi sono inseriti in un orizzonte più ampio della vita che vivono ed il loro peso non può essere che parziale, “relativo”. A questo proposito citiamo un passo del Signore degli Anelli in cui Bilbo rivendica per sé un ruolo che non gli può essere concesso:  «“Molto bene, molto bene Messer Elrond!”, esclamò Bilbo improvvisamente. “Non dire altro! Vedo chiaramente a cosa vuoi arrivare. Bilbo lo stupido Hobbit, incominciò questa storia, e tocca a Bilbo finirla, o finire la propria vita. Mi sentivo molto a mio agio qui, ed il mio libro stava andando avanti. Se t’interessa, sono sul punto di scriverne la conclusione. Avevo pensato di mettere: e visse per sempre felice sino alla fine dei suoi giorni. È una buona conclusione, ed il fatto che sia già stata adoperata non ne diminuisce minimamente il valore. Ora sarò costretto a cambiarla; ho l’impressione che non potrà avverarsi; e comunque vi dovrò aggiungere parecchi altri capitoli, se vivrò abbastanza per scriverli. È una tremenda seccatura. Quando dovrei partire?”. […] “Certamente, mio caro Bilbo”, disse Gandalf, “se fossi stato veramente tu ad incominciare questa storia, si potrebbe pensare che tu la finissi. Ma ormai sai bene che nessuno è abbastanza grande per poter rivendicare di aver incominciato, e che la parte recitata nelle imprese memorabili dagli eroi non è che molto piccola. Inutile che t’inchini! Anche se la parola è stata scelta deliberatamente; e noi non dubitiamo che, mascherata dal tono scherzoso, hai fatto una valorosa offerta. Ma essa sorpassa le tue forze. Non puoi riprendere l’Anello.» [3] .

Così la vita di ciascun essere della Terra di Mezzo inizia e finisce in un ciclo storico che la trascende e le attribuisce senso, facendo perdere qualsiasi peso al desiderio di controllo e di potere sugli altri esseri viventi.

Il ruolo

Il ruolo è crocevia tra compiti assegnati e libertà interpretativa. Che fare quando in azienda ci viene assegnato il rotulus, il copione, e ci viene chiesto di recitare? Come dirimere il difficile rapporto tra la nostra identità individuale, i nostri valori personali e l’identità dell’organizzazione con i suoi valori?

Legato a doppio filo con il potere è il tema del ruolo. Si legge nel Silmarillion che Sauron forgia l’Unico Anello per controllare gli altri anelli: «Ora, gli Elfi fabbricarono molti anelli; ma in segreto Sauron costruì un Unico Anello con cui dominare tutti gli altri, il cui potere era legato a questo con assoluta soggezione e destinato a durare solo quanto quello dell’anello di Sauron. Buona parte della forza e della volontà dell’Avversario fluì in esso, e ciò perché il potere degli anelli elfici era assai grande, sicché l’anello che doveva governarli non poteva che essere un oggetto di potenza senza pari; Sauron lo forgiò nella Montagna di Fuoco della Terra d’Ombra. E, a patto che avesse su di sé l’Unico Anello, era al corrente di tutto ciò che si faceva per mezzo degli anelli minori, e poteva vedere e governare gli stessi pensieri di coloro che li portavano su di sé» [4] . Gli elfi reagirono sfilandosi i propri anelli, per evitare di essere controllati dal potere di Sauron, ma gli uomini si comportarono diversamente, come leggiamo nelle pagine successive: «Gli Uomini si rivelarono più disposti a lasciarsi irretire. Coloro che dei Nove Anelli si servirono, in vita loro divennero potenti: re, stregoni, guerrieri come ve n’erano un tempo. Si conquistarono gloria e grandi ricchezze, che però si volsero a loro danno. Avevano, a quanto sembrava, vita imperitura, pure la vita divenne loro intollerabile. Potevano aggirarsi, volendolo, invisibili agli occhi di tutti in questo mondo sotto il sole, e vedere cose in mondi invisibili ai mortali; ma troppo spesso non scorgevano altro che fantasmi e finzioni di Sauron. E uno a uno, prima o poi, secondo la loro forza innata e il bene o il male iniziali delle loro volontà, caddero sotto il giogo dell’anello di cui erano muniti e sotto il dominio dell’Unico, che era di Sauron. E divennero per sempre invisibili se non a colui che portava l’Anello di Dominio ed entrarono nel reame delle ombre. Erano essi i Nazgûl, i Fantasmi dell’Anello, i più temibili servi dell’Avversario; tenebra li accompagnava, ed essi urlavano con la voce della morte» [5] . Si nota che interpretare una vita alla ricerca del potere per se stesso permette l’acquisto di gloria e ricchezza. Ma accade che questi esseri, i Nazgûl - nella lingua degli orchi - non scelgono più l’invisibilità come possibilità di aggirarsi indisturbati nella Terra di Mezzo. Essi diventano per sempre invisibili. Quello che gli altri esseri viventi possono ancora vedere è il “ruolo di potere”, non più gli esseri umani che lo detengono: la persona con i suoi vissuti, i suoi pregi, le sue contraddizioni, scompare, ciò che rimane visibile è il potere che emana e da cui paradossalmente è posseduta. La vita stessa diviene “intollerabile”, perché il ruolo esercitato è in contraddizione con l’essenza stessa della vita umana. Diviene cioè una disperata e non condivisibile solitudine.

Ogni personaggio interpreta il suo ruolo nel Signore degli Anelli, vivendo al confine tra compito e libertà, tra dettami del dovere sociale, discrezionalità interpretativa e caratteristica personale. Tolkien ha l’abilità di tratteggiare personaggi complessi, ricchi di sfumature, per nulla netti o definitamente allegorici.  Frodo, il portatore dell’Anello, combatte una personale battaglia di rinuncia, diviso dal desiderio di salvare la Contea e tenere per sé quello che già Gollum e poi Bilbo definivano il “mio tesoro”. In questo caso l’Anello esercita la propria seduzione sugli esseri più semplici (Hobbit e Gollum) sotto forma di proprietà. Non è il grande potere che questi desiderano, è solo il possesso del tesoro. Frodo certamente è una personaggio disegnato con abilità straordinaria. Tolkien avrebbe potuto narrare le gesta di un eroe senza macchia. In realtà, alla fine, proprio quando la salvezza sembra a portata di mano, Frodo tradisce e si infila l’Anello. Non sarà per merito suo che la sua amata Contea verrà salvata. La salvezza sarà per lui un dono [6] : Gollum morde il dito di Frodo staccandoglielo e sottraendogli l’Anello, ma poi, folle di gioia per la riconquista del suo tesoro, mentre danza sull’orlo dell’abisso, scivola e cade, scomparendo insieme all’Anello nella lava del Monte Fato. Alcuni non apprezzarono l’immagine di Frodo il traditore, colui che cede alla tentazione. Ma Tolkien non vuol fare del suo personaggio l’emblema della perfezione. Frodo interpreta il proprio ruolo alla maniera tipicamente umana, o Hobbit, se vogliamo essere precisi: ha un compito e, quasi con incoscienza, più che con eroismo, intraprende un cammino superiore alle proprie possibilità. Lo fa con il fine ultimo di salvare ciò che ama. Frodo però è debole e commette un errore: fallisce l’obiettivo che si era proposto proprio al termine del cammino. Quello che lo salverà è la logica d’amore che ha ispirato tutta l’interpretazione del suo ruolo. Frodo, aiutato dalla guida di Gandalf, ha avuto pietà di Gollum (così come Bilbo prima di lui). Ma è Gandalf che esprime la visione di Tolkien sul ruolo. È un’espressione realistica, non dettata da un moralismo sterile o semplificatore, Frodo dice: « Non riesco a capirti; vuoi dire che tu e gli Elfi l’avete [Gollum] lasciato continuare a vivere impunito, dopo tutti i suoi atroci crimini? Al punto in cui è arrivato è certo malvagio e maligno come un orchetto, e bisogna considerarlo un nemico. Merita la morte ». Gandalf risponde « Se la merita! E come! Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze. Ho poca speranza che Gollum riesca ad essere curato ed a guarire prima di morire. Ma c’è una possibilità. Egli è legato al destino dell’Anello. Il cuore mi dice che prima della fine di questa storia l’aspetta un’ultima parte da recitare, malvagia o benigna che sia; e quando l’ora giungerà, la pietà di Bilbo potrebbe cambiare il corso di molti destini, e soprattutto del tuo. Comunque, noi non l’abbiamo ucciso: è molto vecchio e misero. Gli Elfi Silvani lo tengono in prigione, ma lo trattano con tutta la dolcezza del loro cuore saggio e buono» [7] . Così quando Frodo avrà la possibilità concreta di uccidere Gollum, ricorderà le parole di Gandalf, e dirà: «Eppure come vedi non toccherò questo essere. Infatti ora che lo vedo mi fa pietà» [8] .

Anche gli altri personaggi si confrontano con l’Anello e ciascuno è tentato. Boromir vuole impadronirsene per poter sconfiggere Sauron, e muore riscattando il proprio errore. Gandalf e Galadriel non prendono l’Anello. Sono coscienti del loro potere e sanno che se prenderanno l’Anello si sostituiranno all’Oscuro Signore.

Particolare rilievo, rispetto al tema del ruolo e del potere, sembra ricoprire Samvise Gamgee, il giardiniere di casa Baggins. Sam è una figura straordinariamente affascinante del Signore degli Anelli. Un personaggio dotato di singolare umiltà e di notevole concretezza. È animato dalla devozione per il proprio padrone e arriva a caricarsi Frodo sulle spalle per aiutarlo a portare l’Anello al Monte Fato. Ma Sam, proprio per la sua genuina semplicità, e la sua completa fedeltà, sembra esente dal potere dell’Anello. Nell’episodio della Torre di Cirith Ungol, Sam prende l’Anello per evitare che gli Orchi se ne impadroniscano e lo restituisce a Frodo offrendosi, con innocenza, di portarlo per alleviare la pena del proprio amico.

Infine, non potendo analizzare la miriade di personaggi ricchi di fascino del Signore degli Anelli, è interessante osservare il ruolo di Aragorn, Théoden e Éowyn.

Aragorn è il re, l’erede di Isildur, e porta sulle sue spalle un’eredità di grandezza e debolezza insieme. La sua figura, come gli altri personaggi di Tolkien, non è idealizzata, ha uno sviluppo complesso che segue il respiro del romanzo. L’inizio è nascosto, anche nel nome; gli Hobbit lo conoscono come Grampasso. Il lettore impara a conoscerlo lentamente. Alla fine Aragorn lascerà il ruolo in ombra per realizzare tutta la sua metamorfosi fino a diventare un capo e contemporaneamente un guaritore [9] . Il re è un capo che non nasce potente e autoritario, ma lentamente impara l’autorevolezza e si fa carico del proprio compito, unendo la decisione tipica del condottiero alla delicatezza carismatica del guaritore.

Théoden, Re di Rohan, è un altro tipo di re. Ha perso il suo comando concreto affidandosi ai consigli di Grima Vermilinguo, servo di Saruman. Dopo che Gandalf l’ha liberato dall’influenza maligna del cattivo consigliere, Théoden riprende il comando con autorevolezza e coraggio sacrificando la propria vita nella battaglia dei campi del Pelennor. Tuttavia Théoden è un re che sente il peso della propria responsabilità. È scosso dal dubbio. Si domanda se i consigli di Gandalf siano giusti. Tolkien riesce a rendere viva l’immagine di un anziano capo, ancora fiero, ma che nutre dubbi e contrasti interiori vedendo come il mondo stia cambiando:«“Si narra che mai il Trombatorrione ha ceduto ad un assalto”, disse re Théoden; “ma ora nel mio cuore cova un dubbio. Il mondo cambia, e tutto ciò che un tempo era forte ora si rivela insicuro. Come potrà mai una torre resistere a una tale valanga e a un odio così implacabile?”» [10] .

Nipote di re Théoden, Éowyn è una dama guerriera, bella e coraggiosa. È un’eroina femminile che gioca una parte importante nel romanzo ed esercita un fascino formidabile sul lettore. Vuole accompagnare il re in battaglia, ma le viene proibito. Éowyn però ha uno spirito indomito, tipicamente femminile, e non si lascia scoraggiare. Non cede ad un ruolo assegnato dalla cultura del maschio guerriero. Sente che il suo compito è combattere per il sovrano e per ciò che ama. Parte per la battaglia travestendosi da uomo d’arme. La maestria letteraria di Tolkien la metterà davanti al Signore dei Nazgûl, Angmar, lo spettro a cui una profezia aveva garantito che mai sarebbe stato ucciso per mano di uomo. Éowyn ride in faccia al potente spettro e come in una scena da film dice: «Ma io non sono un uomo vivente! Stai guardando una donna. Éowyn io sono, figlia di Éomund. Tu ti ergi fra me e il mio signore dello stesso mio sangue. Vattene se non sei immortale! Viva o morente ti trafiggerò, se lo tocchi» [11] . Lo spettro non si ricorda di quanto sia rischioso mettersi contro una donna che difende una persona che ama. Verrà distrutto. Tolkien non offre una versione stereotipata della figura femminile, anzi ci dona un’immagine fortemente realistica. La donna si assume il proprio ruolo e segue il proprio destino, esattamente come i propri compagni maschi. E nella battaglia dei campi del Pelennor, affronta il più potente degli spettri con un coraggio assoluto, ispirato dall’amore.

Importanza dei sentimenti e dei valori

In alcune organizzazioni è considerata quasi una legge la netta separazione tra il sentimento e professionalità. Dietro una professionalità ipostatizzata ed eretta a valore laico si nasconde spesso la difficoltà di esprimere e vivere con competenza le proprie emozioni ed i propri sentimenti. Ma potremmo domandarci: che male c’è a  lavorare con amici, o esprimere con slancio gratitudine o affetto, anche sul luogo di lavoro, questo tempio della perfetta e gelida professionalità?

Come abbiamo già visto nel rapporto tra Frodo e Gollum, Tolkien dà ampio spazio al tema della pietà. Anche re Théoden mostra pietà nei confronti del suo cattivo consigliere Vermilinguo e gli lascia la scelta di combattere al suo fianco o scappare. Ancora una volta Gandalf consiglia il re perché questi sia pietoso. La pietà è il sentiero del successo lungo tutto il romanzo. Sauron viene sconfitto dalla capacità di perdono di Frodo e degli altri personaggi. La fortuna stessa di Frodo non risiede nella sua virtù personale, che è debole, come abbiamo già osservato, ma nella sua capacità di perdonare, di dare gratuitamente.

Un altro sentimento dominante del Signore degli Anelli è l’amicizia. Possiamo certamente affermare che l’amicizia sia più presente dell’amore fisico. L’eros infatti è circoscritto in brevi episodi ed è sempre sublimato in gesti di affetto ed in descrizioni garbate di bellezza e aggraziata compostezza. L’amicizia invece attraversa tutto il romanzo. Gli esempi più alti di amicizia sono rappresentati dalle relazioni all’interno della compagnia dell’Anello. Nella compagnia spicca l’amicizia tra Merry e Pipino, tra Legolas e Gimli - un’amicizia inconsueta tra un elfo ed un nano, che supera le ataviche diffidenze di razza -. C’è inoltre il bellissimo quadro del forte sentimento amicale e della fedeltà reciproca tra Frodo e Sam.

L’amicizia e la fedeltà all’amicizia non esiste solo nei legami tra individui, ma anche tra popoli. Nel romanzo si fa riferimento molto spesso ai patti di amicizia e di fedeltà tra popoli che sembrano assomigliare assai poco alle alleanze politiche cui siamo abituati noi oggi.

Nel Signore degli Anelli c’è anche un sentimento che compare solo in controluce, la nostalgia per gli elfi e per la loro fine. Attraverso questo sentimento Tolkien esprime una sottile dialettica tra il mantenere la tradizione ed il superarsi - cambiare per affrontare il futuro -. Gli elfi sono il popolo simbolo della bellezza e della virtù. Ce lo spiega bene Paolo Gulisano: «Gli elfi di Tolkien dunque non sono né folletti né fatine dei boschi: sono creature più alte degli uomini, e dalla affascinante, sobria, armonica bellezza. Hanno occhi grigi luminosi, e capelli bruni o biondi a seconda delle diverse famiglie di appartenenza. Il riferimento per questa immagine elfica è decisamente arcaico, ed è nell’Edda norrena o nella mitologia celtica irlandese dove si parla di un antico popolo, i Sidhe, composto dai superstiti degli antichi signori dell’isola, i Túatha Danaann, decaduti davanti all’avanzata della civiltà umana e occultati alla sua vista. I Sidhe sono anche detti «il popolo fatato», e questo termine, in inglese fairy, è quello che più si avvicina alla concezione tolkieniana di queste creature. Una popolazione che secondo Tolkien non sempre appare per quel che è in realtà, e che «si veste di quella fiera bellezza di cui saremmo ben lieti di palliarci a nostra volta».

Il Silmarillion, tra le opere tolkieniane, è quella che ha al suo centro gli elfi, che nelle prime età del mondo erano figure dominanti, prima di andare incontro a un lento declino. È proprio la loro malinconica sorte che serve da prezioso insegnamento in questo autentico manuale della concezione tradizionale della vita, in opposizione alle perversioni della modernità: Tolkien individua il peggior difetto degli uomini nel loro «progressismo», ovvero il fascino per le novità di ogni genere che essi subiscono, la tendenza a lasciarsi sradicare e a indulgere a un nomadismo che è principalmente spirituale, mentre il maggiore limite degli elfi sta nel loro «conservatorismo»: una dedizione pregevole ma statica a usi e costumi del passato, un eccesso di nostalgia per la grandezza trascorsa, un commovente attaccamento alla propria terra che tuttavia li rende spesso indifferenti al mondo circostante e riottosi alle avventure.

Gli elfi pertanto non sono creature perfette, immuni da difetti, tuttavia tra i popoli di Arda essi possiedono le maggiori virtù, e sono i più dotati rispetto alle arti. Tolkien guardò sempre all’arte come a una nobile forma di subcreazione, una prerogativa elevata ed elevante, poiché si tratta di realizzare opere a immagine di Dio e della sua creazione. Gli elfi sembrano essere preposti a ricordare agli uomini la bellezza del creato, il dono incorrotto di Dio; il loro stesso nome -che nelle lingue germaniche è elf o alf o alb - è affine al latino albus, bianco, splendente, ma anche al celtico alp, montagna boscosa, da cui il nome gaelico della Scozia, Alba, o quello più antico dell’isola britannica, Albion, e richiama sia alloro lucente, limpido aspetto, sia alla loro attitudine a vivere nei boschi tra le vallate montuose. Essi sono testimoni discreti dell’importanza dell’arte, della cultura, di una civiltà elevata e virtuosa rispetto alla barbarie selvatica, compresa quella paludata di ritrovati tecnologici. Gli elfi ricordano agli uomini quello che anch’essi potrebbero essere, se si liberassero dalle loro passioni più insane e rovinose: l’elfo è essenzialmente un contemplativo, diverso dall’uomo attivo e frenetico che cerca di manipolare la natura per servirsene» [12]

Dalla lettura di Gulisano emerge che, lontano dalla classica rappresentazione natalizia dell’elfo costruttore di giochi o del fiabesco omuncolo dei boschi, Tolkien opera un riorientamento dell’immagine degli elfi. Essi incarnano la scelta dello spirito, dell’arte e della bellezza, ma sono destinati alla scomparsa, soppiantati dagli uomini, sempre tesi alla ricerca del nuovo.

Gli elfi pur non rappresentando l’ideale di Tolkien, sono piuttosto il simbolo dell’anelito alla perfezione. E sono anche un primigenio monito all’ansia di novità e conquista dell’uomo: “se cerchi il tuo destino nel desiderio, sappi che sarai sempre insoddisfatto. Se ti fermi ed osservi ciò che ti circonda ti accorgerai della bellezza che non può essere posseduta, ma solo contemplata e vissuta”.

Globale e locale

Come interpretare le vicende del mondo di oggi? La “globalizzazione” è un argomento attuale, persino troppo attuale. Questo fenomeno, denso di contraddizioni, rappresenta un terreno di confronto per le persone e per le organizzazioni. Come far convivere la propria identità locale con i contesti più ampi dell’economia e della cultura globale?

Ciò che ha sempre destato in me grande stupore è l’estrema coerenza interna tra gli elementi narrativi e la normale convivenza di grande, maestoso, universale con il piccolo, umile e singolare, proprie dei grandi racconti di fiction. Questo vale, a mio parere – facendo un indebito pasticcio, ne sono consapevole -, per la narrativa di Italo Calvino, per Alessandro Manzoni nei  Promessi Sposi, per la saga di Guerre stellari, per i racconti della Fondazione (la trilogia) di Isaac Asimov ed altri grandi racconti che ho incontrato nella mia, seppur piccola, esperienza di lettore o spettatore di film.

Il Signore degli Anelli è un’espressione paradigmatica della convivenza di grande e piccolo, di macrocosmo e microcosmo. Gli elementi si richiamano in un intreccio di interconnessioni complesse in cui è impossibile trovare il centro, ma da cui si dipartono nuovi significati. Se ne incontrano numerosi esempi nel romanzo. Vi sono gesta epiche, grandi battaglie, città meravigliose. Ma troviamo anche descrizione di piccoli e pacifici mondi in cui prevale una dimensione domestica, in cui il lettore si sente cullato da quella emozione che definirei “la metafisica della tana”, citando Philippe Delerm [13] .

Potrei elencare numerosi passi oppure affidare al lettore un confronto diretto e far sperimentare l’emozione di accostare da sé questi due piani, riportando due passi celebri del romanzo: la descrizione di Minas Tirith, e l’episodio di Marry e Pipino tra le rovine di Isengard, dopo la sconfitta di Saruman.

«Minas Tirith infatti era stata edificata su sette diversi livelli, come delle sporgenze scolpite nella collina, circondate ciascuna da mura e chiuse da sette cancelli. Ma i cancelli non erano allineati: il Gran Cancello delle Mura Maggiori era situato nel punto più orientale del circuito, mentre il seguente era leggermente rivolto verso sud ed il successivo verso nord, e così via sino in cima; la strada selciata che conduceva su alla Cittadella serpeggiava in tal modo da un lato all’altro della collina. In linea con il Gran Cancello vi era invece una grossa sporgenza rocciosa la cui mole mastodontica divideva a metà tutte le cerchie della città eccetto la prima: una galleria a volta permetteva alla strada di attraversare questo bastione di pietra, dovuto in parte al travaglio dei secoli e in parte alle opere e al possente lavoro degli antichi abitanti: esso s’innalzava dall’estremità dello spiazzo antistante il Gran Cancello, tagliente e affilato come la chiglia di una nave rivolta verso oriente. Si ergeva imponente fino al livello della cerchia più alta, sormontato da un bastione che permetteva a coloro che si trovavano nella Cittadella di scrutare dalla cima impervia, come marinai dall’alto di una nave di roccia, il Gran Cancello situato settecento piedi più in basso. L’ingresso della Cittadella era anch’esso rivolto verso oriente, ma scavato nel cuore della roccia; di lì, un lungo pendio illuminato da lanterne conduceva al settimo cancello. In tal modo gli Uomini di Minas Tirith raggiungevano l’Alta Corte e la Piazza della Fontana ai piedi della Torre Bianca: alta e proporzionata, misurava cinquanta tese dalla base sino al pinnacolo, in cima al quale sventolava l’insegna dei Sovrintendenti, mille piedi al di sopra della pianura.

Era davvero una fortezza possente, e non certo facilmente espugnabile da un esercito nemico se qualcuno dei suoi abitanti sapeva maneggiare le armi; l’unica speranza per gli avversari era di sorprenderli alle spalle, inerpicandosi sui pendii inferiori del Mindolluin, per raggiungere la stretta sporgenza che univa il Colle di Guardia alla montagna stessa. Ma quella sporgenza, che si ergeva sino al livello della quinta cinta di mura, era fiancheggiata da imponenti bastioni fino alla sua estremità occidentale che dominava uno strapiombo; in quel luogo si trovavano le abitazioni e le tombe di sovrani e di signori del passato, per sempre muti fra il monte e la torre» [14] .

Altro clima si respira quando due Hobbit affamati ritrovano i loro amici ed improvvisano una sorta di pic-nic sulle rovine fumiganti di Isengard.

«Gli Hobbit fecero strada; passarono sotto l’arco e giunsero a un’ampia porta sulla sinistra, in cima a una rampa di scale. Dava su una grande stanza, in cui da un lato era un camino, e sulla parete opposta altre piccole porte; era una stanza scavata nella roccia, e un tempo doveva essere molto buia, poiché le finestre si aprivano soltanto sulla galleria. Ma ora la luce entrava liberamente dal tetto crollato. Nel focolare bruciava un rimasuglio di legna.

“Ho acceso il fuoco”, disse Pipino. “Ci dava un po’ di allegria in mezzo a tanta nebbia. C’erano pochi fasci, e la maggior parte della legna che trovammo in giro era bagnata. Ma il camino tira benissimo: sembra che una corrente d’aria serpeggi su attraverso la roccia, e per fortuna la cappa non è stata bloccata. Un falò fa sempre comodo. Vi preparerò del pane abbrustolito, perché purtroppo è vecchio di tre o quattro giorni”.

Aragorn ed i compagni si sedettero all’estremità di un lungo tavolo, e gli Hobbit scomparvero da una delle porte interne.

“Lì c’è un magazzino, al di sopra delle acque, fortunatamente”, disse Pipino quando tornarono carichi di piatti, ciotole, tazze, coltelli e cibi vari.

“E non c’è alcun motivo per arricciare il naso di fronte ai cibi, Messer Gimli”, vociò Merry. “Questa non è roba da orchetti, ma mangime umano, come lo chiama Barbalbero. Preferisci vino o birra? C’è un barile di là..., passabile. E questo è maiale salato di primissima qualità; ma se preferite posso farvi alla brace qualche fetta di lardo. Mi dispiace di non avere verdura: i rifornimenti sono stati interrotti negli ultimi giorni! Non ho altro da offrirvi, per finire, che burro e miele da spalmare sul pane. Vi basta?”.

“Eccome!”, disse Gimli. “Il vostro debito diminuisce notevolmente”.[…]

“ma prima, se avete finito di mangiare, riempite le pipe e accendetele. Potremo poi per qualche tempo far finta di esser di nuovo tutti sani e salvi a Brea o a Gran Burrone”.

Estrasse dalla tasca un piccolo sacchetto in pelle pieno di tabacco. “Ne abbiamo in quantità”, disse; “ne potrete portar via quanto vorrete. Stamattina Pipino e io abbiamo fatto opera di salvataggio. Un sacco di cose andavano galleggiando, e Pipino trovò due barilotti che le acque rubarono probabilmente a qualche cantina o magazzino. Aprendoli, trovammo che erano pieni di erba-pipa della specie più fine e perfettamente intatta”.

Gimli ne prese un pizzico che strofinò fra le due mani per poi annusarlo. “È buono al tatto e buono all’odorato”, disse.

“È buono davvero!”, disse Merry. “Mio caro Gimli, è Foglia di Pianilungone! Sui barili c’erano, chiari e precisi, i sigilli Soffiatromba. Come abbia potuto giungere sin qui, proprio non lo so. Per uso privato di Saruman, suppongo. Non sapevo che venisse esportata tanto lontano, ma ora è assai utile, no?”.

“Lo sarebbe”, disse Gimli, “se avessi anche una pipa. Purtroppo persi la mia a Moria, o anche prima. In mezzo a tutto il vostro bottino non ne avete per caso trovata una?”.

Temo proprio di no », rispose Merry. “Non ce n’erano, nemmeno nelle guardiole. A quanto pare, questa era una leccornia riservata a Saruman. E non credo che servirebbe molto bussare alle porte di Orthanc per domandargliene una! Saremo costretti a fare un po’ per uno, come fanno tutti i buoni amici in caso di necessità”.

“Un momento!”, disse Pipino, e infilando la mano nel taschino interno della giacca estrasse un piccolo sacchetto morbido legato da un cordino. “Tengo a contatto con la pelle uno o due tesori, per me preziosi come Anelli. Eccone uno: la mia vecchia pipa di legno. Ed eccone un altro: una pipa nuova. La porto con me da quando sono partito, e non so perché; non mi aspettavo certo di trovare erba-pipa in viaggio, dopo aver esaurito la mia provvista. Ma ora si rivela utile, dopo tutto”. Mostrò una piccola pipa dal bocchino largo e piatto, e la tese a Gimli. “Basta per regolare i conti fra noi?”, domandò.

“Se basta!”, gridò Gimli. “Ma ora, nobile Hobbit, sono io profondamente indebitato verso di te”» [15] .

È straordinario il senso di grandioso che pervade il lettore mentre immagina la città-fortezza di Minas Tirith. Ma altrettanto straordinaria è la dolce sensazione di accoglienza che i piccoli Hobbit riescono a ricreare ad Isengard.

Il grande ed il piccolo si integrano perfettamente senza soluzione di continuità, anzi, l’uno senza l’altro non potrebbero esistere, entrambi trovano il proprio senso proprio nell’altra dimensione.

Aporie del coaching e counseling organizzativo

Le persone che lavorano alla costruzione di buone relazioni incontrano spesso il bivio e l’ambiguità del compito che è loro affidato. Come guidare senza dirigere, come consigliare senza imporsi? La metafora della magia è essa stessa ambigua. Si presenta col suo scintillante fascino di “scorciatoia” attraverso le fatiche della vita. Tolkien ci offre due differenti immagini di mago. Sono due scelte di vita e due progetti sulla relazione d’aiuto.

Nel Signore degli Anelli si contrappongono due grandi maghi Gandalf il grigio e Saruman il bianco. Entrambi erano due dei cinque Istari, chiamati Maghi dagli uomini. Erano stati inviati come emissari dai Valar nella Terra di Mezzo, quando questi ultimi si resero conto che stava sorgendo un grande Male in essa. I Maghi erano anziani, all’apparenza, ma assai vigorosi, e portavano lunghi cappelli appuntiti e bastoni che simboleggiavano il loro potere. Essi formavano una sorta di Ordine e Saruman ne era ritenuto il capo.

I due maghi sono guide nella Terra di mezzo. Non fanno grande sfoggio di magia. Sono rivestiti di spoglie umane e devono fare i conti con la fatica, la preoccupazione e la tentazione, proprio come tutti gli altri uomini. Tuttavia esercitano un forte potere di influenzamento nei confronti dei popoli della Terra di Mezzo.

Saruman però si fa irretire dal desiderio di potere ed inevitabilmente segue una strada che lo porterà alla sconfitta. Egli non vuole più consigliare, indicare la strada, far sì che i popoli trovino il loro destino. Saruman vuole controllare, vuole comandare. È la propria realizzazione di capo che desidera esprimere. Il suo mantello bianco si tramuta e diviene cangiante. Non è più una guida sicura, ma ambigua. È molto bello il passo del colloquio tra i vincitori della battaglia di Isengard e lo sconfitto Saruman «Improvvisamente si udì un’altra voce, lenta e melodiosa, il cui suono era già di per sé un incantesimo. Coloro che l’ascoltavano imprudentemente, di rado riuscivano a riferire le parole che avevano udito, e se vi riuscivano rimanevano stupefatti, perché sembravano spoglie di qualunque potere. Rammentavano soltanto, di solito, che era una delizia ascoltare quella voce, e che tutto quello che essa diceva pareva saggio e ragionevole: nasceva in essi il desiderio di sembrare anche loro saggi, accondiscendendo rapidamente. Quando qualcun altro prendeva la parola, dava per contrasto l’impressione di essere rozzo e goffo, e se contraddiceva l’incantevole voce, nel cuore di chi era soggiogato avvampava la collera». Saruman ha un grandissimo potere nella sua voce, ma ha rinunciato ai valori in cui credeva e la sua voce è uno strumento piegato al male, gli serve per blandire. Il mago usa la voce per sedurre, per ridurre gli altri in schiavitù. I sui consigli non nascono più da un’intenzione positiva e nulla gli costa legare gli altri a sé attraverso la lode e la falsa gratificazione.

Gandalf, al contrario, esercita il proprio mandato con determinazione e rettitudine. Al contrario di Saruman ha una forte dirittura morale ed è chiaro e schietto nelle proprie indicazioni. Non ha bisogno di lusingare, perché il suo obiettivo non è possedere la persona che deve consigliare. Talvolta, è persino rude nell’indicare la strada alle persone che si affidano alla sua saggezza.

A differenza di Saruman, che si costruisce un palazzo, e conduce una vita stanziale, Gandalf gira per la Terra di Mezzo e ne conosce tutte le popolazioni. Da esse è riconosciuto e ogni popolazione lo chiama con un nome diverso. Egli è una sorta di “antropologo mitico” del mito creato da Tolkien. Gli piace studiare le popolazioni della Terra di Mezzo. Si appassiona alla loro storia e la loro cultura, ma soprattutto si affeziona ai mezz’uomini, gli Hobbit. Il suo è un affetto sincero. Vuole bene a questi piccoli personaggi un po’ strampalati, che vivono in tane, come conigli, amano la buona cucina, la birra e l’erba-pipa, sono legati ai valori tradizionali della famiglia e, tutto sommato, sono un po’ provincialotti. Ben diverso è l’atteggiamento di Saruman che guarda agli Hobbit con sufficienza e nel migliore dei casi, con falsa condiscendenza.

Gandalf usa poco la magia. La sua vera magia consiste nel trovare un equilibrio tra la guida ed il desiderio di controllo sugli eventi. I suoi interventi magici non privano mai le persone o i popoli della libertà o della responsabilità rispetto alle scelte che devono essere compiute. E il suo atteggiamento non è mai nobilmente distante, come quello di Saruman. Gandalf si sporca le mani. Soffre e gioisce con le persone che accompagna nel destino della Terra di Mezzo ed arriva a sacrificare la propria vita nell’epico scontro con il Balrog.

Etica ed estetica dell’organizzazione

Spiegare un’organizzazione è un compito difficile. La si può descrivere attraverso i suoi processi, la struttura gerarchica, il prodotto, il mercato e così via. Si può anche scegliere la strada della narrazione. Raccontare la storia dei fondatori, dei primi fedeli collaboratori, delle sue vicende fortunate o dei momenti di difficoltà. Ma assai complesso è spiegare come nascano i valori etici e la bellezza. In questo passo del Silmarillion che non commenterò - perché mi sembra di togliere piuttosto che aggiungere qualcosa al suo fascino metaforico ed immaginoso - possiamo trovare tante indicazioni sulla bellezza e sulla difficoltà di lavorare in azienda.   

Il Silmarillion inizia con un atto creativo che si esplica in una metafora musicale. La musica è immagine della creazione: « Esisteva Eru, l’Uno, che in Arda è chiamato Ilúvatar; ed egli creò per primi gli Ainur, i Santi, rampolli del suo pensiero, ed essi erano con lui prima che ogni altro fosse creato. Ed egli parlò loro, proponendo temi musicali; ed essi cantarono al suo cospetto, ed egli ne fu lieto. A lungo cantarono soltanto uno alla volta, o solo pochi insieme, mentre gli altri stavano ad ascoltare; che ciascuno di essi penetrava soltanto quella parte della mente di Ilúvatar da cui proveniva, e crescevano lentamente nella comprensione dei loro fratelli. Ma già solo ascoltando pervenivano a una comprensione più profonda, e s’accrescevano l’unisono e l’armonia.

E accadde che Ilúvatar convocò tutti gli Ainur ed espose loro un possente tema, svelando cose più grandi e più magnifiche di quante ne avesse fino a quel momento rivelate; e la gloria dell’inizio e lo splendore della conclusione lasciarono stupiti gli Ainur, sì che si inchinarono davanti a Ilúvatar e stettero in silenzio.

Allora Ilúvatar disse: “Del tema che vi ho esposto, io voglio che voi adesso facciate, in congiunta armonia, una Grande Musica. E poiché vi ho accesi della Fiamma Imperitura, voi esibirete i vostri poteri nell’adornare il tema stesso, ciascuno con i propri pensieri e artifici, dove lo desideri. Io invece siederò in ascolto, contento del fatto che tramite vostro una grande bellezza sia ridesta in canto”.

Allora la voce degli Ainur, quasi con arpe e liuti, e flauti e trombe, e viole e organi, quasi con innumerevoli cori che cantassero con parole, prese a plasmare il tema di Ilúvatar in una grande musica; e si levò un suono di melodie infinitamente avvicendantisi, conteste in armonia, che trascendevano l’udibile in profondità e altezza, e i luoghi della dimora di Ilúvatar ne erano riempiti a traboccarne, e la musica e l’eco della musica si spandevano nel Vuoto, ed esso non era vacuo. Mai prima gli Ainur avevano prodotto una musica simile, benché sia stato detto che una ancora più grande sarà fatta al cospetto di Ilúvatar dai cori degli Ainur e dei Figli di Ilúvatar dopo la fine dei giorni. Allora i temi di Ilúvatar saranno eseguiti alla perfezione, assumendo Essere nel momento stesso in cui saranno emessi, che tutti allora avranno compreso appieno quale sia il suo intento nella singola parte, e ciascuno conoscerà la comprensione di ognuno, e Ilúvatar conferirà ai loro pensieri il fuoco segreto, poiché sarà assai compiaciuto.

Ora però Ilúvatar sedeva ad ascoltare, e a lungo gli parve che andasse bene, perché nella musica non erano pecche. Ma, col progredire del tema, nel cuore di Melkor sorse l’idea di inserire trovate frutto della propria immaginazione, che non erano in accordo con il tema di Ilúvatar , ed egli con ciò intendeva accrescere la potenza e la gloria della parte assegnatagli. A Melkor tra gli Ainur erano state concesse le massime doti di potenza e conoscenza, ed egli partecipava di tutti i doni dei suoi fratelli. Spesso se n’era andato da solo nei luoghi vuoti alla ricerca della Fiamma Imperitura, poiché grande era in lui il desiderio di porre in Essere cose sue proprie, e gli sembrava che Ilúvatar non tenesse da conto il Vuoto, e la vacuità di questo gli riusciva intollerabile. Ma il Fuoco non l’aveva trovato, poiché esso è con Ilúvatar. Standosene solo, aveva però preso a concepire pensieri suoi propri, diversi da quelli dei suoi fratelli.

Alcuni di questi pensieri li contesse ora nella sua musica, e attorno a lui subito fu discordanza, e molti che vicino a lui cantavano si scoraggiarono, il loro pensiero fu deviato, la loro musica si fece incerta; altri però presero a intonare la propria a quella di Melkor, anziché al pensiero che avevano avuto all’inizio. Allora la dissonanza di Melkor si diffuse vieppiù, e le melodie che prima s’erano udite naufragarono in un mare di suoni turbolenti. Ma Ilúvatar continuò a sedere in ascolto, finché parve che attorno al suo trono infuriasse una tempesta come di nere acque che si muovessero guerra a vicenda, in un’ira senza fine e implacabile. Poi Ilúvatar si alzò, e gli Ainur si avvidero che sorrideva; e Ilúvatar levò la mano sinistra, e un nuovo tema si iniziò frammezzo alla tempesta, simile e tuttavia dissimile dal precedente, e acquistò potenza e assunse nuova bellezza. Ma la dissonanza di Melkor aumentò in fragore, con esso contendendo, e ancora una volta s’ebbe una guerra di suoni più violenta della prima, finché molti degli Ainur ne restarono costernati e più non cantarono, e Melkor ebbe il sopravvento. Allora Ilúvatar tornò a levarsi, e gli Ainur s’avvidero che la sua espressione era severa; e Ilúvatar alzò la mano destra, ed ecco, un nuovo tema si levò di tra lo scompiglio, ed era dissimile dagli altri poiché sembrò dapprima morbido e dolce, una semplice increspatura di suoni lievi in delicate melodie; ma era impossibile soverchiarlo, e assunse potenza e profondità. E sembrò alla fine che vi fossero due musiche che procedevano contemporaneamente di fronte al seggio di Ilúvatar, ed erano affatto diverse. L ‘una era profonda e ampia e bella, epperò lenta e impregnata di un’incommensurabile tristezza, onde soprattutto ricavava bellezza. L’altra aveva ora acquisito una coerenza sua propria; ma era fragorosa, e vana, e ripetuta all’infinito; e aveva scarsa armonia, ma piuttosto un clamoroso unisono come di molte trombe che emettessero poche note. Ed essa tentava di sovrastare l’altra musica con la violenza della propria voce, ma si aveva l’impressione che le sue note anche le più trionfanti fossero sussunte da quella e integrate nella sua propria, solenne struttura» [16] .



[1] Cfr. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze, 1988, I, pag. 3 e sgg.

[2] P. Gulisano, Tolkien, il mito e la grazia, Ancora, Milano, 2003, pag. 99 e sgg.

[3] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano, 2000, p. 340.

[4] J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, Rusconi, Milano, 1978, pp. 362 e 363.

[5] Ivi, p. 364.

[6] Cfr. P. Gulisano, Op. cit., p. 129.

[7] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano, 2000, p. 94.

[8] Ivi, p. 745.

[9] Cfr. P. Gulisano, Op. cit., p. 123.

[10] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano, 2000, p. 655.

[11] Ivi, p. 1010.

[12] P. Gulisano, Op. cit., pp. 150 e 151.

[13] Cfr. Philippe Delerm, Mister Mouse o la metafisica della tana, Frassinelli, 2003.

[14] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Bompiani, Milano, 2000, pp. 904 e 905.

[15] Ivi, pp. 681- 683.

[16] J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, Rusconi, Milano, 1978, pp. 11-13.

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