BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 21/10/2002

SOCIETA' DELL'INFORMAZIONE, RETI DI CONOSCENZE, AZIONI FORMATIVE

di Roberto Fini 1

Preliminarmente stabiliamo alcuni punti fermi per evitare fraintendimenti. Primo punto: i cambiamenti che stiamo vivendo possono andarci bene o male, piacerci o meno, ma sono da considerarsi in ogni caso cambiamenti imposti. Provengono da “un esterno” e noi ne siamo coinvolti sia che ci piaccia o meno.

In secondo luogo: la cifra della nostra contemporaneità è rappresentata (e lo sarà sempre di più) dalla prevalenza dell’economia della conoscenza. Il valore è creato su processi basati sui bit e sempre meno sugli atomi.

Tutto questo è il risultato della rottura di paradigmi, della rivoluzione introdotta dall’informatica e telematica: i precedenti paradigmi scientifici sono resi obsoleti, superati e sostituiti – violentemente, forzatamente – dai nuovi.

È utile il concetto di rivoluzione scientifica così come ce lo ha trasmesso Kuhn. Utile perché ci permette di fare qualche altra osservazione. Prendete il caso di una fra le più “classiche” rivoluzioni scientifiche, quella copernicana. Credete che essa abbia avuto effetti soltanto sul modo di vedere la terra in relazione al sole e agli altri pianeti, cioè sulla teoria? No, naturalmente. Essa ha prodotto trasformazioni anche sulle tecniche/tecnologie di osservazione e sul modo di elaborare/trasmettere i nuovi paradigmi.

Vogliamo dire con questo che se di rivoluzione si può (si deve) parlare, allora un sistema formativo che arranca dietro i processi sociali, che ne maledice la velocità e l’intensità solo perché non riesce a star loro dietro, è destinato ad una rapida (e quanto mai benefica, aggiungiamo con qualche cattiveria) obsolescenza.

Dagli atomi ai bit, si ripete oggi con sempre maggior frequenza riecheggiando una frase di Negroponte: ma se questo è il processo cui stiamo assistendo, allora occorre indagare – in fretta (giacché questi processi di trasformazione sono rapidi quanto mai) e bene (giacché ne va dell’efficacia complessiva di un’azione formativa) – su quali siano i soggetti, i processi, i contesti che caratterizzano l’economia immateriale. E a questo punto indagare sulle modalità necessarie per trasmettere (una volta individuate quali siano) le competenze necessarie per vivere bene in questo nuovo mondo.

“Il senso della lima”: così venivano sintetizzate le competenze richieste all’operaio pre – fordista alla fine dell’ottocento. Solo pochi anni dopo, con il taylorismo, la rivoluzione dei “tempi e metodi”, Ford e il suo modello T prodotto a milioni di esemplari, possedere il senso della lima divenne in poco tempo una competenza obsoleta: ben altro era necessario e da una generazione ad un’altra l’operaio – artigiano scompare per lasciare il posto all’operaio – massa.

Quali sono le competenze necessarie oggi? Domanda difficile. Anche perché non si tratta di fornire lavoratori alle imprese in grado di adeguarsi alle necessità di queste. Ben altro è il compito che oggi è indispensabile affidare ai processi formativi.

Perché disporre o meno delle competenze necessarie ed adeguate nell’economia della conoscenza significa possedere o meno una cittadinanza sociale. Cosa vuol dire essere cittadini oggi? Non certo soltanto disporre della capacità di voto, veder garantiti i propri diritti fondamentali, ecc. Vuol dire essere (messi) in grado di utilizzare tutta la ricchezza e le potenzialità del mondo in cui viviamo.

A. Sen lo ha compreso da tempo: la qualità dell’esistenza che viviamo non è una questione di opulenza materiale, di beni che possediamo, ma è costituita da ben altro:

Ho definito i nostri “funzionamenti” le diverse condizioni di vita che siamo in grado o meno di realizzare; correlativamente ho definito come “capacità” la nostra abilità di realizzarle. Il punto principale è che il tenore di vita è davvero un problema di funzionamenti e di capacità e non direttamente una questione di opulenza, merci o utilità.

            Se è così, se Sen ha ragione, allora il problema cruciale diventa fornire queste capacità molto più di quanto lo sia fornire merci, o anche diritti nel senso tradizionale del termine: chi non riceve dalla società e dal suo sistema formativo le capacità necessarie per dare significato e pregnanza al suo essere cittadino, è defraudato al pari di colui che non dispone della libertà di parola o di voto.

            C’è spesso molta (troppa) enfasi quando si discute delle trasformazioni connesse alla rivoluzione informatica e telematica, ed è probabilmente inevitabile che su simili temi gli osservatori si dividano nelle ormai abituali categorie degli “apocalittici” e degli “integrati”: non c’è da stupirsene, forse neanche da rammaricarsene.

            Ora, stabilire chi abbia ragione, se gli apocalittici – che intravedono da qui a poco un mondo popolato di androidi alla blade runner – o gli integrati – per i quali il futuro sarà caratterizzato da un’estensione senza precedenti delle capacità umane – è un esercizio piuttosto ozioso e neanche granché interessante. È però ragionevolmente certo che stiano mutando sotto i nostri occhi il modo con il quale ciascuno di noi si relaziona agli altri, alla conoscenza e, forse, anche a sé stesso.

            Vogliamo essere chiari su questo punto: non sappiamo se possa trattarsi di una modificazione antropologica nel senso forte del termine – c’è chi lo afferma, per esempio Leirman, secondo il quale l’attuale fase è caratterizzata dal passaggio dalle capacità che siamo abituati a catalogare come tipiche dell’homo sapiens a quelle dell’homo dialogalis la cui essenza è l’atto comunicativo – certamente però il modo con il quale oggi vediamo la realtà è diverso da quello di ieri per quanto riguarda i processi mentali che mettiamo in moto, le relazioni sociali che costruiamo, gli stati emotivi che ci agitano, ecc.

            Abbiamo citato Leirman perché ci pare un buon esempio di schematizzazione dei modelli culturali ed educativi; certamente si tratta di una semplificazione: è probabile, per esempio, che i modelli dall’autore presentati come distinti e nettamente separati nei caratteri, in realtà sfumino uno nell’altro. Ma ci sembra comunque una modellizzazione utile.

            Utile perché se la tendenza – non importa quanto auspicabile – è quella che porta al modello comunicativo, allora è necessario cominciare ad approntare gli strumenti culturali per evitare di trovarci, ancora una volta, spiazzati e in ritardo.

            La nostra ipotesi è che, tra i tanti cambiamenti che caratterizzano la fase che stiamo attraversando, stia modificandosi anche il modo di apprendere (=comprendere, afferrare con la mente). Perché – forse per la prima volta, ma sicuramente con un’intensità senza precedenti – il processo di apprendimento appare sempre più slegato dalla nozione di imparare (=acquisire una serie di conoscenze mediante lo studio, l’esercizio, l’osservazione).

            Semplicemente, il tradizionale legame tra apprendere ed imparare si sta incrinando: è ancora un processo non del tutto compiuto, anzi ad uno stadio poco più che iniziale; ma non per questo c’è da stare tranquilli; alla velocità con cui si sviluppano i processi nella nostra epoca, ci vuol poco ad accorgersi di quanto la realtà si modifichi in fretta.

            Brutto colpo per la scuola e per l’istruzione in senso formale! Perché stiamo progressivamente scoprendo che si può apprendere senza imparare, senza che qualcuno insegni; o almeno che a questo scopo sia preposta un’istituzione formalizzata.

           Dove (e come) apprendono i giovani? Quanto dalla/nella scuola e quanto dalle/nelle comunità virtuali? Vecchie domande, vecchia storia, si dirà: i giovani hanno sempre imparato – anche -  nei/dai gruppi dei pari, per non parlare del ruolo della famiglia. Nella formazione degli adulti, poi è ben noto quanto il processo di conoscenza avvenga in contesti non formalizzati e non deputati specificatamente a questo scopo: dalle pause – caffè agli incontri informali fra colleghi, ecc.

            Il fatto è che, sempre di più, si apprende svincolandosi dal contesto: noi apprendiamo in modo variegato, molteplice, plurale; comunque seguendo un processo di apprendimento non lineare. Si badi, non caotico; semmai reticolare (già le reti, nuovamente…).

            Grazie a (o a causa di?) questo disponiamo di una gamma ampia, ma soprattutto aperta, di pluralità di apprendimenti. Ciò consente di combinarli in modo diverso, di mescolarli fra di loro a seconda delle necessità e delle circostanze; il tutto in modo da renderli efficaci rispetto al compito che abbiamo di fronte.

            C’è di più: disporre di una pluralità di apprendimenti ci consente – o forse ci costringe – a sviluppare processi intellettivi in grado di “estrarre” di volta in volta quelli più utili al problema che abbiamo di fronte. La metafora più facile, ma non per questo meno efficace, è quella dei motori di ricerca: una volta accertato di avere a disposizione una notevole quantità di risorse, nasce il problema di come reperirle, ordinarle, organizzarle. È evidente che l’accento si sposta dai lemmi alla sintassi, dal semplice al complesso.

            Facciamo qui l’ipotesi che la sintassi cognitiva più adatta alla nuova realtà sia basata su una strategia di predominanza cognitiva: apprendiamo in relazione a “dominanze” cognitive, in funzione di pressioni e necessità cognitive del momento, utilizzando qualcuno di quegli apprendimenti in precedenza acquisiti.

            Ci pare qui utile ricordare l’ipotesi di Goleman, che cita la teoria dei “sequestri emozionali” (cattiva traduzione dall’originale Emotional Hijacking, più vicino al termine dirottamento): un sequestro è una predominanza che impegna la nostra mente e la nostra intelligenza rispetto a compiti o a situazioni particolari e che ci costringe a rompere con le nostre strutture cognitive abituali.

            L’intelligenza emotiva di Goleman si basa per l’appunto sul frequente e più o meno consapevole ricorso a sequestri emozionali. L’autore ne fornisce un fondamento fisiologico che non è qui il caso di approfondire, ma ritiene che le modalità con cui solitamente il nostro cervello risponde agli stimoli esterni possa essere in qualche caso, come per esempio in situazioni di pericolo, troppo lento (ovviamente in termini di tempi celebrali, comunque valutabili in millisecondi).

            Per porre rimedio a questa situazione avviene quello che il suo scopritore, il neuroscienziato J. LeDoux, ha definito “sequestro neurale”: in sostanza, nelle situazioni di pericolo, l’amigdala – che è la parte del cervello deputata alla gestione delle emozioni – riceve stimoli direttamente dal talamo attraverso un piccolo fascio di nervi che bypassano le altre strutture celebrali accelerando i tempi di reazione. Si tratta, per l’appunto, di un vero e proprio dirottamento rispetto alla via ordinariamente seguita dagli stimoli.

            Il modello Le Doux – Goleman può servire a giungere a due importanti conclusioni: in primo luogo possiamo affermare che per apprendere non è indispensabile una tensione motivazionale; in altri termini si apprende anche facendo altro rispetto ai tradizionali atti compresi nelle forme dell’istruzione o della formazione; nel gioco, nel riposo, ecc. si apprende senza la necessità di “switchare” il proprio interruttore mentale verso una condizione formalizzata.

            In secondo luogo, l’idea dell’apprendimento tramite sequestri ci porta a scoprire che l’utilizzo di forme di pensiero diverse da quelle cui siamo abituati – il pensiero logico, razionalistico, sequenziale – ci permetterebbe processi conoscitivi più ricchi ed efficaci.

            Quello che ci preme sottolineare è che in un mondo complesso, reticolare e comunicativo come quello che stiamo costruendo strutture di pensiero, di cognizione, di apprendimento che non si fondino sui sequestri emozionali risultano essere obsolete e poco adeguate. Questo non può non avere influenza sulla qualità ed il tipo di azioni formative che progettiamo e realizziamo.


[1] Grazie a www.formapagina.it

 

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