BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 05/07/2004

LA BELLEZZA ORGANIZZATIVA DEL CALCIO

di Emanuele Fontana

Il calcio è uno sport difficile. Da capire, basta guardare uno o più programmi ad esso dedicati sulle TV nazionali: si parla di tutto fuorché della partita. Da interpretare, non sappiamo mai fin dove può arrivare l'analogia con la vita, il lavoro, la poesia. A certi livelli diviene un paradosso del nostro tempo, perché è gestito come una associazione parrocchiale ma è un business planetario. Se lo si guarda attentamente ci si accorge che è uno sport unico, dove la componente atletica è secondaria. Una volta un allenatore mi disse che rispetto agli altri sport c'è una differenza fondamentale. La corsa, in atletica per esempio, è il movimento fondamentale, l'essenza della prestazione. Nel calcio si corre abbastanza forte e lo si deve fare con perizia ma quando si è finito lo scatto e si è giunti sulla palla bisogna cominciare a giocarla. Cioè non si è ancora fatto niente. Se ci si pensa questa è una constatazione applicabile anche ad altri sport ma in nessuno di questi si gioca in undici, su un campo lungo più di cento metri e largo non meno di settanta. Poi ci sono due porte larghe quanto tre uomini distesi e alte come un uomo e mezzo.

Per esprimersi c'è più spazio ma di conseguenza è anche difficile colmarlo questo spazio. In un campo di calcio ci sta tutto. Dalla tattica alla grinta, dalla classe alla vigliaccheria, dalla violenza alla dolcezza.

La formazione di un calciatore risente di questa complessità. Non basta dire che solo uno su diecimila ragazzi che giocano a calcio da bambini riesce a diventare professionista e perciò la formazione vale solo per quell'individuo fortunato e dotato. C'è da considerare che gli altri novemilanovecentonovantanove bambini che sognano con un pallone fra i piedi ricevono nozioni comportamentali, suggerimenti, spiegazioni strategiche, tattiche, morali ed educative in senso lato che valgono per tutto il resto della loro vita. In un paese come il nostro dove due bambini su tre cominciano a praticare il calcio dall'età di sei anni non possiamo non tenerne conto.

Vale l'aspetto negativo naturalmente. Il calcio può essere veicolo di comportamenti antisociali, strumenti di repressione, “oppio dei popoli”. Ma vale indubbiamente anche l'aspetto positivo. Come in tutte le dinamiche sociali. Tutte le agenzie di socializzazione che operano a livello secondario rispetto alla famiglia contengono elementi negativi e positivi. Il calcio, come sport nazionale, e di più unica passione civile di massa del nostro tempo, è ne più ne meno responsabile degli altri ambienti di socializzazione. Capisco che poi si vedono gli ultrà. Ci si accorge delle immense risorse dedicate ogni domenica di campionato alla repressione di comportamenti violenti negli stadi e si fa due più due arrabbiandoci, giustamente. Ma è pur vero che se accade un gran casino sia giocando a Napoli piuttosto che a Roma o a Milano non è colpa solo del pallone. C'è qualcosa di più profondo un malessere che non può essere interpretato con criteri elementari legati alla percezione dell'accaduto.

Formare alla tolleranza, al rispetto, all'altruismo, alla civile convivenza attraverso lo schema giocoso di una pratica sportiva è impresa difficile ma è più facile farlo rispetto ad altri contesti. Lo sport in questo senso è un medium eccellente. Aggiungere a questo una formazione sulla tattica di gioco, lo stare insieme ad altri, il gestire le risorse in comune complica inevitabilmente l'impresa ma è altrettanto vantaggioso per le analogie che si possono mettere in campo.

Il calcio è inserito in una società aperta ma spettacolarizzata, in un sistema consumistico vertiginoso che prende, consuma e getta via tutto in poco tempo. Rispetto alle altre pratiche sportive soffre e amplifica questo stato di cose. E' lo sport principale, la settima industria del paese, non può sottrarsi a questo gioco. Ma questo non può limitarne il messaggio positivo e ridurne la potenzialità educativa.

Ricordo ancora con tenerezza che a dodici anni mi credevo un calciatore maturo. Aspettavo da un momento all'altro la chiamata da una società importante e allora mi atteggiavo a divo scimmiottando i calciatori che vedevo in televisione. Sembra che parlassi davanti alle telecamere ogni volta che un amico o un parente mi chiedeva come era andata la partita. Allo stesso tempo però sapevo quale era il valore dell'amicizia, gestivo le mie relazioni in gruppo decisamente meglio dei miei coetanei non calciatori, vivevo la bellezza di un gesto tecnico, e non è cosa da poco, con la sensibilità necessaria a leggere una poesia.

Se da un lato ero un “fighetto” dall'altro però ero un individuo maturo per le relazioni sociali e sapevo quale era il loro valore. Fortunatamente poi crescendo ha prevalso la seconda caratteristica e “il fighetto” è rimasto un ricordo di gioventù. Altri non sono stati fortunati come me. Sono rimasti imbrigliati in un'aurea di divismo che non li ha fatti crescere. Questa e solo questa può essere la responsabilità di un sistema di formazione gestito da volontari poco attrezzati. Ma ancora il calcio in se non c'entra niente.

Dicevo della formazione affidata a volontari. Gente che ha praticato il calcio per anni. Ha vissuto le partite a livelli dilettantistici, ha sofferto tifando le quadre professionistiche. Gente che ama il calcio, lo respira, lo mangia, lo gusta con gioia e che si prodiga per insegnarlo. Non è impresa facile senza una formazione al formare. Ma d'altra parte, e qui è un altro punto a favore di questo mondo, la struttura del gioco in se, che dipende dal collettivo ma si affida spesso alla creatività del singolo, concede al calcio quella base sufficiente di irrazionalità che lo rende complesso ma accessibile a tutti. Ognuno insomma si può permettere di dire ciò che vuole, poi arriva Maradona e stravolge tutto.

Formare in fondo significa costringere, applicare schemi fissi ad un gruppo. Nelle scuole di calcio si forma alla vita, all'organizzazione, alla strategia ma poi arriva un genio come Maratona e capisci che il calcio come la poesia, è difficile da capire, da misurare, da programmare ma è bello per questo. Naturalmente si può vivere tranquillamente senza anche senza il calcio o anche senza la poesia.

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