BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 24/05/2001

UN COLLOQUIO DI LAVORO 1

di Emanuele Fontana

Scorrendo il giornale mi cadde l’occhio su un annuncio in grassetto, vicino al margine sinistro della pagina dedicata ogni settimana agli annunci di ricerca del personale. L’abitudine di leggere quella pagina aveva così perfezionato la mia capacità di comprensione sull’argomento che non avevo difficoltà a rintracciare annunci interessanti per me. Era un po’ come per certi artigiani che dopo anni di fatiche con i loro utensili, riescono a scoprire con esattezza dove intervenire, prima che il committente del lavoro indichi loro il problema da risolvere o l’opera da realizzare.

Si trattava di un posto da impiegato amministrativo. Richieste: forte dinamicità, facilità nei rapporti interpersonali, conoscenza approfondita di un particolare sistema informativo, età grosso modo intorno ai 30 anni, almeno due anni d’esperienza in posizioni analoghe.

Detto così sembrava veramente una buona occasione. Infatti, cancellando le infelici affermazioni riguardanti le propensioni caratteriali, impossibili a misurarsi con un colloquio informativo di non più, e questo è un tempo rigoroso, di 20 minuti, c’era in quell’annuncio una piccola speranza che si trattasse di un posto fisso, ben remunerato, inoltre con ampi margini di carriera, visto che si cercava una persona di non più di 30 anni.

In effetti però il fatto di cercare una persona giovane poteva anche indicare che si voleva investire sul futuro, partendo purtroppo da una minima base di possibili rivendicazioni economiche.

Cioè: lavorare sodo e guadagnare poco per il primo periodo, poi o ti confermano con lo stesso stipendio o ti mandano direttamente a casa.

Essendo un ottimista fin dai tempi della scuola non considerai questa sensazione e decisi di rispondere all’annuncio inviando il mio curriculum vitae. Naturalmente anche per quella settimana avrei inviato altri curricula in varie parti d’Italia, tanto se devi pescare "è meglio buttare giù più ami che uno solo" o una cosa del genere.

Con la solita precisione mi accinsi a scrivere le lettere di presentazione, operazione ormai quasi automatica, visto che nel disco fisso del mio computer avevo registrato alcuni fac-simile di lettere grosso modo buone per tutte le occasioni.

Ne scelsi alcune per i curricula da inviare e cambiando l’intestazione mi accinsi a compiere i soliti lavori di stampa e imbustamento.

Come ogni mattina da un po’ di tempo a quella parte uscii di casa con le buste sotto braccio. Andai all’ufficio postale e comprai dei francobolli per spedire le lettere.

Subito dopo aver compiuto l’operazione me ne andai a far colazione al bar. La vita da disoccupato ti riserva anche questi piaceri. Uno sguardo al giornale, una pasta al cioccolato e un caffè alto mi fecero compagnia per circa mezz’ora.

Rientrai a casa dopo il bar e mi immersi nella lettura di un romanzo di Jack London. Che avventure quelle, mai uomo ha descritto con tale efficacia le gesta di eroi tanto razionali e intellettualmente onesti.

La giornata era calda e solare come le più belle giornate di mezza estate e in fin dei conti non stavo poi così male. Che non lavorassi da più di tre mesi era si uno spiacevole intoppo nei mie progetti di vita ma in fondo anche quella vacanza forzata cominciava a piacermi.

L’unico problema di quando sei disoccupato è rappresentato da come riuscire a spendere meno soldi possibile senza annoiarsi troppo. Uniche soluzioni leggere molto, scrivere, guardare la TV. Quest’ultima però la devi centellinare altrimenti ti rincoglionisci e sei finito.

In quel periodo, proprio per cercare di eliminare le spese ero tornato ad abitare in casa dei miei genitori, che, come tutti i genitori, aprirono con entusiasmo la porta della loro abitazione per ospitare il figlio momentaneamente in difficoltà.

Non mi è mai piaciuto vivere con i miei. Non che siano persone insopportabili, anzi tutt’altro, ma preferisco starmene in casa da solo, visto che sono un po’ cresciutello e pretendo un po’ di privacy. Penso di non far torto all’orgoglio paterno nel dire questo.

Purtroppo però il brusco allontanamento dall’azienda nella quale ero stato impiegato per tre anni mi aveva condannato a ritornarmene a casa, lasciando ad altri il mio piccolo ma comodo appartamentino in un'altra città del nord Italia.

Il lavoro svolto presso quell’azienda era stato abbastanza interessante. Mi aveva consentito di conoscere tanta gente e di farmi una discreta esperienza. Avevo però rovinato tutto con il mio comportamento non troppo d’etichetta e così dopo l’ennesima incomprensione con il titolare – di solito si chiamano così i litigi furiosi con il capo – ero stato gentilmente pregato di "levarmi dalle palle".

Mi ritrovavo ora senza un lavoro ma pur sempre a casa dei miei genitori, nella mia camera da letto, che avevo vissuto molto intensamente negli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza. C’erano ancora le foto della mia squadra di calcio preferita, una libreria abbastanza ben fornita e i tanti cimeli raccattati in molte parti del mondo durante i miei, per fortuna, numerosi viaggi.

Fissavo adesso un piccolo oggetto di terra cotta proveniente dal Brasile. Cimelio inventato di un viaggio eroico con un mio amico, compiuto con entusiasmo almeno 10 anni prima.

Quell’oggetto mi ricordava tante cose. Soprattutto il colore, un rosso vivace intrecciato ad un giallo ocra dei più belli e dolci che si possono ammirare in natura, rievocava in me il clima caldo e l’arsura in uno sperduto villaggio a nord est di Salvador de Bahia. Vagai con la mente immaginandomi quello che stesse facendo ora il mulatto che mi aveva venduto, ad un prezzo veramente irrisorio, quell’arnese che assomigliava tanto ad una cesta di vimini in miniatura ma che non era altro che un minuscolo strumento musicale fatto di radici di una stranissima pianta tropicale. Si trattava di una scatoletta cilindrica riempita a metà di semi di non so quale altra pianta. Agitandola si ricavava un rumore molto simile a quello della pioggia fitta che cade sul tetto durante un temporale estivo. Utilizzando con ritmo quel rumore si potevano ricavare le cadenze di base per qualsiasi motivetto del "Samba". Stringendolo fra le mani comincia a pensare.

Quando si è disoccupati si ha tutto il tempo di vagare con il pensiero in tante direzioni. Non senti nessun rimorso per la perdita di tempo, come invece avviene quando studi o lavori e ti capita di metterti a vagabondare con la testa, rievocando ricordi, ecc. Si è liberi di bivaccare e sprecare il tempo che si vuole, quando si è disoccupati. Purtroppo però questa libertà riduce le possibilità di tenere sempre aggiornata e fresca la mente, a meno che non si usino i momenti di vagabondaggio per ragionare in termini creativi. Ma è estremamente complicato essere creativi in situazioni di inattività fisica, o meglio, è difficile essere creativi senza scopi immediati, progetti; almeno io non vi riesco.

Ecco che allora ti atrofizzi, richiudendoti in te stesso e lasciando che il tempo scorra inesorabile su te e su quello che ti gira intorno. A questo punto cominci a rincoglionire e se non te ne accorgi per tempo sei fottuto. Se invece ti accorgi che stai rincoglionendo a forza di pensare a chissà quali eventi passati o che stai vagando con la fantasia in praterie sconfinate senza meta, capisci che è il momento di scuoterti e prendi il primo lavoro che ti capita. Ma in questa maniera sei fregato ugualmente, perché va a finire sempre che il lavoro non ti piace o lo trovi noioso e allora sei ancora daccapo ma con molta fatica in più.

Il metodo migliore per uscire da una situazione come questa? Avere una gran fortuna ed essere abbastanza intelligenti da pensare a cose fattibili. Se poi si impegna il tempo studiando, tanto meglio, la mente rimane bella fresca e non ti abbruttisci.

Così riposi l’oggetto costruito con quella strana pianta e tornai diligentemente al libro di matematica finanziaria che tenevo da settimane sulla scrivania. Lasciai da parte la malinconia e per un po’ mi dedicai a studiare i metodi di calcolo del ritorno sull’investimento.

La giornata passò in fretta e come quella vennero altre giornate. Tutto si stava appiattendo in un grigiore desolante ma al tempo stesso foriero di pacatezza.

Impegnavo il mio tempo leggendo, studiando e naturalmente spedendo curricula in giro. Il tutto con una sempre meno veemente energia, condita da una sempre crescente angoscia. Aumentando in modo esponenziale il tempo a disposizione per pensare, magari fra una lettura e un’altra, che pur impegnative che si dimostrino ti dispongono sempre e comunque al ragionamento interiore, mi ritrovavo a passare prima minuti, poi ore intere a pensare alla mia situazione, alle prospettive possibili e a cosa sarei andato incontro se avessi proceduto così ancora per molto tempo.

Continuai a vivere queste ansie crescenti per un periodo che sembrava indeterminato. Fino al giorno in cui ricevetti l’invito a presentarmi ad un colloquio di selezione per il posto da amministrativo, relativo all’annuncio al quale mi ero interessato qualche settimana prima. Era un ruolo di un buon livello, una buona prospettiva, forse. Ma rimanevano ancora i dubbi che avevo composto rimuginando sull’annuncio.

Non sapevo se sarebbe stata una buona occasione ma comunque, per ora, la soddisfazione di essere stato convocato per illustrare le mie competenze e le mie necessità mi aveva ridato il sorriso. Diventa importante in questi casi, riacquistare una certa sicurezza di poter affrontare con cognizione di causa una situazione che ti può aprire un ventaglio di prospettive interessanti.

Passai la giornata intera a fantasticare sul futuro incontro. Mi immaginavo la faccia del selezionatore. Lo vedevo abbastanza grasso, con gli occhiali, pochi capelli, quasi tutti bianchi. Poi cominciai a formulare tante ipotesi sulle domande che mi avrebbe fatto, sulle proposte, ecc.

Scartai con irritazione tutte le idee che mi portavano a pensare ad un fallimento del colloquio. Non volevo immaginarmi la delusione per una bocciatura, magari chissà per quale assurdo motivo.

Ma anche con tutta la carica che cercavo di mettermi in corpo non ero comunque tranquillo e passai quei maledetti due giorni che mi separavano dal colloquio in una irrequietezze a volte insopportabile.

Addirittura, la seconda sera, non riuscii a chiudere occhio, tanta era la tensione.

Il colloquio era fissato per il venerdì alle 10 presso i locali che presumibilmente appartenevano all’azienda stessa. Questo voleva significare due cose.

La prima era il fatto che l’azienda in questione si era mossa in maniera indipendente, senza avvalersi della collaborazione di una società specializzata in selezione del personale. Ed era una buona cosa, da un certo punto di vista.

La seconda, che molto probabilmente mi sarei trovato di fronte ad un selezionatore interno, magari non professionista, e fin qui poteva andare bene, ma il pericolo era che mi sarei potuto trovare davanti direttamente il datore di lavoro, con i suoi pregiudizi, i suoi schemi mentali e soprattutto le sue inclinazioni abbinate alla quasi totale mancanza di competenza nell’area di lavoro: e questa non era sicuramente una buona cosa.

Il problema è che se sei selezionato dal datore di lavoro corri il pericolo di sottostare ai sentimenti di simpatia e antipatia che si generano immediatamente in una situazione come quella di un colloquio di lavoro. Se invece a fare la selezione è un professionista rischi, più che altro, che la tua professionalità non venga riconosciuta idonea per mancanza di criteri direi formali: un anno in più o in meno di esperienza, un cambiamento di lavoro troppo frettoloso, ecc.

La cosa migliore sarebbe farsi selezionare da un interno: uno che vive tutti i giorni il clima aziendale, ha un certo grado di responsabilità e soprattutto riesce a vedere con maggiore facilità se puoi essere utile in quella posizione. Questo genere di selezionatore è il più attento e preciso, ti fa delle domande rigorosamente inerenti il lavoro da svolgere e, cosa più importante, ti guarda con una certa simpatia vedendoti come un possibile futuro alleato nel posto di lavoro.

Pensando e ripensando a queste cose, tutte, mi stavo praticamente affumicando il cervello. Ma per me è sempre così: ogni pressione genera ansia e la testa va in ebollizione.

Fortunatamente avevo scrupolosamente seguito il consiglio di un piccolo manuale su come si affronta il colloquio di lavoro, nel punto dove sottolineava il fondamentale principio di non rimandare mai un colloquio, nemmeno per emergenze di salute o cose del genere. Di conseguenza il venerdì ero pronto e attivo, avevo annullato un appuntamento fissato da mesi dal mio dentista. Pensandoci poi, mi resi conto che comunque non avrei potuto pagarlo.

Quel giorno pioveva in maniera torrenziale, i tetti dei capannoni di quella zona industriale, poco distante dalla città, sembravano, dall’autostrada, le estremità vive degli alberi sempre verdi dei nostri boschi. Un boschetto di eternit in mezzo alle carreggiate dell’autostrada e alle corsie delle traverse interne che circondavano quella zona industriale. Lungo il viale principale, alcuni bar e due self service, pronti ad accogliere gli impiegati a pranzo.

Arrivai naturalmente in anticipo di un quarto d’ora. Anche questa era una regola ferrea impartitami dalla lettura di quel libretto su come va gestito il colloquio.

Non ebbi difficoltà a trovare il posto giusto, delle insegne stampate su cartelli mobili indicavano con certezza che avevo raggiunto il mio obiettivo.

All’apparenza sembrava una ditta di non più di 50 impiegati, fra operai e addetti agli uffici. Si percepiva fin da fuori un’aria frenetica, molto attiva, evidenziata dal va e vieni di due "muletti" proprio all’ingresso del capannone principale.

A lato del capannone si intravedeva una piccola costruzione di tre piani, adibita per forza di cose ad uso uffici. Sembrava costruita proprio per servire a quello scopo e sinceramente era difficile immaginarla per una funzione differente.

Aprii lo sportello e mi catapultai fuori nella pioggia, ribattuta prontamente da un ombrello ad apertura automatica che mi portavo dietro solo in simili occasioni. Di solito invece gli ombrelli non mi piacciono.

Ero pieno di energia, carico al punto giusto. In macchina avevo ripetuto a me stesso le frasi di un colloquio immaginario con un immaginario selezionatore. Mi ero convinto delle mie possibilità, o almeno questo speravo.

Con passo svelto attraversai il breve tratto di strada che mi separava dalla porta d’ingresso. Stavo andando verso il mio futuro, verso un posto di lavoro. Ero talmente convinto di questo che non mi accorsi nemmeno di aver calpestato una pozza d’acqua piena di fango. Lo capii solo nel momento di varcare la soglia, quando vidi l’addetta al ricevimento venirmi incontro con ardore per cercare di farmi camminare sulla parte di pavimento adibito a scolatoio e non sul tappeto.

Mentre cedevo allo sguardo duro dell’addetta alla reception pensavo già al fatto di essere spacciato. Un tizio non può presentarsi ad un colloquio di lavoro con la scarpa infangata e una gamba del pantalone segnata dal marrone chiaro del fango.

Ripetevo a me stesso di essere perduto, quando, quasi con una spinta, la ragazza mi introdusse nella sala di attesa.

"Può attendere qui, grazie".

Sentii pronunciare con tono deciso ma cortese. Chissà quanti corsi di comunicazione interpersonale si era dovuta sorbire da quando lavorava li.

Capisci subito se una persona ha svolto dei corsi di formazione professionale incentrati sulla acquisizione di comportamenti prestabiliti, razionalizzati e soprattutto controllabili.

Li vedi schizzare in un vestito mentale non loro con la rapidità di un pesce che sfugge all’amo del pescatore. Cambiano espressione improvvisamente, ripensando alle direttive impartite dal formatore. Si irrigidiscono con la parte superiore del corpo e cominciano a fissarti nella maniera più affabile possibile. Per accorgersi di questo devi avere avuto un’esperienza simile. Cioè devi aver subito un corso di formazione comportamentale.

Grazie all’esperienza attiva noti facilmente come gli ex corsisti collegano la situazione attuale con uno dei tanti casi simulati vissuti in aula. Se non hai avuto un’esperienza del genere ti sembra che la persona che hai davanti ti prenda per il culo, fingendo di recitare un ruolo non suo.

Comunque, anche se rapito dal pensiero della scarpa e dalle istintive sensazioni, riuscii a rispondere con cortesia:

"Grazie, molto gentile. Aspetterò qui".

Sprofondai nella poltroncina con la testa già intasata.

Avevo tutto il tempo per pensare a come affrontare il colloquio. Con calma avrei simulato la situazione almeno un migliaio di volte, in modo da apparire il più calmo possibile nel momento topico. Ma appena sistematomi a sedere, un lampo imprevisto mi folgorò senza scampo. Ebbi appena il tempo di sgranare gli occhi prima di perdermi nelle sconfinate praterie dell’immaginario. La creatura che mi si parava davanti era implacabile nella sua bellezza. Non l’avevo notato per i primi 5 o 6 secondi di permanenza nella saletta ma ora mi stava facendo a pezzi.

Una bambolona mora, alta almeno uno e ottanta, tallieur verde acqua, occhi dello stesso colore. Un gigante di donna. Gambe sode e drittissime. Seno alto, invincibile.

Non provai nemmeno a resistere: ero perduto.

Il desiderio di ripartire subito cominciò a tormentarmi. Nulla potevo contro una bellezza del genere. Anche se fosse stata la più sciocca e incompetente donna della terra – e sicuramente non lo era – sarebbe riuscita ad ottenere quel posto, tanto era avvenente.

Era una vincente nata, si vedeva. Un’immagine di donna perfetta, bellissima.

Come diceva il mio vecchio titolare:

"Se devi prendere, qualcuno, prenditi una "gran gnocca". Tanto la paghi uguale ma almeno ti ravviva la mattinata".

Anche se questa constatazione era uno dei motivi per cui ero scappato dal vecchio posto di lavoro, rappresentava comunque una sacrosanta costante nel ragionamento di piccoli imprenditori di provincia.

A consolarmi di tutto ciò la convinzione, generata forse da un inconscio sentimento di consolazione, che comunque fosse finita avevo di fronte, ora, la donna della mia vita.

Il problema principale, ad un primo esame della situazione era quello di attaccare discorso con lei, non certo quello di caricarsi per affrontare un colloquio di lavoro.

Cominciai a fissarla assorto, mentre, imperturbabile, chinava il capo su una rivista messa a disposizione per gli ospiti.

Volevo parlarle ma la mia timidezza mi impediva perfino il minimo movimento. Mi accontentavo di fissarla estasiato.

Poi fra un pensiero e l’altro - in mezzo ad un mare di desideri d’amore - mi sorse improvvisa una domanda: "E se fosse stata messa lì proprio per indurre i candidati a compiere passi falsi?"

Magari eravamo sotto l’osservazione di una telecamera. Questi consulenti, pur di spillare quattrini a qualche sprovveduto imprenditore, se ne inventano di tutti i colori. Magari questa era una procedura di osservazione, o chissà quale altra diavoleria psicosociale importata dall’America.

Naturalmente una voce interiore mi intimò di farla finita con queste visioni paranoiche e ricominciai a guardare l’oggetto del mio desiderio.

Nemmeno uno sguardo, mi concesse. Neanche quando si alzò per andarsene, dimostrando infallibile il mio colpo d’occhio nella valutazione dell’altezza di una donna, mi degnò della minima considerazione. Prese il plico che le stava consegnando quello che per me poteva anche essere un manichino, visto che non lo guardavo nemmeno, e sparì velocemente di là dalla porta a vetri che divise i nostri destini.

Non era venuta per un colloquio. Doveva essere l’impiegata di qualche avvocato o qualcosa del genere: venuta lì a ritirare del materiale per il suo capo.

Il colloquio che avrei dovuto sostenere di lì a poco riprese nella mia testa il posto principale che aveva occupato con diritto da almeno due giorni. Mi ripromisi comunque di cercare di scoprire il più possibile sulla bellezza che mi aveva lasciato solo in quella saletta.

Adesso infatti vedevo come era composta quella sala di attesa. Una stanzetta comoda ma non molto grande, con poltroncine color rosso scuro accostate alle quattro pareti. Un tavolinetto di ghisa con piano di vetro occupava la posizione centrale in un vasto tappeto ad arabeschi blu e rossi, che copriva quasi tutto il pavimento, lasciandone fuori solo le parti su cui poggiavano le gambe posteriori delle sedie.

Alle pareti alcune foto dell’azienda dall’esterno e due manifesti con slogan pubblicitari di ditte fornitrici. Sul tavolino poggiavano almeno una dozzina di riviste colorate. Roba illeggibile o perché troppo tecnica o perché riguardante pettegolezzi e storie fantastiche di qualche vip. Ma appena ebbi la percezione delle dimensioni del luogo ricominciai a pensare alla bella mora. Che amore di donna!

Ritrovai la ragione grazie all’intervento della segretaria che, con il solito affabile sorriso, mi indicò la via da seguire per raggiungere l’ufficio del selezionatore.

Ripresi il contegno doveroso nelle situazioni di crisi, cosa che avevo sempre pensato di avere. Strinsi i pugni e, con un sospiro volto a cementare la concentrazione, entrai nell’ufficio. Portavo con me la mia scarpa infangata, il pantalone segnato, un amore fuggito e tanta paura.

Appena dentro l’ufficio notai subito, con un certo stupore devo dire, che la disposizione dei mobili e della scrivania risultava essere tale e quale a quella che mi immaginavo da giorni. Un ambiente sobrio, arredato con una certa accortezza spartana. Stampe colorate, sicuramente made in Usa, erano sistemate alle pareti bianchissime. Alcuni scaffali, sulla destra riempivano l’ufficio con la loro semplice ma elegante presenza. Fra le luci abbastanza soffuse si potevano poi intravedere due sedie imbottite color rosso vivo, con le ruote all’estremità delle gambe. Una scrivania larga due metri, con ripiano in vetro, naturalmente senza alcun oggetto sopra. Un’altra sedia a ruote dello stesso colore, anch’essa imbottita ma un po’ più alta e massiccia delle altre due, stava dalla parte opposta della scrivania. Mi accomodai, su indicazione della segretaria, in una delle due sedie poste a ridosso della scrivania, aspettando l’arrivo del selezionatore.

Ero abbastanza tranquillo. Niente sudore. Nemmeno i soliti gesti nervosi: quando mi accarezzo la cravatta, o abbottono e sbottono con velocità super sonica uno dei bottoni della camicia.

Una strana vertigine era però presente. Forse, senza rendermene conto, ero rimasto con una parte di me nella saletta di attesa, con la splendida ragazza di pochi istanti prima.

Ansia e tensione vennero comunque volatilizzate dall’ingresso del selezionatore che, con passo deciso, si avvicinò alla mia postazione presentandomi vigorosamente la mano tesa.

Mi alzai di scatto e balbettando "buon giorno, piacere" strinsi quella mano forte ma morbida e vellutata, dalla quale sporgeva un anello d’oro che incastonava una splendida perla di acqua dolce. Il tallieur rosso fuoco che indossava era piegato dalla mole impressionante dei seni, mentre il biondo dei capelli incorniciava uno splendido visino con il naso alla francese e gli scarni zigomi appuntiti.

Una bella ragazza sui trenta, era, in definitiva, l’ostacolo che si frapponeva, attraverso un presumibilmente lungo ed estenuante colloquio, fra me e un posto di lavoro.

Nulla di preoccupante comunque. Solo l’impressione che una donna in quella funzione, essendo per definizione molto più sensibile di un uomo, riesce a scoprire e mettere in luce i punti deboli dell’interlocutore quasi in modo naturale.

Pensai all’amore. Naturalmente immaginandomi anche di accarezzare il seno della selezionatrice. Ma soprattutto all’amore sfuggito e disperso: alla bella mora della saletta.

"Cominciamo subito". Disse con fermezza. "Lei conosce la nostra azienda, vero?"

Dopo un brivido risposi: "Sì, diciamo di sì. So che producete quadri elettrici per aziende ma oltre questo niente altro".

"E che altro dovrebbe sapere. Lei pensa che noi andiamo a sbandierare in giro i nostri segreti? Gli output che escono da qui sono: prodotti buoni, relazioni con la clientela improntate alla customer satisfacion e buone pratiche di comunicazione. Tutto il resto, dalla strategia alla pianificazione delle risorse è un segreto che custodiamo gelosamente, visto che contraddistingue il nostro successo".

L’esternazione meccanica della filosofia aziendale mi fece capire che la signorina, visto che non portava la fede e nemmeno altri anelli, oltre il grande anello d’oro, era o la figlia del titolare o una giovane manager assunta da poco.

La certezza delle mie sensazioni proveniva dal fatto che per proporre con tale veemenza, e in modo chiaramente mnemonico, slogan così penetranti, o si è impregnati di entusiasmo imprenditoriale ereditato o si è stati appena assunti e, di conseguenza, l’energia investita per integrarsi il prima possibile nel clima aziendale si ripercuote, plasmandole, in tutte le occasioni di comunicazione con esterni.

"Sono convinto che non esca nulla fuorché dei buoni prodotti e sarei felice di contribuire al continuo sviluppo di questi prodotti." Dissi con un pacato tono da ruffiano. Tipico comportamento di chi, pur mantenendo una certa dignità, cerca di far capire: "Se mi prendi mi spaccherò il culo…….. perché ho voglia di lavorare".

"Questo lo vedremo!" Affermò accompagnandosi con un sorrisetto compiaciuto che voleva significare un "bravo, sei spigliato………… ma stai calmo non so ancora nulla di te".

Mi squadrò ancora per qualche secondo, poi sempre con la solita decisione, cominciò a descrivermi i compiti del ruolo, l’inquadramento nell’organizzazione, il livello retributivo, ecc. Era precisa e scrupolosa nell’elencarmi tutto ma mi fece capire che quello era uno dei molti colloqui che da qualche giorno stava portando avanti.

"Allora!" Disse. "Lei crede di essere in grado di ricoprire con profitto questo ruolo?"

"Certamente. Mi sento in grado di compiere con diligenza tutte le mansioni che ha indicato. Ho una certa esperienza che sicuramente giocherà a mio favore nel periodo di ambientamento. Sarei felice di poter dare il mio contributo secondo quelle che sono le mie competenze. Direi che la motivazione a fare un buon lavoro non mi manca e sicuramente sono un tipo che lavora molto".

Mi sentivo tranquillo nell’affermare questo, dopo tutto avevo realmente una certa esperienza nel settore amministrativo e non mi spaventava affatto la lista di mansioni che la selezionatrice aveva elencato così scrupolosamente.

"Una domanda. Lei si sente competente per quello che riguarda tutto il discorso delle procedure di un sistema qualità?"

Io risposi con sicurezza citando il fatto che il posto dove lavoravo prima era certificato secondo le norme di qualità internazionali, per cui ero a conoscenza di come si porta avanti un lavoro all’interno di un’azienda con un sistema qualità funzionante.

"Ancora una cosa". Ripeté.

"Che tipo di rapporti ha avuto con i suoi superiori. Mi spiego. Erano costruttivi, basati sui risultati conseguiti, o erano strutturati in maniera diversa?"

Era la tipica domanda, molto professionale del resto, per sapere se ero o meno un guasta feste, insomma uno che ti rompe sempre le uova nel paniere.

"Erano improntati per lo più sulla correttezza reciproca. Comunque lavoravo per obiettivi e non penso di aver mai mancato il risultato":

"Ho capito". Mi interruppe. "Ma come mai ha lasciato il suo lavoro?"

"Semplicemente perché avevo voglia di fare altre esperienze, in altri contesti magari più organizzati e più grandi".

Sapevo di aver sbagliato risposta. Se ammetti di aver lasciato il lavoro per cercarne un altro ma poi ti sei ritrovato senza un posto fisso, vuol dire che manchi di organizzazione, fai le cose senza avere un quadro preciso della situazione.

Cercai di riprendermi inventando che, al momento di lasciare il vecchio lavoro, ero in trattativa con un’altra società. Purtroppo però al momento dell’assunzione questa azienda fantasma aveva avuto dei problemi organizzativi. Mi tranquillizzai pensando di aver recuperato terreno. Lei continuava a scrutarmi con fermezza.

Erano già passati una ventina di minuti da quando mi ero seduto. Cominciavo, come sempre capita in queste occasioni a trovarmi bene in quella situazione. Piano piano la tensione aveva lasciato il posto ad una certa sicurezza nel rispondere alle continue e incalzanti domande di lei. In effetti queste vertevano ora quasi esclusivamente su argomenti tecnici della mansione da ricoprire. Sapevo però che tale rilassatezza sarebbe presto finita. Di solito un colloquio che si rispetti, e quello lo era, finisce con domande tese a verificare le motivazioni al lavoro e la tenacia del candidato.

Dopo poco infatti le mie sensazioni si concretizzarono nell’affermazione della bella selezionatrice che mi esortava a descrivere le impressioni sul colloquio e sull’offerta.

"Sinceramente, sarei ben contento di poter lavorare qui". Risposi diplomaticamente, continuando poi sulla stessa falsa riga: "Mi sento in grado di ricoprire questo ruolo. Posso anche assumermi delle responsabilità di sviluppo della funzione, di questo sono certo".

"Che intende per responsabilità di sviluppo?" Disse fingendo una curiosità formale.

"Intendo che potrei contribuire a far evolvere il ruolo assegnatomi attraverso un lavoro di aggiornamento della funzione in termini di efficacia ed efficienza". Mai ero stato più vago e insensato in vita mia ma i termini "efficacia" ed "efficienza" si sposano sempre bene, da alcuni anni a questa parte, con tutte le tematiche aziendali. Mi ritenni perciò soddisfatto della risposta e rimasi in silenzio.

Seguirono almeno venti secondi di quella rigida assenza di conversazione. Di la dalla porta si sentivano i rumori delle stampanti, i passi degli impiegati. Mi sentivo vicino a loro. Vedevo tutto con gli occhi curiosi di chi vorrebbe entrare in una realtà diversa dalla sua.

"Bene, direi che mi basta". Disse compiaciuta, per se stessa naturalmente, alzandosi piano dalla sedia. Mi alzai immediatamente anch’io e ci stringemmo la mano. Mi artigliò la mano con la stessa forza di prima.

Mi spiegò, accompagnandomi alla porta, che in caso di riscontro affermativo avrei ricevuto una telefonata nel giro di pochi giorni, tre o quattro al massimo, mentre in caso negativo una lettera di ringraziamento per la disponibilità ad aver sostenuto il colloquio.

Ci congedammo con uno sguardo intenso che mi diede l’impressione di essere riuscito a far buona impressione.

Camminavo ora per il corridoio. Avevo l’aria di chi esce dall’ambulatorio del dottore dopo una visita in cui non sono stati riscontrati problemi di salute. Ero, si può dire, felice.

Passando vicino alla saletta di attesa ripensai alla mia bella ragazza mora. Forse lavorando lì avrei potuto rivederla. Mi mangiavo le mani per il fatto di non aver avuto il coraggio di attaccare discorso. Che timido del cavolo che ero.

Mi ritrovai quasi improvvisamente per l’autostrada e ancora la testa divagava sulla bella mora. All’ora di pranzo ero già a casa, fuso, con la testa in fiamme, la cravatta allentata sul collo e tanta sete.

Seguì un monotono colloquio con i miei genitori. Loro facevano domande. Io rispondevo meccanicamente ma senza mai sbilanciarmi, la scaramanzia mi impediva qualsiasi compromissione. Cominciarono così i miei quattro giorni di attesa.

Non fui mai nervoso questo devo dirlo. Più che altro cercavo di godermi un certo riposo dopo le fatiche mentali della continua ricerca di annunci affabili sui giornali, la compilazione delle lettere di presentazione e tutto il resto. Il clima di fervente agitazione nel momento della ricerca del lavoro si stava affievolendo. Aspettavo.

Con il cuore in pace passarono i primi due giorni. Mi faceva stare tranquillo la certezza che nessuna risposta sarebbe arrivata prima del terzo o quarto giorno.

Senza fare niente di speciale cominciai però a godermi in un certo senso la libertà di starmene a casa ad oziare. Mi stavo convincendo che presto avrei avuto un lavoro.

E venne così il terzo giorno. Già dalla mattina la certezza di essere ad un buon punto cominciò a lasciare il posto alla frustrazione per aver mancato l’occasione di trovare un lavoro. Cominciai ad immaginare che avessero preso qualcun altro. Mi faceva paura questo ma non potevo fare a meno di pensarci. Mi torturavo da solo. Ed era appena mezzogiorno.

Gridai al complotto quando a pranzo mio padre mi domandò se avevo ricevuto qualche risposta in merito al colloquio. Sono sicuro che lo fece senza sapere della mia tensione interna ma scorticò ugualmente e senza pietà le poche parti di cervello che ancora non erano impegnate nella mia estenuante auto punizione.

Non risposi nemmeno alla sua domanda fissandolo con cattiveria. Mio padre, da uomo di mondo, intese subito e cominciò a parlare del tempo. Si parla sempre del tempo in situazioni simili. La mamma, con la classica sensibilità femminile, aveva intuito le mie pene e fu così disponibile e dolce da impedire altri discorsi sul tema lavoro.

A proposito di donne, dopo tutto ero innamorato. Chissà dov’era adesso la ragazza mora della saletta.

Probabilmente a lavorare: cosa che io non avrei fatto per molto altro tempo. E ripresi a pensare ininterrottamente.

Il telefono non squillò quel giorno. Fui persino tentato di verificarne il funzionamento chiamando la compagnia dei telefoni ma poi mi calmai cercando di recuperare almeno un po' di autocontrollo.

Mi sforzavo di concentrarmi sulla selezionatrice e sui suoi superiori: chissà come avveniva la maturazione della decisione. Fuso e stanco arrivai alla sera.

Una birra con gli amici ricreò una minima tranquillità interiore ma ancora era tutto da vedere.

Al quarto giorno la tensione era palpabile nell’aria. Mi mangiavo le unghie, cosa che non avevo mai fatto, nemmeno da ragazzino. Fu tutto un patire. Ero esausto, stanco già a mezzogiorno.

Finalmente, però, alle due e quindici, arrivò la telefonata. Alzai la cornetta con aria disinvolta. L’ora era giusta: le comunicazioni per il personale di solito le fanno a cavallo dell’ora di pranzo.

Con voce ferma dissi: "Pronto". Una voce gracchiava dall’altra parte.

"Si. Sono io". Risposi prontamente. E l’aria divenne più respirabile, sentivo anche un dolce profumo di rose.

La sera stessa, alle 7,30, ero sotto casa di Michela, l’angelo moro che avevo visto il giorno del colloquio nella saletta. Cenai con lei e dopo facemmo l’amore sotto gli alberi di una pineta poco lontano dal mare.


Note:
1 - Abbiamo sostenuto in più occasioni che – per chi è interessato a capire come veramente funzionano le organizzazioni-  la narrazione è una importante approccio conoscitivo: vedi in Bloom Offerte di lavoro. Reperite viaggiando tra romanzi e racconti degli ultimi centocinquant'anni. Honoré de Balzac: ovvero come narrare le organizzazioni). I racconti non solo si leggono e si commentano. Si scrivono. 
Nota di Francesco Varanini.

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