BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 03/04/1999


I ‘DISTRETTI INDUSTRIALI’ TRA PASSATO E FUTURO

di Emanuele Fontana

1. La crisi della produzione di massa.

La dinamica dell’industria nella cultura occidentale è storicamente centrata su due fondamentali modalità di organizzazione e produzione dei beni, da una parte la produzione di massa, che vede la grande impresa utilizzare macchine e tecnologie standardizzate per una produzione seriale, dall’altra la specializzazione flessibile, articolata su piccole unità organizzative in grado di fabbricare beni in piccoli lotti con caratteristiche quasi artigianali.Lo sviluppo di queste modalità ha, nel corso del tempo e nell’adattabilità dei luoghi, favorito ora l’una ora l’altra, tuttavia negli ultimi anni il dibattito teorico si è fatto più acceso e si è articolato sulla maggiore adeguatezza alla attuale situazione economica della seconda rispetto alla prima.Facendo riferimento a Piore e Sabel [1987], la produzione di massa, così come l’abbiamo conosciuta per gran parte del XX° secolo, appare oggi irrimediabilmente in crisi.Una crisi profonda, radicata nei modelli di sviluppo di tutti i paesi più industrializzati, crisi che è emersa pienamente nell’ultimo decennio, ma che era già percettibile fin dagli anni ‘60-’70. I caratteri distintivi della cosiddetta "turbolenza" hanno contribuito a rendere visibile un fenomeno che da allora in poi apparirà sempre più insidioso.I fattori chiave del turbolent environment sono di seguito sintetizzati:I movimenti sociali e sindacali degli anni ‘60, il passaggio dai cambi fissi ai cambi flessibili per opera della politica economica di Nixon nel 1971, la prima crisi del petrolio legata alla guerra arabo-israeliana del Kippur e quella del grano sovietico del 1973, la seconda crisi del petrolio scatenata dall’Iran nel 1979, l’aumento dei tassi di interesse negli anni ‘80, prospettarono la fine di un tipo di produzione incentrato sulla serialità, nella costante riaffermazione del ruolo fondamentale della catena di montaggio.L’economia occidentale, fondata, sulla modalità della produzione di massa e conseguente convinzione che lo sviluppo tecnologico dovesse essere vincolato alle dinamiche delle grandi industrie, prese atto che l’impostazione della produzione in questi termini non era più adeguata ad una realtà che cominciava a richiedere produzioni più articolate e differenziate.Sulla base di queste considerazioni Piore e Sabel [cit.] hanno visto nella specializzazione flessibile uno dei due possibili modi per superare la crisi della produzione di massa.La specializzazione flessibile emerge quindi a seguito delle richieste del mercato di produzioni differenziate con elevata qualità di base. In realtà si tratta della riscoperta di una modalità produttiva tipicamente artigianale, organizzata in specifiche zone geografiche contraddistinte da produzioni complementari sviluppate in piccoli laboratori, operanti in un’ottica di cooperazione - competizione. La stessa tecnologia si sviluppa in questi ambiti ristretti proprio in seguito alla costante dialettica cooperativo - competitiva, mettendo definitivamente da parte il paradigma tecnologico che vede l’innovazione appannaggio della sola industria accentrata.D’altra parte già alla fine dell’ottocento si pensava che l’innovazione tecnologica potesse essere attuata in ambienti lavorativi ridotti, in quanto le particolari strutture organizzative della produzione permettevano l’applicazione e lo sviluppo di tecnologie nuove, all’avanguardia dei tempi, sulla base della già ricordata dinamica di cooperazione e concorrenza. Le piccole aziende erano spinte a competere non attraverso un abbassamento dei salari, con la conseguente riduzione del costo del lavoro, ma attraverso la possibilità di sviluppare "trovate" tecnologiche capaci di incrementare la produzione e abbassare i costi. Lione per la lavorazione della seta, Solingen per quella dei metalli, Lancanshire e Sheffield per i tessuti, erano gli esempi di un tipo di organizzazione industriale centrata sulle produzioni artigianali in strutture specifiche, e fornivano la prova pratica della tendenza orientata ad una ricerca costante di innovazione, già nel secolo scorso. "Un esempio spettacolare di tecnologia che riduceva i costi dovuti al cambiamento di produzione fu il telaio di Jacquard, il precursore delle macchine a controllo numerico. Esso fu perfezionato per l’uso industriale tra il 1800 e il 1820 dai setaioli di Lione, che volevano riconquistare il loro tradizionale dominio nei mercati dei tessuti alla moda contro la crescente concorrenza inglese, tedesca e italiana. Il telaio creava complicati façonnèes e broccati in base alle istruzioni su schede perforate, che sollevavano e abbassavano automaticamente e nella giusta sequenza i fili nell’ordito.L’uso delle schede perforate come meccanismo di controllo ridusse sensibilmente il tempo per adattare il telaio ad un nuovo disegno, perché, come nel programma di un moderno computer, era possibile modificare rapidamente le schede [.......]I fabbricanti di nastri di Saint’ Etienne adattarono il sistema di programmazione Jacquard al telaio per nastri di tipo Zurigo, creando in questo modo un dispositivo capace di produrre simultaneamente più di venticinque nastri fantasia; i loro tentativi di ricamare i nastri a macchina ottennero un dispositivo simile alla macchina da cucire, che non doveva apparire in forma compiuta se non vent’anni più tardi" [M.J. Piore e C.F. Sabel, 1987, 62].Lo sviluppo del capitalismo impose però un cambio di prospettiva in quanto le dinamiche di sviluppo economico di fine ‘800 e inizio ‘900, in tutte o quasi tutte le parti del mondo, esigevano che la produzione si spostasse nell’ottica di massa con le necessarie conseguenze sul piano organizzativo. Sul piano teorico si andava delineando la teoria marxista dello sviluppo incontrastato dell’economia capitalista attraverso la concentrazione produttiva presso grandi stabilimenti, al servizio della continua crescita e riproduzione del capitale."Come la forza d’attacco di uno squadrone di cavalleria o la forza di resistenza d’un reggimento di fanteria differiscono essenzialmente dalla somma delle forze individuali spiegate isolatamente da ciascun cavaliere o fantaccino, nella stessa guisa che la somma delle forze meccaniche di operai isolati differisce dalla forza meccanica che si sviluppa tosto che essi funzionino congiuntamente e simultaneamente in una medesima operazione indivisa [.......] la cooperazione è il modo fondamentale della produzione capitalistica" [K. Marx, 1996, 246].Sulla base di questa impostazione Marx critica serratamente le concezioni mutualistiche di Proudhon, considerando inconcludente il discorso del filosofo francese, nella prospettiva dell’emancipazione del proletariato.Le tesi di Proudhon verranno accantonate in conseguenza dello sviluppo incontrastato del modo di produzione di massa, che sarà "il paradigma produttivo" [C.F. Sabel, 1989] del XX° secolo, per poi essere riscoperte nel momento in cui emergerà la crisi di questo paradigma industriale. 2. La flessibilità della produzione.Per flessibilità della produzione si intende la possibilità di variare il prodotto in conseguenza di un cambio della domanda.Se questa variazione è veloce e confluisce in un adeguamento del prodotto ai bisogni del mercato in tempi rapidi si può parlare di flessibilità produttiva supportata da una chiara propensione alla specializzazione flessibile.Naturalmente l’obbiettivo è tanto più facilmente raggiungibile se le dimensioni dell’azienda sono limitate e non si seguono criteri di produzione seriale.Questo paradigma è oggi in parte ridiscusso sulla base dell’apporto della tecnologia, che permette anche alla grande fabbrica accentrata di inseguire obbiettivi di flessibilità produttiva.In seguito a ciò la flessibilità produttiva limita la sua funzione a quella di indicatore del repentino adeguamento alla domanda, lasciando da parte il discorso dimensionale.Tuttavia il decentramento produttivo ed il criterio di produzione artigianale costituivano e costituiscono tuttora i criteri fondamentali per la flessibilità.Modi e tempi per attuare una certa flessibilità sono stati adottati in varie epoche e con risultati diversi, ma soprattutto sono attuali oggi, in considerazione del mutato atteggiamento del pubblico verso i beni di consumo.Uno dei modi istituzionali per salvaguardare la flessibilità della produzione era rappresentato, verso la metà del 1800, dal municipalismo."Il municipalismo era una forma di produzione sparsa in un territorio che faceva capo a un centro urbano dal quale era coordinata. Esso predominava quando le unità produttive erano piccole e le necessità di capitale modeste" [M.J. Piore e C.F. Sabel, 1987, 64].In pratica si parla di una organizzazione produttiva simile a quella basata sulle cosiddette "commissioni a domicilio", per cui il riferimento principale era rappresentato da una azienda più grande capace di decentrare la produzione a vantaggio di una ramificazione sistematica di piccoli laboratori.Elemento portante era l’appalto o il subappalto con il quale si poteva gestire la produzione dando possibilità di lavoro alle piccole industrie adiacenti. Il sistema era retto da contratti di associazione vincolati alla concessione dei suddetti appalti: spiccava così il ruolo dominante dell’industria più grande della zona.Interessante è ancora l’esempio di Lione dove i lavoratori della seta avevano costituito una rete di banche di credito (caisse de prêts) che garantivano prestiti alle aziende nei periodi di crisi.Questo per garantire un funzionamento costante dell’organizzazione municipale e impedire una destrutturazione improvvisa. Il prodotto sottostava alle regole ferree della complementarità produttiva e la suddivisione in fasi di lavorazione, compiute in laboratori separati, contribuiva a rendere omogenea la struttura.Spesso l’azienda principale decentrava la produzione concedendo appalti alle industrie più piccole, ma il prodotto tornava nello stabilimento di partenza per la finitura.Le istituzioni locali, una volta presa coscienza dell’importanza della struttura municipalistica si impegnarono per favorire il coordinamento fra i laboratori e la difesa delle condizioni di lavoro degli operai."All’estremo opposto c’era la produzione delle grandi fabbriche. In questo caso, le operazioni, pur flessibili e per quanto richiedessero delle capacità manuali, necessitavano anche di attrezzature dispendiose che i singoli artigiani non potevano permettersi" [M.J. Piore e C.F. Sabel, 1987, 67].Si fa qui riferimento alle grandi aziende metallurgiche o tessili dove la tecnologia e le grandi risorse di capitali permettevano la realizzazione di una certa flessibilità produttiva.Tuttavia, ad una analisi più approfondita, si viene a scoprire che queste grandi imprese erano in realtà dei "raggruppamenti di officine artigianali sotto uno stesso tetto, più che delle aziende da catena di montaggio" [M.J. Piore e C.F. Sabel, 1987, 67]. Il vincolo produttivo inserito nella copertura istituzionale non si fondava più sulla associazione municipalistica, quanto piuttosto su una sorta di welfare capitalism, una organizzazione che ritrovava nello sviluppo gerarchico della struttura e nella concentrazione del capitale la propria ragion d’essere.La grande fabbrica diventava un organismo sezionabile in piccoli laboratori che di indipendente avevano solo la possibilità di compiere l’intero ciclo di lavorazione per quanto riguarda il prodotto affidatogli.Per il resto le officine, peraltro spesso aventi sede nello stesso stabilimento principale, erano in tutto e per tutto subordinate alle esigenze della produzione dell’azienda di cui facevano parte. La produzione risultava per forza di cose fortemente accentrata ma c’ era la possibilità di attuarla in modo flessibile, in conseguenza di cambi della domanda, grazie alla organizzazione per officine semi indipendenti.Il terzo mezzo istituzionale per attuare un uso flessibile della produzione si basava sulla famiglia."L’ idea di valersi dei legami familiari per creare un’ alleanza fu concepita da un importante fabbricante di tessuti di cotone a Roubaix, in Francia: Alfred Motte.Negli anni ‘50, dopo un vano tentativo di guadagnare terreno contro i produttori in serie meglio piazzati e più stabili, Motte fece scattare il suo piano strategico: incominciò col fondare una confederazione di aziende appartenenti a vari membri della sua famiglia, che avrebbero prodotto tessuti alla moda" [M.J. Piore e C.F. Sabel, 1987, 69].Il Systéme Motte consisteva nel fornire ad un membro della famiglia, che avesse raggiunto la maggiore età, un capitale di base con il quale aprire un laboratorio indipendente. Al neo imprenditore era affiancato un tecnico d’ esperienza, che aveva prestato la sua opera presso le aziende del gruppo, capace di indirizzarlo nelle scelte tecniche.In questo modo si creò una rete di piccole industrie tutte vincolate fra loro, oltre che dai legami di parentela dei titolari, dalla complementarità delle produzioni, in un contesto che salvaguardava così la flessibilità.Secondo alcuni [D. Depperu e P. Varacca Capello, 1990] il sistema Motte può essere considerato l’ antesignano dei moderni "gruppi di imprese di dimensioni minori".La crisi del sistema di produzione di massa evidenzia l’ importanza strategica di questi modelli di produzione, e si è così riscoperto il principio della produzione artigianale o su piccola scala come possibile via per il superamento della crisi.La spinta principale a considerare queste idee come possibili fonti di successo è consistita nella scoperta e nello studio di realtà odierne improntate su un tipo di produzione di questo genere.

 

3. Impresa rete e reti di impresa.Al di la della suddivisione classica fra produzione di massa e produzione flessibile sono note le forme di organizzazione che individuano la cosiddetta specializzazione flessibile. Esse si distinguono dalla produzione flessibile perchè organizzate in forme di organizzazione che prevedono una struttura di molte piccole unità produttive all’ interno di uno stesso territorio e/o di uno stesso settore manifatturiero collegate da vari legami che vanno dalla proprietà alla orizzontalizzazione di uno stesso processo produttivo. Fra queste le più note sono quelle delle cosiddette imprese reti o reti di impresa e ancora più antichi, i Distretti Industriali.Ci sembra quindi opportuno, esaminare i due concetti per meglio collocare la successiva analisi.Nel dibattito teorico sorto dagli anni settanta in poi si parla di reti in riferimento ad organizzazioni produttive decentrate."Impresa rete, rete organizzativa, rete di impresa" fanno "riferimento a tipologie tradizionalmente diverse di situazioni imprenditoriali ed economiche" [F. Butera, 1990, 51].Diversi studiosi hanno successivamente messo in evidenza le caratteristiche delle diverse organizzazioni produttive decentrate, partendo sia dal grande (la holding internazionale) che dal piccolo (la costituzione spontanea di nuclei produttivi giuridicamente autonomi).Quello che un’ analisi dettagliata delle caratteristiche delle organizzazioni produttive decentrate può evidenziare è una ricerca di soluzioni strategiche tendenti alla salvaguardia di una flessibilità produttiva nell’ adeguamento al mercato.L’ impresa rete corrisponde a quella concezione della struttura organizzativa che vuol dimostrarsi strategicamente capace di assorbire i cambiamenti repentini di un ambiente turbolento."Per usare una metafora, crollano così le mura del castello delle complex organization viste tradizionalmente come unità ad alto livello di razionalità, formalizzazione ed efficienza, unità rigidamente distinte dalle istituzioni, dal mercato e dal sistema sociale" [F. Butera, 1990, 55,56].Il decentramento organico diventa il modello di impresa moderna e la struttura si costituisce come un organismo con alla testa le "agenzie strategiche" che "possono essere sia imprese autonome (holding, imprese generali, general contractor) che funzioni di un’ impresa (board of director, comitati di direzione, ecc) [F. Butera, 1990, 57].Le strutture realizzate sulla base di decentramento tendono a confondere la loro natura a seconda della diversità di formazione e dell’origine.Al fondo di tutto comunque c’è una logica classificatoria che permette di identificare le diverse tipologie di imprese rete in relazione al grado di decentramento ed alle dinamiche strategiche all’interno.Con Butera si evidenzia una linea evolutiva che, da un modello organizzativo accentrato, si risolve nell’organizzazione di un circuito produttivo costituito da aziende indipendenti fra loro: dall’impresa rete si arriva al distretto industriale.Un primo modello di impresa rete è rappresentato da un’organizzazione produttiva che si basa su un criterio strategico fortemente gerarchico. La struttura gerarchica è decisamente il sostrato di base dell’organizzazione ma si riconosce una decisa presenza di "relazioni di influenza e negoziali con altre imprese medie e piccole" [F. Butera, 1990, 58].Un secondo modello di impresa decentrata è rappresentato delle "imprese rete a centro di gravità concentrato su una sola agenzia strategica" [F. Butera, 1990, 58,59] dove le relazioni di influenza e negoziali ricalcano le organizzazioni di strutture complesse come le holding finanziarie, le aziende industriali no facturing o le hollow corporations.Si passa poi ad un decentramento ancora più marcato con le imprese rete strutturate con "centri di gravità multipli, in cui il sistema ruota intorno a diverse e succedentesi agenzie strategiche, con relazioni di influenza assai complesse e mobili" [F. Butera, 1990, 59].Come ultima prospettiva si arriva alle "imprese a rete senza centro" [F. Butera, 1990, 59], che producono a base territoriale e con criteri indipendenti.Qui comincia ad apparire superfluo il termine impresa rete, in quanto l’ organizzazione produttiva è basata sulla relazione reciproca fra aziende giuridicamente e strutturalmente autonome che decidono di legarsi attraverso congiunture solo strategiche.Si ritorna in questo modo alla definizione di distretto industriale che si differenzia dall’impresa rete di tutti i livelli per la sua caratteristica natura di imporsi come sistema produzione insediato in un determinato ambito territoriale e fondato nella organizzazione interaziendale competitiva e cooperativa.

 4. I Distretti Industriali: alcuni problemi di definizione.

Il termine Distretto Industriale (Industrial Districts) fu coniato da Alfred Marshall, nella seconda metà del 1800, in riferimento alle industrie tessili di Lancashire e Sheffield. "Quando si parla di distretto industriale si fa riferimento ad un’ entità socioeconomica costituita da un insieme di imprese, facenti generalmente parte di uno stesso settore produttivo, localizzate in un’area circoscritta, tra le quali vi è collaborazione ma anche concorrenza." [A. Marshall, 1919, 283]Per Distretto Industriale Marshall intendeva una conglomerazione di piccole imprese capaci di attuare una produzione che fosse allo stesso tempo competitiva e cooperativa in modo da contraddistinguere il luogo come una sorta di "patria" specializzata in quel settore di produzione.Il neologismo appare nei lavori giovanili di Alfred Marshall già dal 1867. G. Becattini [1989, 400] parla di come "i vantaggi della grande scala produttiva, o perlomeno una larga parte di essi, possono essere realizzati anche da una popolazione di imprese di piccole dimensioni, concentrate in un determinato territorio, suddivise per fasi produttive, attingenti ad un unico mercato del lavoro".Il distretto marshalliano fa quindi leva sulla "congruenza dei requisiti di una certa organizzazione del processo produttivo e le caratteristiche socio-culturali di un certo ceppo di popolazione, formatesi lentamente nel corso del tempo" [G. Becattini, 1989, 401].In pratica si mette in evidenza una sorta di simbiosi organica fra le potenzialità organizzative di una realtà socio-culturale e le possibilità di questa di produrre una merce o un servizio, capaci di assorbire la totalità della produzione, impegnando tutte o quasi tutte le risorse umane della zona. "Comunità ed imprese tendono, per così dire , ad interpenetrarsi a vicenda" [G. Becattini, 1989, 401].La nascita di un Distretto Industriale però non necessariamente si verifica spontaneamente in ogni sistema di valori inserito nel corrispondente apparato di istituzioni locali, ma è vincolata alla idoneità di un processo produttivo a fornire le condizioni necessarie per il formarsi di questo particolare tipo di organizzazione.Ancora con Becattini; "i processi produttivi che si possono realizzare efficacemente nel distretto debbono presentare certe caratteristiche: come la scomponibilità in fasi e la possibilità di trasportare nello spazio e nel tempo i prodotti di fase" [G. Becattini, 1989, 401].Fondamentale per un Distretto Industriale è quindi la presenza di "un legame fra il sistema locale di piccoli produttori e i mercati esterni di sbocco dei prodotti" [G. Becattini, 1989, 402].Per l’esistenza di un Distretto Industriale è necessaria, dunque non solo la congruenza di condizioni tecnico produttive e di caratteristiche socio-culturali, ma anche la presenza di un bacino di utenza capace di assorbire la produzione.Ciò si fonda sulla constatazione che "le piccole imprese indipendenti definiscono da sole la propria domanda: esse infatti comunicano al cliente ciò di cui il cliente ha veramente bisogno" modificando "la propria tecnologia un po’ alla volta cercando di soddisfare la domanda" [S. Brusco e C. F. Sabel, 1989, 306-307].G. Becattini [1989, 402] aggiunge che poco importa che tale bacino di utenza sia nazionale o internazionale, ma decisiva è la presa di coscienza che "un toponimo geografico sia divenuto un termine di scelta rilevante per gli intermediari specializzati nei prodotti dei distretti".Gli intermediari o, anche, "imprese terminali" sono figure di spicco nella organizzazione dei Distretti Industriali, di cui l’ esempio più importante sono gli "impannatori" pratesi, operanti nel settore della produzione tessile del Distretto Industriale della cittadina toscana, e i "grossisti" nelle zone che producono lavorazioni di oggetti in oro o argento, che concentrano la produzione in cataloghi comuni nei Distretti Industriali di Arezzo e Vicenza.L’ intermediario, punto di collegamento fra interno ed esterno del distretto, procacciatore di commesse, ecc., raccoglie la produzione delle fabbriche del distretto e ne cura la commercializzazione comune.Questo particolare ruolo mette il Distretto Industriale in condizioni di muoversi in ambiti produttivi flessibili, in quanto dipende soprattutto dall’azione dell’intermediario definire il bacino di utenza al quale indirizzare i prodotti.Inoltre è l’intermediario che spesso gestisce i rapporti fra le aziende del distretto contribuendo a basarli sulla consapevolezza estesa che si tratti di relazioni fra "buoni professionisti (avvocati, professori universitari, ecc.)" in realtà locali dove le piccole imprese sono "complementari le une alle altre, raggruppate in un’ area ristretta" [S. Brusco, 1989, 309-310]. Inoltre si consideri anche che: "le interrelazioni tra imprese, la concorrenza e la collaborazione, la disponibilità di servizi e la presenza differenziata di fornitori, il richiamo esercitato verso i compratori finali sono elementi essenziali dell’efficienza" [S. Brusco, 1989, 311].Il Distretto Industriale può quindi essere considerato come "un complesso produttivo il cui coordinamento fra le diverse fasi e il controllo del loro regolare funzionamento, non sono effettuati secondo regole prefissate e/o con meccanismi gerarchici (come accade nella grande impresa privata), ma sono invece affidati ad una combinazione del giuoco automatico del mercato con un sistema di sanzioni sociali irrogate dalla comunità" [G. Becattini, 1989, 403].Riassumendo le definizioni dei diversi autori, le caratteristiche distintive dei Distretti Industriali sembrano dunque essere:

 

5. Nascita e ruolo innovativo dei distretti in Italia.Il fenomeno dei Distretti Industriali è molto antico (cfr. Prato, Lione, Sheffield, ecc.), tuttavia negli ultimi 20 anni si è assistito alla nascita di altri distretti, o di realtà che gli assomigliano, collegata alla grave crisi dell’economia mondiale, causata dai fattori di turbolenza e dal radicale cambiamento della domanda di prodotti, impostata sul rifiuto della produzione in serie per riscoprire la diversificazione. Nonché, soprattutto per quanto riguarda l’ Italia, al tentativo padronale di sottrarsi alla crescente influenza sindacale sugli operai [S. Brusco, 1989].A queste cause congiunturali bisogna però collegare altri fattori che hanno preparato il campo alla nascita dei distretti, così, seguendo Bagnasco, si scopre che la realtà italiana ha fornito un sostrato di condizioni sulle quali i distretti hanno preso corpo e da cui si sono sviluppati.La distribuzione dei distretti nel territorio nazionale vede una netta presenza di questi nel nord e nel centro, luoghi tradizionalmente legati alla cultura mezzadrile.Siccome "era la famiglia colonica a compiere le scelte imprenditoriali fondamentali per la gestione dell’azienda" [A. Bagnasco e Pini, 1981, cit. in S. Brusco, 1989, 481], si può dedurre che la condizione di mezzadro è stata una causa "scatenante" del fenomeno distrettuale, proprio per la elevata propensione all’imprenditoria dei coloni di queste terre.L’ impostazione del rapporto lavorativo inoltre, particolarmente nel momento della produzione, ha risentito di tutto il retroterra culturale costruito su anni e anni di collaborazione mezzadrile.Oltre a questa tendenza culturale, bisogna considerare la notevole influenza delle città, "come luogo dei traffici, della organizzazione commerciale finanziaria, come luogo dei mercati" [A. Bagnasco, cit. in S.Brusco, 1989, 482],che sono state il palcoscenico di una fitta rete di relazioni interpersonali viste come punto di partenza per rapporti collaborativi a tutti i livelli.Ruolo, questo, che appare ancora più importante in quelle zone che, per conformazione territoriale, sono state fino a qualche decennio addietro impossibilitate ad inserirsi in una rete distributiva nazionale o internazionale. Altro ruolo importante è stato giocato dalle grandi fabbriche che, decentrando la produzione per ragioni strategiche, hanno permesso la formazione di piccole aziende, capaci poi di divenire indipendenti.Spinte verso il decentramento dalla esigenza di combattere la spinta unitaria sindacale degli anni ‘70, le grosse aziende hanno contemporaneamente trovato la strada più facilmente percorribile per orientarsi verso la flessibilità produttiva, dando spazio a nuove realtà aziendali satellitari.Dal primordiale decentramento è partito, in molti casi, il successivo sviluppo industriale che ha portato alla formazione di una struttura distrettuale.Molto importante poi è stata la presenza, sui luoghi interessati, di scuole specializzate nei settori di produzione, capaci di formare nuovo personale lavorante e di approfondire le conoscenze sulla materia in questione, contribuendo allo sviluppo tecnologico ed umano.Oltre a fornire manodopera specializzata, le scuole speciali hanno contribuito a distribuire i germi di una imprenditoria diffusa, basata sulle competenze acquisite negli ambienti scolastici, che ha trovato sbocco nelle potenzialità di crescita dei distretti.

Non va trascurato l’ importante ruolo di ricerca, riflesso nella conseguente innovazione, che le scuole suddette hanno sostenuto, e sostengono, nella dinamica produttiva delle zone interessate.

In sostanza si può parlare di un percorso lungo il quale, in modi diversi, le comunità hanno potuto sviluppare capacità commerciali, tecniche, imprenditoriali, capaci di formare una rete di relazioni che sono il sostrato naturale dei distretti industriali, visti come entità socioeconomiche, infatti "è caratteristica dei distretti industriali che queste conoscenze non contraddistinguano un gruppo particolare in seno alla comunità ma siano diffuse in tutti gli strati sociali" [S. Brusco, 1989, 484].

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