LA STRATEGIA ALLA LETTERA
Il calcio è
l’ultima vera, sana, impagabile passione civile del nostro paese. Non
ci rimane altro, solo questo. Ventidue giocatori, arbitro e guardalinee, pubblico,
atmosfera, instabilità cardiovascolare. Ogni fine settimana o per le
coppe il nostro paese si riscopre passionale.
E’ perciò evidente come il calcio possa essere utilizzato come
modalità di lettura del reale. Può, grazie alla sua imprevedibilità
e complessità, ridare significati come la migliore delle metafore.
Come la narrativa, come la poesia. Un linguaggio per descrivere quello che
può sfuggire ad altre interpretazioni.
Il discorso di Berlusconi, alla fine del derby Milan-Inter è un esempio
emblematico della possibilità di metaforizzare il messaggio calcistico
e trarne lo spunto per altre riflessioni. Chiunque abbia a che fare con organizzazioni,
grandi o piccole, ha intuito la portata devastante del messaggio. A parte
la valenza opportunistica in termini di visibilità per un politico
professionista, che qui non interessa approfondire, la presa di posizione
sulle caratteristiche tattiche della squadra pone le basi per parlare di uno
dei punti nevralgici degli studi e delle modalità di approccio consulenziale
nelle organizzazioni: la delega.
E’ noto come l’apporto essenziale del vertice strategico, in tutte
le sue forme (presidente, imprenditore, consiglio di amministrazione) sia
quello di formulare strategie che altri (manager) devono poi realizzare. Un
aspetto determinante di ogni organismo, ente, impresa, con una struttura anche
minima.
Ma fin dove arriva la delega? Fin dove si spinge l’autonomia del manager
rispetto a quello che viene impostato a livello di vertice strategico?
Esistono innumerevoli modelli. Forse ogni organizzazione ne ha uno proprio
e, come tutti sanno, è veramente difficile codificare standard precisi.
Proviamo tutti i giorni a rendere meno caotico il flusso di informazioni che
permea e crea un’organizzazione. Proviamo…
Il Milan ha una politica determinata da successi passati e recenti. Un brand
da difendere con la consapevolezza di essere una delle società più
amate a livello italiano e mondiale. Il suo palinsesto organizzativo è
impostato su criteri che vanno dalla consapevolezza di essere una società
di immagine per il gruppo di Berlusconi, alla necessità di produrre
un bel gioco che attesti questa vocazione, all’imprescindibile obiettivo
di vincere ogni anno qualcosa per ampliare il parco “clienti”
e fidelizzare quelli già acquisiti.
La codifica a livello di linee guida si basa su due assunti fondamentali,
cercare di vincere prioritariamente la coppa dei campioni ogni anno e giocare
partite di prestigio in tutti i tornei possibili. Il campionato diventa interessante
soprattutto in funzione dei grandi match ma si può anche perderlo senza
drammi.
Da notare una cinica impostazione a livello prioritariamente mediatico che
travalica il concetto stesso di giocare in uno stadio di calcio. Il calcio
è considerato soprattutto un prodotto televisivo. Con tutti gli annessi
e connessi in termini di ritorno economico per il gruppo Berlusconi.
Sacchi, il buon Sacchi, con le sue idee innovative e la grande voglia di stupire
il mondo ha saputo per primo soddisfare la fame mediatica della dirigenza
rossonera. C’è da dire che ha avuto a disposizione una squadra
stellare, che avrebbe stravinto campionati e coppe giocando anche in un altro
modo, ma per le caratteristiche della mission aziendale ha rappresentato quello
che da un lustro il Milan berlusconiano stava cercando e non aveva ancora
trovato. Un trapattoni avrebbe potuto vincere come e più di Sacchi
ma con quale ritorno di immagine? Partite noiosissime, giocate con due tornanti
e un punta. Vinte con merito e abnegazione ma purtroppo senza concedere ninte
allo spettacolo inteso come Berlusconi e i suoi lo intendono. Soprattutto
il Trap, qui assunto a prototipo della tradizione calcistica italiana, avrebbe
creato problemi a livello di inquadrature. E’ provato che in TV rende
meglio un squadra che gioca in trenta metri e attacca sempre piuttosto che
una compagine che fa correre le ali, pratica il passaggio lungo, segna e poi
difende con ordine il risultato.
Trapattoni o altri bravi allenatori come lui sarebbero incorsi in un innegabile
conflitto con la dirigenza. Praticano un altro calcio. Giusto di conseguenza
non averli mai nemmeno cercati.
Si deve far giocare il Milan in un certo modo, perché la dirigenza
ha giustamente impostato una strategia precisa e questa deve essere rispettata.
L’esecutore della delega rispetto alle richieste del vertice, il manager
in azienda, l’allenatore in un squadra di calcio, deve rispettare il
vincolo strategico con margini di autonomia che, per il bene di tutti, sono
abbastanza ampi ma che trovano oggettivazione in una strategia superiore.
Questa a sua volta non scende nel dettaglio propone un piano ideale di riferimento
dentro il quale si muove l’organizzazione.
E’ l’esecutore della politica aziendale che decide quali obiettivi
porre ai propri collaboratori, quali strade percorrere perché il risultato
sia efficace e organico a quello che viene dell’alto. Ci deve essere
una fiducia, misurabile con criteri affidabili, ma che implica nel momento
stesso della sua espressione margini di discrezionalità. La stessa
dinamica si ripete scendendo dal vertice alla base dell’organizzazione
ma via via che si va verso il livello inferiore è anche evidente come
la delega divenga meno ampia. Intervengono poi modalità di controllo
verticali o orizzontali a seconda dei casi e del lavoro da svolgere, fino
ad una utile standardizzazione delle procedure.
Quando la dinamica della delega non funziona diventa un problema per tutta
l’organizzazione. Perché non si misura più efficacemente
il risultato e perché si crea una confusione nell’attribuzione
delle responsabilità. A questo punto viene meno la fiducia del vertice
strategico rispetto ai manager ma anche degli addetti rispetto ai livelli
superiori, cioè ancora i manager.
E’ paradigmatico il fatto che contribuendo a mitigare i margini di discrezionalità
si forniscano anche alibi a coloro che devono svolgere la delega. L’organizzazione
si sfilaccia in un caotico intreccio di alibi, mancate assunzioni di responsabilità,
aree di incertezza che alla fine paralizzano il lavoro.
Vale una volta di più per il calcio dove imporre un certo gioco a priori
a scapito di una analisi tecnica della situazione contingente (gli avversari
di turno) implica l’accettazione di livelli di incertezza ancora più
profondi e paralizzanti.
Berlusconi, da uomo di azienda, conosce le dinamiche paralizzanti della gestione
inadeguata della delega. Avrà sicuramente una pletora di consulenti
pronti a scrivere pagine e pagine sui flussi delle decisioni in azienda. Perché
allora ha detto ciò che ha detto? Perché ha frainteso con tale
leggerezza il suo ruolo di proprietario e rappresentante, lo ha ribadito con
forza, del vertice strategico?
Evidentemente una società di calcio è qualcosa di più
di un’organizzazione così come la intendiamo. O meglio per Berlusconi
è qualcosa di più. Una sorta di amore viscerale, irriverente
rispetto a qualsiasi vincente allenatore, lo lega al Milan, tanto da fargli
commettere un errore madornale. Lo straforma in quel piccolo imprenditore
di provincia che ha sempre detto di non essere. Come il piccolo produttore
di moto (esempio mio, assolutamente fantasioso) che, a capo di una piccola
ditta, ferma la produzione perché dalle sue officine è uscito
un modello che, pur registrando un clamoroso successo di vendite, non piace
a lui. Ancelotti, che ha avuto la delega per far vincere la sua squadra, giocando
bene e dando spettacolo, non può venir discusso perchè non gioca
con due punte. La delega non si basa sulla obbligatorietà di giocare
con due punte, altrimenti ci sbagliamo tutti. Vediamo a questo punto come
lo stesso Ancelotti leggerà la sua delega.
Alla lettera o con il proprio sacrosanto margine di discrezionalità.
Sono curioso di vedere come finisce. In termini organizzativi e in termini
calcistici.