BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 15/09/1999

NUOVE, VECCHIE VIE

di Ofelio Liberati

E dunque, concludendo, pochi ma buoni. Che poi sarebbero i sopravvissuti alle grinfie di quel mostro, a quella sorta di incrocio fra un Big One e uno tsunami previsto da Davide Storni, e non solo da lui, che si scatenerà durante il prossimo triennio per banche e assicurazioni.

"Ci sono altre vie praticabili?"

"L’alternativa della seconda via indicata è praticabile e a che condizioni ?"

"A voi la parola", dice Storni.

A noi la parola: diceva qualcun altro, un certo Cary, che "quando non è necessario cambiare, è necessario non cambiare". Dal che si può dedurre – aggiornando l’aforisma alla frenetica data odierna - che quando è necessario cambiare, è necessario cambiare. Che poi questo "cambiare" possa diventare – e di quanto – sinonimo di "ristrutturare" (leggasi "licenziare") o di "riorganizzare" (e cioè rimescolare le carte o inventare l’undici di coppe del frassichiano Sani Gesualdi), vedrò di arrivarci fra poco. L’importante, per ora, giochi di parole a parte, e partendo dal principio che è buona norma cominciare dall’inizio, è che l’inversione dell’apoftegma dovrebbe porre una serie di problemi, il primo dei quali – volendo appunto partire dall’inizio - mi pare non possa che essere quello di stabilire:

quando è necessario cambiare?,

poiché è proprio dal "quando" che scaturisce il "come cambiare", con tutte le relative conseguenze sul piano politico, economico e sociale che tale "come", inevitabilmente, comporta.

Stando alle mie esperienze (e qui stavo per dire "impressioni"; sennonché, qualche esperienza in materia ce l’ho, purtroppo), a meno che non si disponga di capitali da elargire per ragioni più o meno oscure a una delle tante società di consulenza, solitamente diventa necessario cambiare in due – oggidì tutt’altro che rare – occasioni: quando si è in troppi, oppure quando ci si accorge di lavorare male, intendendo con ciò tutte le casistiche possibili e immaginabili di "mali": e dunque scarsa produttività, scarsa qualità del prodotto, remunerazione del capitale, contenzioso con il personale, e non escludendo dal novero la malauguratissima eventualità che pur lavorando straordinariamente bene, vi sia qualche concorrente che lavora meglio. Eccetera.

Ora, mi pare di poter dire che nel primo caso, quando si è in troppi, ci sia ben poco da fare: alla "via americana", come la definisce Storni, non vedo alternative percorribili, essendo in effetti tale fattispecie la causa di quelle "profonde ristrutturazioni del mercato assicurativo e del credito, fusioni, riduzioni di organico " e di altri analoghi accidenti e nemesi varie di cui ci parla lo stesso Storni nel suo pezzo d’apertura. Dimodoché, capita a fagiolo la recentissima notizia del matrimonio fra S. Paolo e INA, una banca e un’assicurazione, guardacaso: sarà interessante (e preoccupante) verificare se i due coniugi intenderanno dare alla luce qualche pargolo, oppure se decideranno di tenersi quelli che già hanno, oppure ancora se preferiranno abbandonarne qualcuno per strada. Io, un certo sospettuccio lo nutro, ma chissà?

(Forse, qui, prima di proseguire, è il caso di chiarire che chi scrive NON è un imprenditore né siede in alcun consiglio di amministrazione, ma è un lavoratore dipendente, e cioè uno di quei "soggetti passivi dei processi di destrutturazione" che abbiamo incontrato nell’altro gruppo di discussione proposto da Marco Poggi, ed al quale ho partecipato con un intervento intitolato "Destrutturare e delegiferare: allopatie irrimandabili, ma pazienti difficili" del quale queste righe possono essere tanto la premessa quanto la conclusione).

Se, invece, l’esigenza di cambiamento viene individuata nella necessità di migliorare il livello di produttività o il livello qualitativo del prodotto/servizio – e quindi di lavorare meglio -, allora la susseguente revisione organizzativa potrebbe anche concludersi con una generale e più o meno radicale messa a punto delle mansioni, degli ambiti di competenza e di responsabilità di ognuno, senza incidere sul numero globale delle risorse impiegate nel ciclo produttivo. In realtà ciò non sempre avviene, poiché non di rado, durante o al termine di un processo riorganizzativo "serio" – e cioè fortemente voluto e sostenuto da tutti –, ci si accorge che gli obiettivi di qualità e/o di quantità che ci si è posti possono essere raggiunti anche tagliando qualche ramoscello secco qua e là, ché non c’è albero – giovane o vecchio che sia - che non ne abbia almeno uno. In ogni caso, per quanto riguarda banche e assicurazioni, questi tipi di interventi vengono oggi realizzati soprattutto attraverso quelle ristrutturazioni dell’information technology che, dice Storni, "….comporteranno profonde modifiche nella qualità e nella quantità delle persone…." ed i cui effetti si sommeranno a quelli del primo caso, "….creando una criticità organizzativa di ampiezza mai raggiunta…", come conclude, mi pare a ragione, lo stesso Storni.

C’è un passaggio, invece, sul quale sono in disaccordo con lui, quantunque quel "forse", che ha prudenzialmente messo fra parentesi, la dica lunga circa la percorribilità di una "via alternativa" passante per una "progressiva evoluzione nelle competenze delle persone…". Insomma, Storni, pur non essendo io un maestro d’anatreptica, mi pare di poter comunque invocare il classico "delle due l’una": se è vero che "…parallelamente serviranno meno persone…", e che conseguentemente rimarranno "…poche persone evolute…" – e io ritengo che queste tue affermazioni vere lo siano – non mi pare che l’ipotesi della "progressiva evoluzione" possa rimanere in piedi sino al termine dei rounds, poiché se tutti si evolvessero, magari anche in tempi e modi diversi, comunque tutti – e perciò troppi – rimarrebbero. E d’altra parte – l’ho già accennato - non v’è dubbio che mettendo le mani su un processo produttivo con obiettivi anche solamente di qualità, eliminando giri viziosi o tortuosi, tempi morti, controlli ossessivi e fini a sé stessi, e automatizzando al contempo attività – produttive e di controllo - prima svolte manualmente (e ovviamente avendo preventivamente buttato nel cestino la lista degli intoccabili), una volta rimontato il motore non è improbabile che qualche bulloncino o qualche misera coppiglia ci rimanga in mano, se non addirittura qualche cilindro con tanto di pistoni e bielle allegate; è nella logica delle cose. Perlomeno, lo è nella misura in cui il suddetto motore continuerà a girare e a spingere come prima, a dispetto degli espianti a cui è stato sottoposto.

Con ciò non voglio dire che tale "progressiva evoluzione" non debba esserci o che non ci sarà o che comunque non servirebbe a niente; al contrario, la ritengo assolutamente logica, consequenziale, inevitabile. Persino auspicabile. Quello che vorrei piuttosto dire – e qui rispondo alla seconda domanda - è che non mi pare possibile che tale evoluzione possa – da sola – garantire la salvaguardia dei posti di lavoro. Che in periodi di "ristrutturazioni", comunque intese e realizzate, sono a rischio per definizione.

E tuttavia, nonostante quel parentetico "forse", lo Storni conclude l’adynaton dicendo di credere che tale darwiniana via alternativa sia la sola percorribile, non tanto perché possa esserlo di per sé, per le proprie potenzialità, come m’è parso di capire, quanto piuttosto perché il secondario non sarebbe in grado di assorbire le eccedenze ributtate sul mercato del lavoro dal terziario.

Continuo a pensarla diversamente: a mio avviso – e qui rispondo alla prima domanda -, l’unica vera via alternativa – per le aziende, ma anche per chi ci lavora (e viceversa) – passa attraverso la creatività, e cioè per lo "sfruttamento" di quelle potenzialità troppo spesso messe in condizione di non potersi esprimere da modus operandi o vivendi, da regole, scritte o di fatto ma comunque rigide, che nessuno ha il coraggio di cambiare o di eliminare, forti (forti…) del fatto che s’è sempre lavorato così e siamo sempre sopravvissuti egregiamente e pertanto chi ce lo fa fare? Ecco perché poc’anzi dicevo che queste righe potrebbero essere sia la premessa sia la conclusione dell’altro mio intervento nel quale ho affrontato proprio questi aspetti: se abbiamo in casa qualcuno capace d’inventare quell’undici di coppe – sia esso un Tamagochi o un Viagra - che ci permetterà di fare scopa (appunto), lasciando gli avversari a balbettare con le carte in mano, ebbene questo qualcuno dev’essere messo in condizione di esprimersi, di giocare le sue carte. Ma naturalmente questo dipende dalla volontà dei vertici aziendali, che possono o non possono accettare i rischi d’una libera circolazione di idee e pensieri – e quindi di iniziative - in azienda. Vertici che possono o non possono condividere quel concetto, tanto caro a Francesco Varanini, per cui il punto d’incontro fra i due opposti (opposti?) interessi di chi dà lavoro e di chi lavora, passa per la comunicazione, per l’esplicitazione. Cioè, se posso permettermi di riassumere il tuo pensiero in una parola, Francesco, per la verità. Che però, solo chi ha la coscienza molto a posto può permettersi di comunicare. Di esplicitare, appunto.

Ed ecco, allora, come e perché a mio avviso cominciano ad avere un senso proposte strane, fantapolitiche e fantascientifiche, come quelle avanzate da Francesco Zanotti quando dice "proviamo ad immaginare…", e che a tutta prima (quanti NON l’hanno pensato?) potrebbero apparire delle vere e proprie fughe in avanti, se non addirittura il libro dei sogni. Ma c’è forse qualcosa di più libero, di più spontaneo, di più "irregolamentabile", insomma di più creativo di un sogno? C’è forse qualche altra cosa che riusciamo a fare veramente, totalmente e assolutamente liberi da norme, preconcetti, tabù, inibizioni, timori, ansie e angosce (a parte "quella", anzi "quello", naturalmente. Quantunque…)?

Altrimenti - vediamo un po’ - quali altre vie alternative potrebbero esserci?

Ritorno un attimo a Davide Storni quando esclude la possibilità di migrazioni da un settore all’altro, non essendo quello industriale in grado di prendersi sulle spalle il peso di quanti verranno congedati dal settore dei servizi. Verissimo, purtroppo. Talmente vero e talmente purtroppo che sono rimasto colpito da una cosa che Storni NON ha detto, talché sarei veramente curioso di sapere se non l’ha detta perché se l’è dimenticata, perché non ci ha proprio pensato – e ciò sarebbe molto significativo – oppure se non l’ha detta scientemente, avendola presa in seria considerazione e poi esclusa – e questo pure molto significativo sarebbe. Così, obnubilato dal dubbio, provo a buttare un sasso - anzi un bel macigno, crepi l’avarizia - nello stagno di questo gruppo di discussione: ma non c’era, una volta, anche un settore primario? O lo diamo per morto e sepolto e "buono" (si fa per dire, naturalmente) solo per extracomunitari o per tipi un po’ snob o per qualche ex figlio dei fiori ora sconsolatamente orfano degli stessi?

Mi spiego: con questo non sto certo dicendo che la terra e i suoi derivati ci salveranno; mi mancano i numeri – non solo statistici - per poter fare un’asserzione, o meglio una previsione del genere. Sto invece limitandomi a dire che in mancanza dell’undici di coppe, e più in generale di un settore "quartiario" o "quintario" (che io, non chiamandomi Asimov, mi guarderò bene dall’ipotizzare), ho la vaga impressione che coloro i quali non riusciranno a entrare in quel ristretto numero di "persone evolute per conoscenza del business e dello strumento informatico" dovranno - anche e soprattutto loro – evolversi, e pure di corsa, (anche) verso nuove forme di vecchie professionalità alle quali nessuno oggi pensa più. Lo scenario in cui per fare un bonifico non serve più uno scrivano, un coordinatore e un controllore, ma basta digitare una dozzina di tasti, lo conosciamo già tutti, così come tutti conosciamo il fatto che quel cangiante cafarnao del sistema bancario nostrano lamenta, e non da oggi, "un certo numero" di esuberi. Ma in uno scenario nel quale per ordinare un bonifico e (e dico "E", non "O") una polizza RCA il cliente non dovrà manco recarsi presso due diversi e distanti sportelli e fare altrettante file di fronte ad altrettanti addetti comprensibilmente tutt’altro che entusiasti e convinti del fatto che il cliente ha sempre ragione, ma gli basterà digitare - lui stesso, il cliente - la medesima serqua di pulsanti comodamente seduto a casa sua, se non, ancora più semplicemente e piacevolmente, civettando amabilmente con una gentile e presumibilmente carina operatrice al telefono (oltretutto, manco a dirlo, rigorosamente "verde"); insomma: in uno scenario nel quale la fantasia fa difetto e il sistema più efficace contro la disoccupazione pare essere il controllo (eufemismo per "riduzione", a sua volta circonlocuzione per "azzeramento") delle nascite, è probabile che la schiera degli esclusi – o comunque una buona parte di essi - dovrà rivedere i propri programmi di "riconversione" mettendoci molto di ciò che abbiamo detto che manca. Mettendoci, cioè, molta più fantasia di quanto non sospetti o creda attualmente.

Fantasia, dicevo. Cioè – rieccola, apodittica diallage – Creatività: il solo rimedio, l’unica vera via alternativa che riesco a intravvedere per quanti, uomini e aziende, non siano disposti a soccombere senza aver prima tentato di, che non tollerino di attendere e subire passivamente il corso degli eventi. Ossia, per quanti credono che di scolpito nella pietra ci sia solo una cosa, antichissima.

Alla quale, peraltro, manco tutti credono.

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