BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 27/01/2003

DAL PENSIERO UNICO ALLA COMUNITA' AFFETTIVA

di Massimiliano Di Gioia

Perfettibilità della democrazia
Quando parliamo di perfettibilità della democrazia e di pensiero unico moltissime di queste cose sono già state dette, ad esempio, da Pasolini all’inizio degli anni ’70 nei suoi “Scritti corsari” in cui era ben rappresentata la decadenza civile attraverso la “borghesizzazione del mondo”, l’omologazione dei “media” che triturano tutto (lingua, dialetti, cultura, storia ecc) ed il degrado ambientale (chi non ricorda il discorso sulla scomparsa delle lucciole?).
Io credo che un grosso problema sia rappresentato dall’ignoranza. Ignoranza che non va intesa soltanto come espressione di analfabetismo ma che deve essere analizzata attraverso il suo significato. Il non sapere le cose significa essere messo da parte sull’argomento. Il non conoscere comporta l’isolamento. Più negativo è poi il non essere consapevole di essere ignorante. Socrate non insegnava invece di essere consapevole di non sapere? Soltanto la consapevolezza di essere ignorante può rappresentare uno stimolo per conoscere quello che non si conosce, per ricercare una verità nascosta. E’ proprio vero che la conoscenza è un pozzo senza fine. Ma il pensiero unico nasce e si alimenta attraverso il congelamento della conoscenza. I media, sul non sapere e sull’assenza di stimolo all’apprendimento fondano il loro potere. Qualche esempio? Ci siamo mai chiesti quali sono le fonti delle informazioni mondiali? Chi le detiene? Basta leggere alcuni giornali ed ascoltare qualche tg alla TV per rendersene conto. Il 90% delle notizie internazionali deriva dal mondo anglosassone attraverso le agenzie di stampa (il 99% del 90% sono fonti governative). Cosa voglio dire? Che non sapremo mai, non conosceremo mai le condizioni sociali dei poveri d’America, i conflitti quotidiani interetnici, della vita delle persone malate e sofferenti e di come, ad esempio, il continente africano, dissanguato da secoli da noi occidentali (ma non solo) non riuscirà mai a risollevarsi se continuiamo ad alimentare gli speculatori (sono ad esempio legali quei diamanti che provengono dalle zone di guerra africane?).
Sappiamo ad esempio che nel mondo, oltre al problema del burka, esistono più di 120 milioni di donne, somale ed eritree soprattutto, che hanno subito l’infibulazione (mutilazione degli organi genitali) e che spesso questa mutilazione avviene anche con il sostegno di alcuni medici europei? Esiste un “canale internazionale” in cui si trasmettono tutte le immagini del mondo. Quello è il luogo in cui si svolge la più grande censura quotidiana sull’informazione. E si censura non per i deboli di cuore o per i bambini (anche perché basta vedere nella Tv italiana alcuni programmi come la “Vita in Diretta”, “Porta a Porta” o un semplice tg ) ma solo esclusivamente per non trasmettere il sapere, per non rendere consapevoli gli individui. Poi è chiaro bisogna distinguere da notizia a notizia e di come viene servita. Chi non ricorda le immagini di un milione di morti nei fiumi del Ruanda prima di un servizio sulla Moda! Che informazione è quella? E’ brutalità pura, è ignoranza totale. Perché sull’argomento i giornalisti non dissero nulla per mesi sulla guerra in atto, con decine di migliaia di morti, tra Tutsi e Hutu in Burundi? Che cosa c’era di più importante da diffondere, un ennesima sfilata di Valentino a Parigi o il solito screzio tra Diana e la monarchia inglese? Esiste la dittatura del sensazionale nell’attesa che avvenga qualche catastrofe, tutto il resto non è degno di essere menzionato. Le prime notizie sul Ruanda cominciarono a circolare, infatti, quando i morti erano già più di 200 mila. Come si fa poi a non considerare l’elemento umano della vicenda, a non spiegare la causa di un genocidio del genere. In quel momento dov’erano la religione, la politica, la coscienza, l’etica…
Mai una volta che ci sforzassimo di comprendere le altre culture, per esempio quanta influenza ha ancora la magia nel continente africano. Tutto viene misurato secondo il parametro occidentale. Sia l’ignoranza che la conoscenza sono un pozzo senza fine soltanto che su questo terreno non ci sono mediazioni. L’una esclude l’altra. E della storia ne vogliamo parlare? (non esiste tra l’altro una storia con la S maiuscola come ci vogliono far credere.). Se conoscessimo un po’ di più la storia degli altri (Africa, India, Asia, America del Sud), ad esempio, non ci stupiremmo degli immigrati, non ci stupiremmo delle guerre fratricide che impazzano tra le tribù o le fazioni in lotta per governare, non ci stupiremmo delle fame e della povertà. I nigeriani sono poverissimi e vivono sopra un mare di petrolio! Quanti bambini muoiono di malattie gravi solo perché malnutriti. Eppure ci sarebbe cibo per il doppio della popolazione mondiale. L’unica cosa sensata da fare è di ridistribuire le risorse e le ricchezze. E’ necessario capovolgere tutto quello che è stato fatto sinora. Ma la verità è che per mantenere circa 1 miliardo di persone nel benessere è necessaria la contemporanea fame dei restanti 5. Sono le fortissime contraddizioni del nostro tempo ma sono soprattutto le nostre “ignoranze” che creano il pensiero unico, un pensiero che ha definito questi ultimi 50 anni un periodo di prosperità e di pace senza dire che questa “splendida situazione” è solo ed esclusivamente a vantaggio di una risicatissima minoranza mondiale.

Affermare i valori condivisi
Il non sapere dunque condiziona tutta la nostra vita. E la regola, come tutti sanno, è chi detiene le informazioni controlla gli altri. Non c’è una ricetta per ristabilire un equilibrio ma qualcosa è necessario pur fare. Innanzitutto l’obiettivo principale è lo sviluppo di un “circuito informativo su base locale che abbia il compito di acquisire credibilità presso i cittadini che solo allora si potrebbero sentire attratti dall’idea di partecipare”. La questione del sapere e della conoscenza torna alla ribalta prepotentemente. Adesso non conta più ciò che si dice ma come lo si dice , in quali circostanze e soprattutto con quali mezzi.
La società civile in Italia non riesce a rappresentarsi per l’assenza di un circuito associativo forte a rappresentare le istanze diffuse nella comunità e sull’eccessiva “forza dei partiti che condizionano la partecipazione civica e tendono a non avere un atteggiamento inclusivo nei confronti della società civile”. Al riguardo sarebbe anche ora di iniziare a dire che a dispetto della diffusissima opinione che crede che i partiti non si “interessano più” dei cittadini, gli stessi partiti s’interessano eccome ai cittadini soffocandone tutti gli spazi e limitandone il movimento. Bisogna iniziare a sottolinearle queste cose e far capire che non è vero che i partiti si sono allontanati ma che invece si interessano perfino di aspetti marginali, di micro-problemi senza peraltro risolvere alcunché. Allora come possiamo invertire questa tendenza alla “tuttologia” inconcludente? E soprattutto come facciamo ad “affermare un insieme di valori condivisi da tutti nella comunità”? Sappiamo che le situazioni e le persone rappresentano mondi diversi da comprendersi nella loro specificità. Ma essere portatori di una cultura tesa a difendere e rafforzare le proprie idee preesistenti, i propri valori, i propri obiettivi considerando l'altro non come una risorsa, ma come uno strumento da manipolare sono le premesse per la costituzione degli ostacoli alla comunicazione. E’ in questa ombra che scompare la democrazia. Come si può arrivare allora al cittadino? Qual è uno strumento efficace in queste situazioni?
Sembra troppo facile dire coinvolgimento e partecipazione. Ma di qui non si sfugge. Se ciascuno di noi abbandonasse un pezzetto di individualismo e si mettesse in gioco, con il proprio sapere, con la propria esperienza, la propria volontà si invertirebbe la tendenza. Tutto questo non rappresenta la soluzione ma è l’unica cosa da fare. Mi viene in mente un pezzo di Giorgio Gaber sulla libertà che “non è star sopra un albero ma è partecipazione”. Credo che intendesse proprio questo. Sacrificarsi un po’ per gli altri e partecipare alla vita di una comunità. Insomma ci vuole l’intelligenza (sapere e conoscenza) ma anche l’affettività, i sentimenti, la volontà. La parte emozionale non va trascurata e forse, anche qui, un retaggio tipicamente di sinistra l’ha sempre rigettata in nome di strutture e categorie (il partito, le masse, la borghesia, il proletariato…). D’altronde la teoria marxista non è una derivazione, proprio sotto l’aspetto della struttura, della filosofia della storia di Hegel?
Una cultura solidaristica si fonda sulla relazione affettiva tra le persone. Se non c’è un elemento di simpatia o empatia tra due persone anche nel contatto della pelle faranno sicuramente fatica a trovare un ragione valida che li unisca. Il contatto umano, la vicinanza favorisce uno scambio di se stessi più proficuo. Cosa si rimprovera alla politica e al pensiero unico? L’aver gettato a mare tutto questo patrimonio di “contatti” costituito dalle sezioni, dalle feste ecc. (l’urbanistica moderna non è stato uno strumento che ci ha tolto gli spazi per questo tipo di contatti?) Si potrebbe discutere ore sull’importanza della festa come mezzo impressionante di penetrazione di idee e sentimenti della classe dirigente. Basta leggere gli studi di storici come Vovelle ed Ozouf sulla Rivoluzione Francese per rendersene conto.
Parlando del contatto umano non ci può non venire in mente come l’utilizzo delle nuove tecnologie di comunicazione (web, e-mail ecc) se favoriscono da un lato il rapido scambio delle informazioni superando le barriere istituzionali dell’editoria imperante dall’altro frappongono ostacoli non indifferenti al “flusso comunicativo verbale” importantissimo per allacciare relazioni di un certo peso tra individui. L’oralità sta alla base di uno dei più grandi capolavori “letterari” dell’uomo: l’Iliade di Omero. L’oralità sta alla base dei nostri rapporti affettivi. Parlare, discutere è un’azione vera, diretta. Per riconoscersi a vicenda, dunque, sono necessari degli spazi comunicativi adeguati per sviluppare il “discorso affettivo” e per cercare di incidere sulle identità dei cittadini e quindi sulla politica. Un circuito informativo si può reggere soltanto con l’unità di intelligenza e sentimento. E’ necessario allora costituire più che una comunità locale (che è la struttura!), una comunità affettiva.

Comunità affettive
Stringendo sempre più il cerchio, porto l’esempio di un operazione oscura e poco chiara che ha visto protagonista l’amministrazione comunale di Roma e come, nella reazione a questa operazione, si può cogliere l’embrione di una comunità affettiva. C’è una legge (la 493/93) che ha istituito dei programmi di recupero urbano che nascono con l’intento di riqualificare le periferie degradate utilizzando dei fondi messi a disposizione dalla Regione ed individuano, attraverso accordi di programma tra il Comune e i Costruttori, gli ambiti di intervento della riqualificazione. A Roma, 11 sono state le periferie interessate da questi interventi (per comodità nel gergo urbanistico si chiamano Articoli 11). Cosa importante da sottolineare gli Art. 11 agiscono in variante esecutiva del Piano Regolatore, cioè cambiano la destinazione d’uso dei terreni; ad esempio possono far diventare edificabili zone in precedenza destinate a verde pubblico dal Piano Regolatore (è da immaginare la speculazione). Così su un’area verde di 100 ettari, vincolata tra l’altro dalle leggi in materia ambientale (D.lgs 490/99 e PTP 6.7.98, da notare gli anni!) l’amministrazione ha pensato bene di inserire un Art.11 costituito da un progetto residenziale imponente (circa 1000 abitanti in più). Cosa c’è da recuperare in un’area naturale incontaminata? La cosa grave è che le periferie degradate esistono veramente e questa è stata la classica occasione sprecata. A diversi Km di distanza c’era (c’è tutt’oggi) un intero quartiere che sarebbe stato necessario recuperare. I cittadini non sono stati a guardare ed hanno reagito con la legge (ricorso al TAR) e con le proteste sul territorio attraverso un “tam tam” impressionante. Così sono state raggiunte numerosissime persone fino a quel momento non interessate al problema perché “non sapevano”. Si è messa in moto quella che io chiamo la comunità affettiva., quella comunità vasta, interclassista che si riunisce attorno ad una questione “pratica” e pur nelle differenti proposte lavora e s’impegna alla ricerca di soluzioni condivise. E’ una comunità che opera su una scala piccola, locale ma che già da sola tenta di incidere sulla vita quotidiana di almeno 200 mila abitanti.
Un passo importante, quindi, è raffrontarsi con la comunità esistente ma a patto che le regole di confronto abbiano le stesse basi. E’ ovvio, sembrerà banale, ma ad esempio la legge (una regola comune che in questa comunità deve essere condivisa) ci dice che su una area verde, come abbiamo visto, quell’intervento non doveva essere progettato. Questo è il primo punto di discussione. Può la politica forzare la legge in nome di poteri forti? La risposta è ovviamente negativa. Ma questa è una discriminante per andare avanti. La legge parla chiaro. Proprio su quella zona insistono dei vincoli, sbagliati o corretti che siano, e la legge non prevede alcuna edificazione. Questo articolo 11 riqualificherebbe la zona, sarebbe finalmente quell’opera di completamento che tanto aspettavano i quartieri interessati? Anche qui la risposta mi sembra scontata. Allora come si affronta la politica quando invece insiste su questo punto? Con il conflitto, c’è poco da fare, perché quell’opera non da nulla in cambio alla comunità ma maschera un intervento speculativo.
Mettiamo allora per ipotesi che la nostra comunità senta l’esigenza di trovare l’alternativa a questo progetto salvaguardando l’area verde da un lato (farla diventare un parco e non utilizzarla come discarica) e sviluppare un percorso di viabilità che soddisfi le esigenze di tutti i cittadini (utopia irrangiungibile?). Come dobbiamo procedere? Creare innanzitutto il consenso (o la comunità affettiva) sul fatto che vogliamo il parco riqualificato trovando le adeguate alternative alla viabilità. Ma concretamente come ci arriviamo su questo punto? Cosa mettiamo sul piatto? Io direi noi stessi con le nostre “professionalità” (intelligenza e conoscenza) e le nostre volontà (sentimenti) per spiegare (circuito informativo) a chi ancora non condivide tali elementi (comunità esistente) quale sarebbe il risultato del nostro sforzo (comunità affettiva/spazio in cui vivere meglio). Il compito che ci spetta è cercare di riempire queste “formule”. Dopo aver aperto il laboratorio della discussione è necessario aprire il cantiere del fare.

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