BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 29/01/1999

DESTRUTTURARE E DELEGIFERARE:

allopatie irrimandabili, ma pazienti difficili

Ovvero: come indurre le persone a superare umane paure e ad incamminarsi lungo strade nuove

di Ofelio Liberati

Provando ad aggregare logicamente le varie fasi di progettazione di una nuova struttura organizzativa, o anche di revisione di una entità già esistente, in un primo gruppo possiamo inserire quelle finalizzate alla previsione delle macro attività - produttive, di coordinamento e di controllo - che debbono essere svolte affinché la materia prima venga trasformata in prodotto finito nel più breve tempo possibile e con il minor impiego – o spreco - di risorse. Il tutto, tenendo conto degli aspetti qualitativi, visto che normalmente richiedono accorgimenti assolutamente incompatibili al rispetto dei primi due criteri; non dirò nulla nuovo, né di sorprendente, aggiungendo che a parità di tempo e di risorse dedicate ad uno stesso processo, il privilegiare la qualità vada a scapito della quantità prodotta, e viceversa (in fondo, se così non fosse, probabilmente avrebbe molto meno senso discutere di problematiche organizzative).

Il passo successivo a queste analisi, è il disegno o la revisione delle strutture da dove, per dove e dove i flussi dovranno partire, transitare ed arrivare, e la previsione quantitativo/qualitativa delle risorse, umane e non, che dovranno esservi destinate.

Il terzo ed ultimo step è quello della definizione dei compiti da assegnare a ciascuna delle "figure professionali", ovvero il chi-fa-cosa-come-quando, e dei rapporti fra questi stessi soggetti e fra le varie unità organizzative alle quali appartengono, e cioè il chi-dà-a-chi-cosa-come-quando ed il chi-riceve-da-chi-cosa-come-quando; ovvero, la formalizzazione degli ambiti di responsabilità e di competenza. In una parola, tutto ciò che viene comunemente riassunto nel termine "normativa". Che poi questa venga diramata e tramandata in forma scritta oppure no, fa niente. Quello che infine conta, è che gran parte di coloro che fanno, o hanno fatto, parte d’una qualsiasi organizzazione - sia essa un’azienda, una squadra di calcio o un’orchestra (per non dire una caserma) - sono abituati all’idea che se esistono diverse aree di competenza, allora devono esistere anche diverse tipologie di responsabilità, e se esistono fasce di competenze e di responsabilità, allora non può mancare un corpo normativo che circoscriva le prime e disciplini le seconde. Sotto questo profilo, è sintomatico che nello spiegare i vari significati del lemma, lo Zingarelli descriva la "organizzazione" (aziendale) come una "…impostazione dell’attività aziendale e relativo assetto organizzativo, sulla base di alcuni principi fondamentali e di un complesso di norme, procedure e modalità specifiche."

Dunque, anche dal punto di vista lessicale viene riconosciuto lo stretto rapporto di interdipendenza fra i tre elementi, lasciando così intendere che non è concepibile l’assunzione di responsabilità senza la contemporanea delimitazione di precise aree di competenza e la legittimazione di apposite fonti normative. Almeno, finché si continua a parlare di organizzazione, e a farla, nei termini e nei modi che ho tentato di dire.

In effetti, una serie di nuove esigenze sta oggi imponendo ripensamenti non solo sul mero valore lessicale del vocabolo, ma anche e soprattutto nel modo di operare delle organizzazioni, nelle priorità che queste si danno e nella natura dei problemi che sono chiamate ad affrontare. Le spinte in tal senso sono molte e mutevoli: una fra tutte, divenuta ormai un anancasmo, se non proprio un ideale, la flessibilità, e cioè la capacità di adeguarsi rapidamente agli altrettanto rapidi mutamenti degli scenari nei quali l’organizzazione opera e compete con altre organizzazioni. Un ideale per raggiungere il quale occorre liberare, incoraggiare o risvegliare (o anche solo lasciare in pace) la creatività. La quale, per definizione, se ci sono cose alle quali non può sottostare, sono proprio le imposizioni, i binari, i paletti, i sensi unici, gli obblighi di svoltare: le normative, appunto.

Ora, dire che "flessibile" sia l’esatto contrario di "rigido", e che quest’ultimo sia un aggettivo, una caratteristica assolutamente indispensabile per sostantivi quali "regole", "disposizioni", "leggi", insomma "normative", pena la loro inefficacia (chi non ricorda la celeberrima scritta E’ severamente vietato fumare?), e che infine le stesse normative debbano pertanto essere in una sorta di potenziale contrasto concettuale con l’esigenza dalla quale eravamo partiti, e cioè la flessibilità passando per la creatività, è più parlare per pleonasmi che per sillogismi. E infatti, Francesco Varanini descrive la creatività come "fervore di estro e di genio, perenne distruzione di ciò che è già stato fatto e sperimentato […] capacità di far crescere (o di lasciar crescere) le nuove idee. Da un lato non soffocandole sotto coltri di norme e di regole…" (cfr. All’origine c’è la crescita, rubrica Dietro le parole, il Sole-24 ore del 28/9/98).

Così, partendo da tali presupposti, e leggendo il pezzo d’apertura di questo gruppo di discussione intitolato "I formatori tra necessità (teorica) e negazione (concreta) dell’apprendimento", mi sono posto un paio di domande: la prima, il perché Marco Poggi abbia concluso il suo intervento con un mesto (anche rassegnato?) "E le persone che avrebbero dovuto essere finalmente libere dai lacci delle macchine tayloristiche restano ingabbiate in forme molto rigide che inibiscono qualsiasi capacità trasformativa". La seconda, il perché abbia "invertito" l’aggettivazione, definendo "teorica" la necessità e "concreta" la negazione dell’apprendimento (e non viceversa, come non sarebbe stato illogico attendersi da un titolo che non è stato scritto nel 1970 né, presumo, all’interno di una fabbrica di sigari cubana), il quale "…avviene attraverso rotture, trasgressioni di un ordine dato…".

Evidentemente, la domanda giusta è ben altra, ed è una sola, ed è il perché Poggi ha ragione nel dire ciò che ha detto nel modo in cui l’ha detto (e nonostante il quando ed il dove l’ha detto). Sì, perché in quelle righe non mi pare che abbia espresso opinioni sue, personali, ma ritengo che abbia semplicemente preso atto d’una realtà. Che è quella che è, e che riconosco anch’io, e con la quale bisogna quindi fare i conti.

Il problema è che esistono questioni che a dispetto della loro unanimemente riconosciuta urgenza, non possono essere risolte dall’oggi al domani, perché per loro stessa natura richiedono il maturare di tutta una serie di condizioni ambientali ad esse favorevoli, o almeno non ostili.

Nel nostro caso, affinché le persone possano essere veramente "libere dai lacci ", e riescano quindi a trasformarsi in altrettanti probionti, dando vita ad equipaggi che remino all’unisono verso la stessa direzione, e pronti a cambiarla – subito, tutti ed assieme - allorquando le condizioni delle acque lo dovessero richiedere, occorrono, sì, mirati e convinti interventi di destrutturazione; bisogna altresì, certamente, far circolare le informazioni, che come dice il Varanini è "il punto di incontro tra l’interesse della persona che lavora e l’interesse dell’organizzazione che dà lavoro". E serve pure, indubbiamente, legiferare meno, ma legiferare meglio, per non soffocare la creatività "sotto coltri di norme e di regole". Ma occorre anche, e preliminarmente, che l’organizzazione che dà lavoro sia pronta ad impegnarsi e a misurarsi in iniziative irremeabili e ad accettare quei rischi che le "rotture" e le "trasgressioni" di ordini dati sempre comportano. Rischi tipici dell’utilizzo di armi ancipiti, e perciò ineliminabili. E quindi potenzialmente algogeni. Un lavoratore, un dipendente, un uomo che sa, ed il cui raggio d’azione venga improvvisamente svincolato da normative che pretendono di regolamentare e di prevedere tutto, imprevisti compresi, ed al quale venga anche chiesto di mettere sulla scrivania la propria creatività e le proprie idee, oltre ai propri gomiti, tende a comportarsi molto, molto diversamente da come si comportava quando aveva le mani – e la testa – legate. Che poi è proprio l’obiettivo che si dovrebbe raggiungere. Tuttavia, togliere questi legacci per talune organizzazioni equivale a levare la sicura ad una bomba, o a svegliare il can che dorme: significa mettersi in discussione. E non tutte le organizzazioni sono pronte a farlo, perché non tutte sono abbastanza mature per poterlo fare. O anche, semplicemente, per riuscire a comprendere, o ad ammettere, che è ormai necessario farlo.

Ritengo siano questi i motivi per i quali il Poggi, continuando a fare i conti con quella stessa realtà, sostenga che i vertici aziendali "…mostrano l’ansiogena necessità di governare le transizioni con modalità di controllo estremamente rigide": perché è l’atteggiamento tipico di chi si vede costretto a mettersi in discussione, a svegliare un cane del quale non si fida, e che ne farebbe volentieri a meno. Insomma, di chi, costretto dalle circostanze, e cioè dagli avversari in pista, a pigiare sul pedale dell’acceleratore, finisce col pigiare anche e contemporaneamente sul pedale del freno, affinché la macchina non acquisti troppa velocità e, lui, non ne perda il controllo. Alla propria scuderia, ai propri tifosi e (chissà?) alla propria coscienza, potrà sempre dire, senza mentire (troppo), che il piede dall’acceleratore lui non lo aveva mai tolto.

Limitarsi a dire questo, però, significherebbe affrontare solo una parte del problema, trascurandone un’altra di non meno momento. Anzi. Ed anche in questo caso partirò da una affermazione (o constatazione) del Poggi, il quale sostiene che le persone che vengono passivamente "guidate nelle nuove strutture aziendali, esibiscono una vertiginosa paura del vuoto e chiedono urgentemente il conforto di ruoli dai confini precisi".

Non credo ci sia bisogno di tirare in ballo la psicologia, né di ergersi accusando chicchessia di neofobia o misoneismo: sono atteggiamenti che fanno parte della natura umana, tanto da essere stati immortalati nel celebre detto "chi lascia la strada vecchia per la nuova…". Il problema è, quindi, come indurre queste persone a superare tali umane paure per le strade nuove, tenendo conto del fatto che la maggior parte delle organizzazioni all’interno delle quali sono cresciute, appartengono a quella realtà descritta dal Poggi. Il che, se non vuol dire che tali persone siano tutte capitolarde, implica però che non possono certo trasformarsi in altrettanti faustiani così, per decreto. In realtà, però, il problema è duplice, e quindi doppiamente complicato, poiché non si tratta solamente di vincere delle paure, ma anche di rinunziare contemporaneamente a quella tranquilla sicurezza, alla certezza del domani e del dopodomani, che solamente il solito tran-tran sembra in grado di assicurare, nonostante - e ciò potrà sembrare paradossale, o almeno un diallelo, e probabilmente lo sarà pure, ma tant’è –, il medesimo tran-tran spinga ad auspicare ed attendere quegli stessi cambiamenti che temiamo, inducendoci così ad accucciarci ancor di più all’interno nel nostro personale stambugio.

Nel suo "Il deserto dei Tartari", il Buzzati scrisse con ben altra penna di questo stesso fenomeno, di questi stessi sentimenti, raccontando l’antieroica storia del tenente Giovanni Drogo. Questi, partito dalla casa materna giovane, ed assai meno felicemente e spavaldamente di quanto si fosse aspettato lui stesso sino al giorno prima, sprecò la sua vita nell’isolamento e nella monotona, ossessiva ripetizione di pochi, codificati gesti, sempre quelli per decenni, assolutamente incapace di rinunziare all’uterina protezione offertagli dagli screpolati e salnitrosi bastioni d’una vecchia, dimenticata ed inutile fortezza appiccata sulle montagne del nord. Un aspetto della vicenda che mi consente di ritornare al tema in oggetto, o - per meglio dire – di inserire i prodromi delle conclusioni alle quali giungerò, è che coloro i quali avrebbero potuto e dovuto aiutarlo a darsi una smossa per valutare serenamente l’opportunità di andarsene prima che fosse troppo tardi (poiché, volendolo, avrebbe ben potuto farlo), a cominciare dai suoi superiori, lo hanno fatto, sì, ma solo con spente e scontate parole di circostanza, comportandosi nei fatti con lo stesso, timoroso e passivo, abbandono che lo ha accompagnato fino alla tomba, secondo ed ultimo buen retiro della sua inutile esistenza.

E allora diciamolo, che i soggetti passivi dei processi di destrutturazione e di delegiferazione, o comunque di reengineering, dovrebbero parteciparvi invece attivamente, sostenendoli con coerenti cambi di mentalità e di valori ed accantonando ubbie, obsoleti riferimenti, logoranti lotte intestine e partigianerie e campanilismi e invidie e gelosie varie, e soprattutto dimostrando di comprendere che l’interesse del singolo non passa sopra l’interesse collettivo, ma passa per l’interesse collettivo. Diciamolo, sì, ma affrettandoci ad aggiungere che se non si vuole che un processo di deregulation si esaurisca nella de-escalation d’una transeunte volontà solo a parole tale, e venga scambiato per ciò che altrimenti sarebbe, e cioè una ghiotta opportunità per arrembanti xenobionti, che sono sempre presenti e sempre pronti a muovere in qualunque organizzazione, i comandanti devono prendere in mano la tromba e suonare loro stessi la carica in modo cristallino e assordante e non smettere di farlo finché l’ultima nota non abbia raggiunto l’ultimo reparto nell’ultima trincea, poiché al contrario delle ritirate, le avanzate non nascono mai motuproprio, né per caso, ma vanno avviate, vanno favorite, vanno innescate dai vertici aziendali. I quali, oltre a circondarsi di esperti di terotecnologia, oltre a far circolare informazioni (vere), oltre a lasciare il pensiero libero d’essere e di sconfinare, ed oltre a tollerare, se non proprio consentire, rotture e trasgressioni, insomma oltre a preparare il terreno arandolo e concimandolo e innaffiandolo e – certo, anche questo – estirpando l’erba cattiva (che sarà pure vero che non muore mai, ma certamente può essere messa in condizione di non nuocere ai margini del maggese), dovrebbero prima di tutto liberarsi di ogni - se così posso definirlo - "timore oclocratico" (ma anche di ogni "pregiudizio di mésalliance", se vogliamo dirla proprio tutta) e dar prova di quel coraggio, di quella determinazione e di quella tenace, ostinata lungimiranza, che (oggi) sono richiesti (anche) ai livelli sottostanti: dovrebbero cominciare col dare l’esempio al tenente Drogo.

Ciò non vuol dire che poi ognuno debba essere lasciato libero di suonare (o di non suonare) ciò che vuole: un’orchestra di solisti non esiste né potrebbe. E d’altra parte, per mettere in piedi una jam session che non sia solo mera (ed inascoltabile) improvvisazione, occorre un concorso di condizioni assolutamente formidabile: armonia d’intendimenti e affiatamento fra individui comunque diversi e capacità di prevedere quando, come e di quanto il batterista imprimerà un nuovo ritmo alla sonata o quando il tastierista cederà l’onere dell’assolo al chitarrista senza neanche avergli fatto un cenno d’intesa. Si tratta di condizioni che è difficile, se non proprio impossibile, riscontrare in gruppi che non si siano formati per libera scelta di soggetti che condividono una filosofia, una scelta di vita, un ideale. O un amore per. E le aziende, normalmente, non rientrano in questa categoria, essendo costituite da persone, perlomeno i dipendenti, che si ritrovano assieme per caso (e costretti a convivere per decine di anni, volenti o nolenti) e certamente per altre ragioni: del direttore d’orchestra, non potranno mai farne a meno.

E tuttavia, destrutturare controllando rigidamente è più che una contraddizione in termini: è un’epanortosi. Insomma, una perdita di tempo.

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