BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 04/07/2011

ERO CONVINTO DI ESSERE UNA PUNTA

di Emanuele Fontana

Non sempre il ruolo che dobbiamo ricoprire nel  mondo del lavoro è in linea con l’idea che di quel ruolo ci siamo fatti. Le definizioni artificiose proposte in ogni settore dell’organizzazione hanno spesso l’effetto di riempire spazi sull’organigramma o su biglietti da visita senza che l’interprete del ruolo sia pienamente consapevole di quello che deve fare o come debba svolgere la propria attività. Come quando si è convinti di poter ricoprire un ruolo in mezzo ad un campo di calcio pur non avendo pienamente le caratteristiche adatte per svolgere quel compito.   

Gli esordi
A distanza di oltre 20 anni ho cominciato a comprendere il motivo del mio fallimento nel mondo del calcio. Me ne ero già fatto una ragione all’epoca – a scanso di equivoci dichiaro subito che ho vissuto lo stesso in modo positivo tutte le mie esperienze di vita - tuttavia oggi sono consapevole di non aver continuato a giocare ad alti livelli soprattutto perché non fui capace di capire in tempo il mio vero ruolo. La mia colpa maggiore è quella di aver ignorato per tanti anni un giudizio tecnico di allora che invece mi sembra, oggi, illuminante.
La sentenza, per così dire, mi fu sbattuta in faccia da un allenatore più o meno famoso (nel senso che fu più famoso come giocatore che non come allenatore), il quale senza mezzi termini mi disse: “Sbagli tutto. Credi di essere una punta perché sai dribblare e hai un tiro imprevedibile, ma non sei una punta. Sei una mezzala e da mezzala devi giocare”. 
Ero un ragazzo, troppo giovane e troppo presuntuoso per dare ascolto ad un consiglio simile. E di fatti non ho combinato nulla nel mondo del calcio.
Ho fatto parte di squadre importanti solo per pochi anni o mesi. Solo nei settori giovanili. Così ho vissuto solo marginalmente un mondo, che non è poi così povero di spirito come molti immaginano, del quale mi sarebbe piaciuto essere parte. 
Ho visto altri diventare calciatori provenendo da quelle stesse compagini giovanili. Spesso quei futuri protagonisti del pallone erano in panchina quando io scorrazzavo sul campo. Ricordo l’antipatia per uno che è diventato un campione. Era molto più grosso di me, me le prometteva sempre, ma non mi prendeva mai. L’antipatia è rimasta anche se oggi comunque lo devo apprezzare per ciò che ha fatto. 
Io non ho mai calcato un campo di serie A ne tanto meno ho esordito in un campionato professionistico. Ci sono solo andato vicino, lambendo il campo, magari assaporando l’ardire dell’arena infuocata da raccattapalle o dalla panca.
Ho poi girovagato nelle serie dilettantistiche, anche a buon livello, lasciando perdere tutto a 24 anni, convinto di non poter più raggiungere certi livelli perché in possesso di un fisico non adatto ad un calcio così aggressivo e atletico.
Quando, l’altro giorno, un vecchio campione, nonché vecchissimo allenatore, mi ha rivisto in un bar del centro mi ha salutato dicendomi: “Eri un gran giocatore. Peccato”.  

La carriera
Negli anni, occupandomi di organizzazioni più o meno complesse, e soprattutto approfondendo questa mia pratica con tanta e tanta teoria (sono sempre convinto che non ci sia miglior pratica di una buona teoria)  mi sono ricordato della sentenza e ho più volte percepito il disagio che ho finalmente messo a fuoco, con la giusta criticità e la serenità dell’età matura.
Effettivamente ho sempre avuto un dribbling secco. Cioè, riuscivo a far passare il pallone da qualsiasi pertugio (gambe degli avversari) non facendolo mai allontanare dal mio piede per più di 20 centimetri. Quello che è importante è che lo facevo e lo faccio ancora in velocità. E questo nel gioco del calcio conta qualcosa. Di piede ne avevo uno solo, questo è vero, ma tuttavia bastante a fare certe cose.
Inoltre la mia caratteristica principale consisteva nel tirare in porta da qualsiasi posizione. Cosa anch’essa di indubbio pregio. Decisamente una iella per qualsiasi portiere.
Forte di queste due cose ho sempre giocato da punta. Prima a destra di un ipotetico tridente - a quei tempi non vi era ancora la sbornia da Zona e si ragionava di pallone in termini di ruolo: libero, stopper, ala, mezzala, centravanti – poi al centro e infine a sinistra. Sinceramente gli anni più duri sono stai quelli al centro dell’attacco. Non c’era partita o allenamento che non tornassi a casa tormentato dai dolori per i troppi calcioni incassati. Ho lasciato per strada anche qualche dente ma questo è un altro discorso.
In posizione di ala in effetti facevo le cose migliori. Grazie al dribbling e al fatto di saper crossare riuscivo a creare sempre superiorità in una zona del campo nevralgica e a servire i compagni (meno spesso) o cercare la porta (molto spesso).
Mi consideravo e mi consideravano a tutti gli effetti una punta. Uno che tira in porta e segna. Nessuno però si peritava del fatto che non sapessi colpire di testa e soprattutto non fossi in grado di reggere l’urto di due giocatori (libero e stopper appunto) che solitamente mi sovrastavano per età, peso e forza.
Ero troppo presuntuoso per vedermi in un ruolo diverso dal finalizzatore. La voglia di essere al centro della scena, condurre da protagonista unico il palco mi ha sempre condannato a vedermi come ala. Addirittura più spesso come prima punta. Quello che per intenderci la mette dentro e va a farsi acclamare.
Per fare un esempio abissalmente fuori portata per me (loro sono stati davvero bravi) non avevo le caratteristiche fisiche di una Vieri per svettare in mezzo ad un nugolo di avversari o sfondare la porta calciando da lontano. Ero e sono un fuscello al confronto con lui. Non sono mai riuscito a difendere la palla con il fisico, io la difendevo con il piede: stava tutto qui l’errore.
Non avevo e non ho nemmeno i limiti tecnici di un Inzaghi, che abbinati alla sua velocità e alla sua agilità anche nel colpire di testa lo hanno trasformato in una perfetto finalizzatore. Io ero e sono molto più tecnico e da tecnico ho sempre condotto il mio gioco. Palla al piede e testa alta. Non sono mai riuscito ad essere opportunista in quanto propenso a “vedere” la giocata.   
Fatto sta che con il passare degli anni, l’aumento del tatticismo, l’aumento della fisicità ma anche della velocità ho perso il vantaggio della tecnica e mi sono ritrovato con un pugno di mosche in mano. In pratica ho visto altri meno dotati di me diventare calciatori veri (per calciatori veri intendo gente che ha fatto il professionista per qualche anno, indipendentemente dalla serie) mentre io ho miseramente fallito ritrovandomi, come detto, a trottare sui campi dilettantistici senza voglia e senza cuore.
Devo ammettere che nutro grande rispetto per chi continua a sudare part time su un campo da calcio per tutta la settimana per poi mettere a frutto quel lavoro nella domenica pomeriggio di fronte a 15 spettatori circa. Con il vento, con il freddo, quasi gratuitamente, ci vuole passione per giocare nei tornei di Prima Categoria e Promozione.
I più dotati magari mettono da parte qualche soldo navigando fra Eccellenza e Serie D.
Allenandoti bene, con serietà, per tre quattro giorni a settimana si riesce a stare al passo dei migliori. Sempre part time naturalmente per evitare a 35 anni di ritrovarsi disoccupati e senza fondi.
Io ero deluso, troppo deluso per tirar fuori la passione o mettermi ad allenarmi per giocare al massimo in Serie D. Fortunatamente, sta qui il salvataggio, ho sempre avuto voglia di studiare e conoscere, fino alla laurea e al Dottorato di Ricerca.   
 
La consacrazione
Essere fuori ruolo è un po’ come essere sotto stress. Non te ne accorgi: perché se te ne accorgessi non saresti sotto stress ma sulla via della guarigione. Quando hai coscienza di essere stato sotto stress non lo sei più e analogamente quando sei lontano da un ruolo ti puoi accorgere di essere stato fuori ruolo.
L’effettiva presa di distanza dalla condizione e dalle cose che ti circondano chiariscono una posizione, ti spiegano se e come eri fuori ruolo. Prima di questo momento solo un’altra persona, con scienza o coscienza, può dirti che sei sotto stress o che effettivamente sei fuori ruolo. Vale nelle organizzazioni, come nello sport, come nella vita di tutti i giorni. In un parallelismo di sensazioni che da sempre accompagna la vita di tutti noi.
Divenire consapevoli di essere stati fuori ruolo scatena differenti reazioni, legate in particolar modo alla consapevolezza, anche qui vera o presunta, di aver svolto bene o male il compito assegnato.
A chi reagisce con assoluta indifferenza si contrappone chi interpreta il fallimento con grande frustrazione. Chi non si rassegna ad essere stato per un po’ di tempo o per molto tempo in una condizione presumibilmente ottimale ma in realtà fortemente deficitaria sotto gli aspetti più disparati.
In riferimento alle categorie organizzative nelle quali ci si muove quotidianamente, oggi anche fuori dalle organizzazioni strutturate, è facile trovare esempi lampanti e ricondurre il ragionamento a schemi ben definiti.
Venditori che sono stati per anni intrappolati in ruoli di controllo e verifica di risultati di altri. O peggio in ruoli di mera consuntivazione. Analogamente menti analitiche costrette a vendere un prodotto confrontandosi con gente diversa da loro. Un controller pur avendo capacità di relazione non sarà mai un commerciale.
Calarsi in ruoli diversi dalle proprie aspirazioni e dalle proprie caratteristiche sembra tuttavia molto più facile del previsto. Basta avere una motivazione oggettiva (soldi, affetti, status da raggiungere) e trovare uno sponsor (solitamente un superiore) incapace di valutare le effettive capacità della persona ma ben predisposto a convincere e convincersi della scelta più giusta.
Sopra queste labili note operative è stata costruita una ridondante, maestosa, sovrastruttura formalizzante che possiamo rintracciare nella sconfinata letteratura sul management. Centinaia di libri e articoli che giustificano scelte e comportamenti razionali in riferimento a modelli di analisi, performance formalizzate, schemi per il problem solving.
Si può giocare bene anche fuori ruolo, si possono raggiungere risultati in ruoli e con responsabilità lontane dalle proprie inclinazioni, anche lontane dalla propria storia. Si può fare tutto questo ma come e dove farlo è assolutamente indipendente da quello che effettivamente si è.
Forse nascono da qui le inclinazioni ai passatempi, agli hobby, ma anche alle passioni meno accettate socialmente. Il lato frustrante del giocare fuori ruolo può avere conseguenza imprevedibili.

Fine carriera
In modo del tutto imponderabile rispetto alle conseguenze gestisco il mio fallimento nel mondo del calcio da quasi venti anni. Ho capito di aver giocato in un ruolo non mio per tanto tempo. Ho trovato una spiegazione a questo stato di cose incolpando qualche allenatore ma soprattutto me stesso in quanto (allora) giovane e incline al protagonismo. Ho chiuso con il calcio perché non potevo sopportare, ogni volta che mi capitava di scendere in campo nelle categorie dilettantistiche, di ripensare con nostalgia ai momenti nei quali mi confrontava con calciatori professionisti; o anche vedere alcuni miei ex compagni delle giovanili rilasciare interviste in TV dopo una partita di campionato o di coppa.
Non mi sembra che la frustrazione sia la protagonista assoluta del mio procedere nella vita. Mi sembra piuttosto che l’aver sperimentato altri luoghi di lavoro abbia arricchito, e di molto, la mia esperienza.
Ho fatto altre cose, non il calciatore. Ma le ho fatte con passione, con ottimismo e qualche cosa l’ho portata a termine, qualcosa di buono l’ho pur fatto.
La mia realizzazione lavorativa è passata per molte esperienze e molti luoghi di lavoro. Allenatori e maestri li ho incontrati ugualmente. Coglioni e persone perbene hanno condiviso tante cose con me. Ho cambiato ruoli e lavori con più leggerezza una volta inquadrato il mio fallimento nel calcio. Soprattutto ho continuato a cercare un ruolo nel quale stare veramente a mio agio.
Ovviamente tutto questo è legato ad un processo di maturazione connesso all’età. Tuttavia penso che il procedere con criticità sia una condizione ottimale che non necessariamente coincide con la maturazione. Averla saputa gestire mi ha concesso di poter provare lavori molto diversi ma pur sempre riconducibili alla gestione di risorse per il raggiungimento di obiettivi determinati.
Alla critica ho sempre accompagnato lo studio, serio e approfondito, unica risorsa che, come già detto mi ha salvato da incerto destino.

Morale
Ho visto molte persone ricoprire ruoli non adeguati al loro credo, alla loro storia, distanti dal loro progetto di vita. Ho visto tante persone propense a leggere il ruolo ricoperto con altri occhi. Immaginando cose non vere, poi rivelatisi deleterie per loro e per l’organizzazione alla quale per un certo periodo sono appartenute.
Anche la mia storia è costellata da esperienze simili. Ho svolto ruoli effettivamente non miei sulla base di convincimento dovuto da sensazioni estemporanee, progetti messi male a fuoco, consigli seguiti troppo celermente.
Come ho più volte puntualizzato qui (anche questo è un modo per esorcizzare) ho subito la delusione di non essere in grado di giocare a pallone come professionista anche perché non avevo capito un gran che del ruolo da ricoprire. Pensavo di essere una punta mentre ero effettivamente una mezz’ala. Non so quanta confusione e delusione ho sommato nella mia vita lavorativa dopo. Non so quanta frustrazione della quale non ho avuto percezione mi abbia condizionato. Il coinvolgimento in quello che ho fatto dopo il calcio, lo dico in modo sincero, fino a qualche tempo fa non era completo ma saltuario, ad intermittenza.
Solo dopo tortuosi cambi di incarico, riposizionamento di percorsi di carriera, sudore e un po’ di sana ambizione ho intrapreso una strada e sinceramente è quella per la quale mi posso spendere in modo ottimale. Con risultati misurabili. Un ruolo manageriale all’interno di una Banca, dove posso approfondire tematiche d’impresa, studiare, capire, progettare iniziative per la rete, che a sua volta mi consulta per le problematiche più ampie in tema di imprese del settore agroalimentare. In palleggio continuo con l’Università dove ricopro un ruolo di docente e contratto. Mi sembra il mio ruolo.    
Ovviamente per innumerevoli casi ed episodi si possono compiere i percorsi più disparati con effettiva o presunta soddisfazione. Mi sento di dire, dopo anni che non gioco più a calcio, che i ruoli nei quali ci identifichiamo, che ricopriamo formalmente o con tenace sostanza a discapito della forma spesso non sono il modo migliore per stare sul luogo di lavoro. Forse un po’ di coraggio nel riconoscere il momento di mettersi in discussione può essere un utile antidoto alla frustrazione.
Ogni esperienza comunque ci può tornare utile prima o poi. Mio figlio più grande è in procinto di andare a giocare in un settore giovanile importante. Forse potrò suggerirgli in quale ruolo giocare per dare il meglio di sé. O forse sarà lui a indicarmi in che ruolo giocare.
                         

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