BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 02/09/2002

COME MI VOGLIONO O COME DOVREI ESSERE

di Emanuele Fontana

Chi sono, che faccio, cosa voglio ma anche cosa mi piacerebbe fare.

In una tassonomia delle cose da inserire nel curriculum di un giovane laureato o diplomato si possono inserire informazioni in funzione di priorità, standard, date di riferimento ma sempre sotto un preciso meccanismo di orientamento.
Fare il curriculum è diventato un gioco divertente da quando il word processing è divenuto standard di molti giovani in cerca di impiego. Non mancano gli strumenti per suggerire strategie e risultare vincenti ma soprattutto non mancano tracce omologate su come impostare un buon curriculum.

Anche i cosiddetti form reperibili su Internet non consentono grandi manovre di personalizzazione al testo e soprattutto ai contenuti e tendono ad omologare tutti in compiti standardizzati che richiamano vaghi paesaggi tayloristici.

Ad oggi è molto più semplice scrivere un curriculum che promuoversi ed è su questo punto che vorrei concentrare l’attenzione.
Proprio perché gli strumenti a disposizione sono tutti uguali non basta più scrivere il curriculum rispettando criteri omogenei e in bella forma per avere visibilità.

Il fatto è che salvo i contenuti anche il modo di presentarli se incatenato alla logica standard dei più diffusi word processing gioca un ruolo negativo nella presentazione.

Si viene a definire un esercito di ingegneri tutti uguali, un esercito di professionisti della comunicazione tutti uguali, un esercito di amministrativi tutti rigorosamente irreggimentati su criteri standardizzati.

La scelta di un selezionatore è di conseguenza semplificata e le persone, quasi in un ritorno della logica dell’alienazione marxiana, sono tanti soldati semplici pronti a intercambiarsi nelle stesse identiche funzioni.

I knowledge workers sono più evoluti rispetto ai loro cugini della working class ma stanno andando verso una rarefazione delle proprie capacità di suscitare interesse nei cacciatori di teste. Da curriculum tutti uguali emergono manager, professional e altri tutti uguali.

Non sto parlando della automazione del lavoro di ufficio che decreta pian piano la scomparsa di figure intermedie come “il ragioniere”, patrimonio amministrativo di ogni piccola o grande azienda, ma di un vero e proprio impoverimento del modo di presentarsi che coincide con un attacco alla personalità creativa di ognuno a favore di un coacervo di pratiche identiche e intercambiabili.

Qui lo scarto fra quello che si è e quello che dovremmo essere è evidentemente un problema di forma non di contenuto ma c’è il pericolo che la forma diventi contenuto e di conseguenza sorpassi la persona.

Se sono un creativo, colto, intelligente, estroverso e provo a trovare lavoro con questi convincimenti mi scontro per forza con sistemi di promozione della persona nell’azienda che mi omologano ad altri con stesso curriculum ma differenti approcci ai problemi. Se non arrivo ad un colloquio diretto ma mi identificano solo sulla base del curriculum finisco come un anonimo numero e solo la fortuna può farmi ritornare persona, premesso che la persona che sono interessi quell’azienda.

Un lucido criterio di scrematura delle candidature non può impoverirsi al punto da rendere tutti uguali. Se si perdono di vista le persone anche dove queste producono per il fatto di essere diverse si compromette il sistema di aggiornamento dell’azienda.
Il colloquio è sempre meno frequente e viene utilizzato solo per la scelta finale fra due o tre candidati all’assunzione. Giocando con il data base si può già prima scremare anche un migliaio di pretendenti il posto ma, come ho cercato di evidenziare, con criteri arbitrari che non consentono di dare spazio alla persona.

Ci si trova così a dover scegliere fra due o tre candidati che magari hanno poco in comune o che addirittura non arrivano a rispettare appieno le caratteristiche richieste.
Ma come dovrebbe essere una vera selezione.
Forse sarebbe interessante tornare alle descrizioni approfondite. Un curriculum parlato, non sarebbe male forse un modo di far riflettere su quello che si è e su quello che si vuol fare?
Mi sembra di questo passo di avvicinarmi alla logica della società di consulenza o del consulente che promuove se stesso. Ma perché non dovrebbe essere così anche per coloro che cercano impiego e non commesse.
Perché lasciare che solo alcuni facciano di questa modalità di promozione il loro modello vincente.
Costruirsi una brochure con criteri creativi e informazioni anche ridondanti è forse più rispondente alle esigenze delle aziende e nostre che non presentare un gelido curriculum vitae su formulario standard.
Io sono un grande appassionato di jazz americano degli anni ‘60, questo può essere un vantaggio per quelle aziende che cercano un amministrativo, quale sono, ma che sappia dialogare con la filiale americana di New Orleans, guidata da un noto cultore di Miles Davis.
Magari me lo avrebbero chiesto nel colloquio ma perché non farlo sapere anche prima?
In questo modo la forma non diventa contenuto ma è il contenuto a formare le persone.

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