BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 21/06/2004

LA JUVENTUS DI PLATINI

di Emanuele Fontana

Una squadra di calcio è senza dubbio un efficace simulatore di organizzazione aziendale. E' suddivisa per funzioni, persegue obiettivi, e li cambia strada facendo, è complessa, è interconnessa stabilmente con l'ambiente circostante. Ogni partita è il mercato a breve termine, la nicchia, semplicemente l'ambiente contingente; ha i suoi tempi, le sue modalità di gestione, richiede una esplicazione tattica delle impostazioni strategiche. Un campionato, una coppa, un torneo in genere è il mercato di riferimento che prevede una strategia complessiva e vive sulla gestione di variabili endogene ed esogene composte con l'interazione di tutti gli stakeholders.

Mi piace tener presente il paragone fra mercato e gioco del calcio, squadra professionistica e azienda perché amo il mio lavoro, che non riguarda il mondo del calcio, e amo il gioco che a livello planetario muove più interessi, anima più persone e commuove i più sensibili fra coloro che lo seguono.

C'è anche un altra cosa che accomuna, oltre la metafora, questi due mondi: se, come dicono, il calcio non è roba da intellettuali, beh, nemmeno l'azienda, fino ad ora è sembrato esserlo.

“Poche chiacchiere e più fatti, voglio il risultato”, dichiarano incontestabilmente i piccoli e medi imprenditori italici, motore e freno dell'Italia economica.

“Poche chiacchiere e più fatti, voglio il risultato”, proclamano i presidenti delle squadre di calcio più titolate d'Italia.

Insomma c'è una comunanza di vedute che lascia poco spazio all'analisi oggettiva, la speculazione filosofica e, perché no, gli slanci poetici. Mondi rozzi diranno alcuni.

Ora, se l'azienda è comunque inserita in un processo di affrancamento dalla sua immagine triviale, utilitaristica, verso una accezione socialmente idonea a farne un perno dello sviluppo economico e soprattutto culturale del paese. Ci sono tentativi che addirittura risalgono agli anni '60, con la mitica Olivetti di Adriano. Il calcio invece non è stato ancora digerito come modello culturale da diffondere. Si, si parla di educazione allo sport ma quando si cita il calcio come un'occasione fondamentale per diffondere i valori sportivi e altri concetti non secondari, secondo me perlomeno, tutti cominciano a storcere il naso. Sport più elitari come l'equitazione, il tennis, l'atletica, il nuoto sono considerati gli unici portatori dei valori universali di lealtà, sacrificio, tenacia.

Il calcio è troppo di massa per rappresentare un esempio adattabile a contesti più alti. Il calciatore stesso, e non è colpa del calciatore naturalmente, è troppo rozzo e imbelle per poter essere considerato un atleta puro e positivo, una cassaforte di valori universali come un corridore dei 5 mila metri, uno sciatore o un tuffatore. Si muove tropo spesso la critica al fatto che guadagnano troppo, ed è vero, che sono ignoranti, e in parte è vero, che il calcio è troppo triviale e violento, ed è una sacrosanta cavolata.

Il calcio è sport di squadra fra i più difficili, perchè si gioca in undici, su un campo di cento metri. Chi lo gioca deve conoscere regole complesse, avere una approccio con la disciplina, conoscere le dinamiche di gruppo, capire gli stati d'animo di coetanei di altre culture e nazionalità. Insomma deve compiere sforzi organizzativi che negli altri sport non esistono nemmeno. Il calcio, in più, è una sacrosanta passione civile del nostro paese e come tale deve finalmente essere considerata una cosa seria. Non dimentichiamoci, fra l'altro, che tre fra le più importanti società professionistiche in Italia sono quotate in borsa, una cosa che nel nostro paese non è roba da poco.

Voglio cercare di riabilitare il calcio in termini culturali, proporne una lettura critica che vada oltre il risultato del campo e le chiacchiere giornalistiche, proporlo insomma come metafora di un altro mondo, l'azienda, in modo da renderlo esempio positivo e matrice di un dibattito che spero non si esaurisca in queste righe.

Per provare a fare questa operazione non potevo che cominciare da una squadra leggendaria e dalla sua “scientifica” organizzazione.

La prima Juventus di Platinì, quella che imperversò in Italia e in Europa nella stagione 1982-83 era un team perfetto sotto molti punti di vista. Perfetto nell'impostazione difensiva, perfetto nell'organizzazione del centrocampo, perfetto in attacco, dove svettava un trio incredibile formato da Rossi, Bottega e appunto Platinì. Boniek, grande ala era un spina nel fianco degli avversari ma più che una punta poteva essere considerato una mezza punta di manovra.

Una formazione razionale che va analizzata nel profondo proprio per la sua articolazione scientifica. Ogni uomo posizionato da un Trap. Quarantenne sul campo verde svolgeva un compito, inserito i una funzione progettata con la massima cura.

Zoff era il portiere e il responsabile di reparto delle difesa. Gentile aveva un compito ingrato quanto esaltante: fare a pezzi il primo attaccante avversario. Cabrini difendeva ma poteva scorrazzare sulla fascia sinistra, dove Boniek dava una mano persino in marcatura dell'avversario diretto.

Al centro svettava Brio mentre come ultimo baluardo prima del portirone c'era Scirea. Una difesa semplicemente perfetta. Rodata nelle più calde arene d'europa era un esempio perfetto di organizzazione scientifica. Ogni uomo (buoe nell'accezione Tayloristica) aveva una mansione precisa, un compito da rispettare fin nei minimi particolari. Stessa dinamica al centro del campo, con Furino (o Bonini) Tardelli e il buon Boniek. Dell'ultimo ho già detto, per quanto riguarda gli altri c'è sottolinearne la incredibile e mai doma volontà, l'abnegazione al ruolo e al sacrificio. Altri due formidabili formidabili tasselli di un ingranaggio perfetto.

Davanti Rossi proponeva, da bravo capo venditore, un quid di soluzioni alternative per permettere la fruizione di spazi ai compagni. Bottega, non sena fatica, era il suo ultimo anno in bianconero, ricamava dribbling sulla fascia e smistava all'occorrenza di testa. Anche il moderno Achille, l'uomo della provvidenza, Platinì, al quale tutti riconoscevano venerazione, non si discostava, a differenza di quello che credono in molti, dalla ferrea logica dell'organizzazione scientifica della squadra. Aveva la libertà dovuta ad un creativo ma era pur sempre un uomo della squadra, uno che svolgeva un compito per gli altri. Grazie a Bonik faceva qualcosa in più ma sempre all'interno di un sistema di controllo di gestione che prevedeva risparmi di energie (cioè abbassamento dei costi produttivi). Non di rado si vedevano applicati i concetti che poi negli anni '80 si di trovavano nella aule di formazione di mezza Italia: modelli di marketing strategico.

Ogni partita prevedeva uno studio approfondito della concorrenza, il rodaggio dei meccanismi di aggressione del mercato, verifiche delle potenzialità dell'offerta e monitoraggio continuo del clima del mercato. In pratica la Juventus studiava l'avversario nei primi 15 minuti, scaldava i suoi attaccanti con i lanci di Platinì, il quale provava anche qualche punizione nei successivi minuti prima della fine del primo tempo. Poi se andava in vantaggio si difendeva con ordine, verificando la potenzialità della propria offerta e con l'esperienza dei suoi “vecchi” migliori, gestiva il clima della partita spegnendo dove necessario le velleità dell'avversario e impostando, solo nei momenti topici micidiali contropiedi. Se non passava in vantaggio ma beccava un gol, la tattica mutava in un intelligente riposizionamento dell'offerta. Sapevano che la partita non finisce che dopo il novantesimo.

Un eccellente esempio di principio tayloristico applicato al calcio. O un eccellente esempio organizzativo da esportare in azienda. Funzioni e compiti, responsabilità e delega, monitoraggio e iniziativa. Fortuna, come componente non secondaria del proprio operare in partita e in campionato, come una vera azienda nel suo mercato.

A questo punto però verrebbe da dire: ma non ha vinto niente quell'anno. Ha portato a casa una pesante sconfitta dalla finale di Coppa dei Campioni ad Atene contro quel maledetto Amburgo e lasciato lo scudetto ad una bellissima Roma. Semmai ha vinto la coppa Italia ma sappiamo che in Italia conta poco.

Beh, nella vita, nello sport, nel mondo economico, non si vince sempre, per forza. Fortunatamente forze non c'è un modello perfetto. Si tenta, ci si avvicina. Esistono strade che ti portano lontano, quasi all'obiettivo ma poi lo devi rincorrere oltre il punto nel quale pensavi di raggiungerlo. Oppure lo perdi definitivamente.

Ma nella vita, nel calcio, nel mondo delle aziende chi dice che l'obiettivo non possa essere riposizionato, riletto alla luce di altre variabili. Non si può raggiungere la perfezione e forse nemmeno cercarla. Si può provare a fare del nostro meglio.

E' già un obiettivo. Io piansi milioni di lacrime la sera che la Juventus perse contro l'Amburgo ma poi comincia a pensare alla partita che la Juve aveva vinto poche settimane prima a Birmingham per 2 a 1 contro la fortissima e temutissima Aston Villa.

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