BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 01/03/2004

LA STRATEGIA ALLA LETTERA

di Emanuele Fontana

Il calcio è l’ultima vera, sana, impagabile passione civile del nostro paese. Non ci rimane altro, solo questo. Ventidue giocatori, arbitro e guardalinee, pubblico, atmosfera, instabilità cardiovascolare. Ogni fine settimana o per le coppe il nostro paese si riscopre passionale.
E’ perciò evidente come il calcio possa essere utilizzato come modalità di lettura del reale. Può, grazie alla sua imprevedibilità e complessità, ridare significati come la migliore delle metafore. Come la narrativa, come la poesia. Un linguaggio per descrivere quello che può sfuggire ad altre interpretazioni.
Il discorso di Berlusconi, alla fine del derby Milan-Inter è un esempio emblematico della possibilità di metaforizzare il messaggio calcistico e trarne lo spunto per altre riflessioni. Chiunque abbia a che fare con organizzazioni, grandi o piccole, ha intuito la portata devastante del messaggio. A parte la valenza opportunistica in termini di visibilità per un politico professionista, che qui non interessa approfondire, la presa di posizione sulle caratteristiche tattiche della squadra pone le basi per parlare di uno dei punti nevralgici degli studi e delle modalità di approccio consulenziale nelle organizzazioni: la delega.
E’ noto come l’apporto essenziale del vertice strategico, in tutte le sue forme (presidente, imprenditore, consiglio di amministrazione) sia quello di formulare strategie che altri (manager) devono poi realizzare. Un aspetto determinante di ogni organismo, ente, impresa, con una struttura anche minima.
Ma fin dove arriva la delega? Fin dove si spinge l’autonomia del manager rispetto a quello che viene impostato a livello di vertice strategico?
Esistono innumerevoli modelli. Forse ogni organizzazione ne ha uno proprio e, come tutti sanno, è veramente difficile codificare standard precisi. Proviamo tutti i giorni a rendere meno caotico il flusso di informazioni che permea e crea un’organizzazione. Proviamo…
Il Milan ha una politica determinata da successi passati e recenti. Un brand da difendere con la consapevolezza di essere una delle società più amate a livello italiano e mondiale. Il suo palinsesto organizzativo è impostato su criteri che vanno dalla consapevolezza di essere una società di immagine per il gruppo di Berlusconi, alla necessità di produrre un bel gioco che attesti questa vocazione, all’imprescindibile obiettivo di vincere ogni anno qualcosa per ampliare il parco “clienti” e fidelizzare quelli già acquisiti.
La codifica a livello di linee guida si basa su due assunti fondamentali, cercare di vincere prioritariamente la coppa dei campioni ogni anno e giocare partite di prestigio in tutti i tornei possibili. Il campionato diventa interessante soprattutto in funzione dei grandi match ma si può anche perderlo senza drammi.
Da notare una cinica impostazione a livello prioritariamente mediatico che travalica il concetto stesso di giocare in uno stadio di calcio. Il calcio è considerato soprattutto un prodotto televisivo. Con tutti gli annessi e connessi in termini di ritorno economico per il gruppo Berlusconi.
Sacchi, il buon Sacchi, con le sue idee innovative e la grande voglia di stupire il mondo ha saputo per primo soddisfare la fame mediatica della dirigenza rossonera. C’è da dire che ha avuto a disposizione una squadra stellare, che avrebbe stravinto campionati e coppe giocando anche in un altro modo, ma per le caratteristiche della mission aziendale ha rappresentato quello che da un lustro il Milan berlusconiano stava cercando e non aveva ancora trovato. Un trapattoni avrebbe potuto vincere come e più di Sacchi ma con quale ritorno di immagine? Partite noiosissime, giocate con due tornanti e un punta. Vinte con merito e abnegazione ma purtroppo senza concedere ninte allo spettacolo inteso come Berlusconi e i suoi lo intendono. Soprattutto il Trap, qui assunto a prototipo della tradizione calcistica italiana, avrebbe creato problemi a livello di inquadrature. E’ provato che in TV rende meglio un squadra che gioca in trenta metri e attacca sempre piuttosto che una compagine che fa correre le ali, pratica il passaggio lungo, segna e poi difende con ordine il risultato.
Trapattoni o altri bravi allenatori come lui sarebbero incorsi in un innegabile conflitto con la dirigenza. Praticano un altro calcio. Giusto di conseguenza non averli mai nemmeno cercati.
Si deve far giocare il Milan in un certo modo, perché la dirigenza ha giustamente impostato una strategia precisa e questa deve essere rispettata.
L’esecutore della delega rispetto alle richieste del vertice, il manager in azienda, l’allenatore in un squadra di calcio, deve rispettare il vincolo strategico con margini di autonomia che, per il bene di tutti, sono abbastanza ampi ma che trovano oggettivazione in una strategia superiore. Questa a sua volta non scende nel dettaglio propone un piano ideale di riferimento dentro il quale si muove l’organizzazione.
E’ l’esecutore della politica aziendale che decide quali obiettivi porre ai propri collaboratori, quali strade percorrere perché il risultato sia efficace e organico a quello che viene dell’alto. Ci deve essere una fiducia, misurabile con criteri affidabili, ma che implica nel momento stesso della sua espressione margini di discrezionalità. La stessa dinamica si ripete scendendo dal vertice alla base dell’organizzazione ma via via che si va verso il livello inferiore è anche evidente come la delega divenga meno ampia. Intervengono poi modalità di controllo verticali o orizzontali a seconda dei casi e del lavoro da svolgere, fino ad una utile standardizzazione delle procedure.
Quando la dinamica della delega non funziona diventa un problema per tutta l’organizzazione. Perché non si misura più efficacemente il risultato e perché si crea una confusione nell’attribuzione delle responsabilità. A questo punto viene meno la fiducia del vertice strategico rispetto ai manager ma anche degli addetti rispetto ai livelli superiori, cioè ancora i manager.
E’ paradigmatico il fatto che contribuendo a mitigare i margini di discrezionalità si forniscano anche alibi a coloro che devono svolgere la delega. L’organizzazione si sfilaccia in un caotico intreccio di alibi, mancate assunzioni di responsabilità, aree di incertezza che alla fine paralizzano il lavoro.
Vale una volta di più per il calcio dove imporre un certo gioco a priori a scapito di una analisi tecnica della situazione contingente (gli avversari di turno) implica l’accettazione di livelli di incertezza ancora più profondi e paralizzanti.
Berlusconi, da uomo di azienda, conosce le dinamiche paralizzanti della gestione inadeguata della delega. Avrà sicuramente una pletora di consulenti pronti a scrivere pagine e pagine sui flussi delle decisioni in azienda. Perché allora ha detto ciò che ha detto? Perché ha frainteso con tale leggerezza il suo ruolo di proprietario e rappresentante, lo ha ribadito con forza, del vertice strategico?
Evidentemente una società di calcio è qualcosa di più di un’organizzazione così come la intendiamo. O meglio per Berlusconi è qualcosa di più. Una sorta di amore viscerale, irriverente rispetto a qualsiasi vincente allenatore, lo lega al Milan, tanto da fargli commettere un errore madornale. Lo straforma in quel piccolo imprenditore di provincia che ha sempre detto di non essere. Come il piccolo produttore di moto (esempio mio, assolutamente fantasioso) che, a capo di una piccola ditta, ferma la produzione perché dalle sue officine è uscito un modello che, pur registrando un clamoroso successo di vendite, non piace a lui. Ancelotti, che ha avuto la delega per far vincere la sua squadra, giocando bene e dando spettacolo, non può venir discusso perchè non gioca con due punte. La delega non si basa sulla obbligatorietà di giocare con due punte, altrimenti ci sbagliamo tutti. Vediamo a questo punto come lo stesso Ancelotti leggerà la sua delega.
Alla lettera o con il proprio sacrosanto margine di discrezionalità.
Sono curioso di vedere come finisce. In termini organizzativi e in termini calcistici.

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