BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 28/04/2000

Le vie praticabili e la via desiderata

Di Davide Mongillo

Sono un bancario da quasi tredici anni, tutti trascorsi nell’area Personale di un’azienda di credito a carattere regionale del meridione. In questi anni di servizio ho assistito a quasi tutti gli eventi (in parte citati da Davide Storni) che hanno traumatizzato il nostro settore a partire dagli anni ’90 e che lo trasformeranno nei prossimi: ristrutturazioni, fusioni per unione, fusioni per incorporazione, meccanizzazioni, migrazioni informatiche, introduzione di tecnologie, orientamento al cliente, orientamento al mercato, budget di filiale, conto economico di prodotto e di cliente, MBO, internet banking e tanti altri. Molti di questi avvenimenti hanno riguardato la mia azienda e quelli che sono mancati all’appello sono stati vissuti da altre aziende di credito locali, la maggior parte delle quali (una decina) ora non esistono più.

E’ innegabile che tutti questi eventi, cui chissà quanti altri se ne aggiungeranno nel prossimo futuro, stanno cambiando progressivamente il modo di fare banca e quindi hanno avuto e avranno ricadute (per utilizzare un termine caro al sindacato) anche sui lavoratori bancari. Il mio è quindi un interesse duplice: professionale perché sono un operatore del settore e ritengo che sia compito di chi fa il mio mestiere individuare le vie praticabili valutandone presupposti ed effetti sulla risorsa più importante di qualsiasi tipo di azienda; l’interesse è anche personale in quanto stiamo parlando del mio posto di lavoro.

Concordo con chi ha preso la parola prima di me quando afferma che esiste una via praticabile che passa attraverso la progettazione della crescita delle competenze con largo anticipo. Ho notato personalmente che è vero che i primi a resistere al cambiamento sono coloro che dovrebbero promuoverlo e orientarlo (ed in questo gruppo comprendo sia il Vertice Strategico sia il Middle Management) così come, pur nella consapevolezza della necessità del cambiamento molti aspettano che siano prima gli altri a fare il primo passo. Sono anche d’accordo con chi ritiene che la banca debba diventare agente di sviluppo di imprese-comunità. A ben vedere la mia azienda e le tante altre piccole aziende bancarie hanno avuto successo anche perché hanno svolto efficacemente questo ruolo in passato e tornare a ricoprirlo potrà permettere loro di continuare a godere della propria autonomia e indipendenza.

Esiste per ognuno degli interessati a questa discussione una via desiderata: ci sarà chi auspica di trovare negli interstizi lasciati liberi da un referendum o da un decreto distratto lo spazio per liberarsi velocemente e senza spesa della zavorra che opprime le imprese; sono molti quelli che sperano di realizzare il sogno/utopia dell’azienda democratica dove tutti sono chiamati a decidere le sorti dell’azienda; c’è chi, tutto sommato, la via già la percorre e non ha intenzione di cambiarla perché comoda e amica.

Personalmente credo siano tre i fattori che impediscono o rendono poco agevole la costruzione della nuova strada: l’alto costo del personale bancario; la scarsa attenzione alla pianificazione della crescita professionale delle risorse umane e la scarsa flessibilità di utilizzo di intere generazioni di dipendenti bancari.

L’accordo di rinnovo del CCNL dei bancari siglato nel luglio del 1999 permetterà solo nei prossimi anni di porre rimedio al primo male caratterizzato da salari di ingresso molto elevati, da progressioni professionali e di carriere ingessate, da retribuzioni medie sproporzionate rispetto al valore reale del contributo fornito e al ruolo ricoperto. La rigida struttura dei costi del personale impedisce tra l’altro l’adozione di politiche retributive differenziate tra cui il ricorso massiccio alla retribuzione variabile che, intendiamoci, non è la panacea di tutti i mali ma una delle leve a disposizione per la gestione delle risorse umane e per contemperare gli interessi aziendali con quelli individuali.

Il nuovo contratto interviene anche sul secondo e sul terzo dei mali citati (pianificazione risorse e flessibilità di utilizzo) nelle sezioni dedicate alla formazione e alle progressioni professionali. In merito a quest’ultima, giustamente, nel contratto sono state inserite solo delle enunciazioni di principio non potendoci essere assolutamente spazi negoziali in tale campo. Maggiormente interessante è il capitolo dedicato alla formazione. Pur nella nebbia causata da molteplici e controverse interpretazioni fornite dall’associazione datoriale e dalle organizzazioni sindacali mi sembra di vedere mettere in discussione molti dogmi: la partecipazione alle iniziative formative non è più volontaria ma obbligatoria, la formazione si svolgerà (in parte) al di fuori dell’orario di lavoro, le aziende hanno l’obbligo di predisporre pacchetti formativi personalizzati.

La mia personale soddisfazione per queste conquiste (aziendali? – sindacali?) è stata immensa. Riesco finalmente a vedere applicato ciò che ho sentito e letto e che non perdo occasione di ripetere in incontri, relazioni e nelle aule: le aziende devono preoccuparsi della manutenzione (formazione) delle risorse umane così come lo fanno per gli impianti, gli immobili, i software ecc. Uno degli effetti del nuovo contratto sarà quello di costringere le aziende a portare in aula tutti, anche i lavoratori reputati irrecuperabili. Ed è giusto che sia così, anzi proprio sulla cosiddetta zavorra dovrebbero esser fatti grandi investimenti al fine di recuperali al ciclo produttivo. Perché gli esuberi sono stati causati anche dall’incapacità e dalla non volontà delle aziende di intervenire (costoso, faticoso, tempo sprecato) e dalla nemmeno tanto segreta speranza di un economico e provvidenziale aiuto pubblico (cassa integrazione, liste di mobilità, libertà di licenziamento, ecc.). Va anche detto che non manca il concorso di colpa di lavoratori e organizzazioni sindacali: i primi per aver trascurato di mantenere integra la propria capacità di fornire contributi utili all’azienda, i secondi per non aver vigilato abbastanza (e le occasioni non sono mancate). Per questo ben vengano confronti più serrati tra aziende e sindacati in fase di progettazione formativa, benvenuti i corsi obbligatori e al di fuori dell’orario di lavoro. Il primo dei quali dovrebbe insegnare a tutti che la formazione è il momento più duro e difficoltoso del lavoro e va pertanto affrontata con serietà.

Benvenute poi iniziative come quelle di CariVerona che, con l’aiuto di consulenti esterni, ha messo a punto un modello di sviluppo delle competenze distintive che non è rimasto nel chiuso delle scrivanie degli esperti del personale o dell’Alta Direzione ma è diventato addirittura un libro (AA.VV. - Competenze per Competere a cura di Grasso-Montagnese, edito da Franco Angeli). Nell’introduzione del volume Paolo Biasi, Presidente di CariVerona, afferma che "… il sistema bancario ha bisogno di percorsi formativi capaci di sostenerlo in questa epocale trasformazione professionale". Ovvero siamo consapevoli che è anche sul campo del costante adeguamento delle competenze del personale che si fondano le possibilità di sviluppo dell’azienda e pertanto ci impegniamo formalmente e pubblicamente in tal senso. Mi piacerebbe leggere, magari tra i contributi di questo gruppo di discussione, quali sono stati i risultati raggiunti finora.

Veniamo infine alle vie praticabili. Quella americana ha il vantaggio di depurare le aziende di notevoli costi rigidi improduttivi. Sveglierebbe molti lavoratori dal sonno profondo in cui sono precipitati una volta agguantato il posto sicuro. Quanti infatti manterrebbero inalterati i propri comportamenti e i propri livelli di performance se le aziende fossero solo un po’ più libere nell’adottare provvedimenti espulsivi? Si darebbe poi spazio a tanti disoccupati che restano ai margini del mercato del lavoro perché i posti a disposizione sono occupati anche da personale obsoleto. Esiste però un aspetto negativo che azzera qualsiasi vantaggio: la riconsegna alle aziende di un potere che non hanno mostrato di meritare e che non meriteranno sin quando non avranno investito in manutenzione delle professionalità dei propri lavoratori in misura non dico pari ma almeno rapportabile agli investimenti in impianti, strumenti e tecnologie.

C’è la seconda via, quella della pianificazione delle competenze dei lavoratori. Sono un addetto ai lavori e quindi ci credo, anzi, ci spero in questa via. E’, mi rendo conto, una via difficoltosa perché lunga e costosa e le aziende di credito non possono permettersi di aspettare e di spendere. Ma devono impegnarsi così come devono farlo i lavoratori. Tutta la questione sta forse nell’intendersi a chi spetta l’onere dell’adeguamento delle competenze dei lavoratori. Alle aziende? Ai lavoratori? Alla comunità? Per me spetta a tutti. Le aziende devono occuparsene perché decidono i propri piani di sviluppo e dovrebbero pertanto conoscere quantità e qualità delle risorse necessarie per il raggiungere gli obiettivi prefissati. Non dimentichiamo che le competenze dei lavoratori costituiscono spesso un vantaggio competitivo per le aziende e quindi sta a loro mantenerle e svilupparle. Spetta ai lavoratori perché la propria ricchezza sta nelle competenze possedute. Spetta alla comunità (nazionale, comunitaria, internazionale) perché ne ha bisogno per sostenere costanti ritmi di crescita in termine di progresso (anche civile) e di benessere.

Questa è per me la via praticabile e non solo per le aziende bancarie. Il sentiero è in parte già tracciato. Gli strumenti di pianificazione sono disponibili (dovrei fare altrimenti un altro mestiere) così come ci sono i mezzi finanziari. Esistono infatti mezzi delle imprese, dei lavoratori, della società non ultimi quelli comunitari (di importo non trascurabile) che spesso per incapacità non siamo in grado di utilizzare. Bisogna provarci, volerlo e convincersi. Per questo penso che le ricadute di tanti eventi sconvolgenti per il mondo bancario non debbano riguardare solo i bancari ma anche le organizzazioni sindacali e perché no, i banchieri.

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