BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 19/08/2002

Un approccio clinico alle organizzazioni: la psicosocioanalisi

di Dario Forti

Le organizzazioni contemporanee sono da tempo fonte di osservazione sistematica di eventi e di tendenze che hanno modificato irreversibilmente il panorama tradizionale dell’epoca della modernità, quando si trattava di disporre di una qualche spiegazione plausibile del fenomeno burocratico, dell’esercizio del potere gerarchico, del sottoutilizzo delle risorse inserite ai livelli esecutivi delle strutture, di quel mondo cioè che film come Metropolis o Tempi moderni hanno fissato nelle immagini della nostra memoria.

Proviamo ad elencare alcuni esempi di queste nuove osservazioni:

Di queste tematiche e delle relative spiegazioni delle cause di natura macro o microeconomica sono pieni i manuali di organizzazione e i più recenti bestseller sull’epoca della globalizzazione. Compito della psicologia sociale delle organizzazioni è invece quello di chiedersi quali siano le conseguenze di tali fenomeni sui soggetti individuali e collettivi che si trovano a vivere nelle organizzazioni complesse contemporanee e come tali fenomeni possano essere da loro più efficacemente affrontati. Questo è il suo compito "da sempre", da quando cioè le organizzazioni complesse sono prepotentemente comparse sulla scena della modernità, con il carico di incontenibile durezza della prima industrializzazione che, insieme ai benefici della generazione di ricchezza, ha provocato un’anomia di massa.

La psicosocioanalisi ha se non altro il privilegio di aver vissuto quasi per intero la grandiosa vicenda storica che dalla fabbrica fordista conduce alle reti dei knowledge workers. E di essere stata in grado di ripensarsi ogni volta che i profondi cambiamenti nei sistemi economici e nei sistemi culturali rendevano obsoleti gli schemi teorici e interpretativi a disposizione di operatori e studiosi delle organizzazioni.
Psicosocioanalisi è una rielaborazione, tutto sommato recente, della socioanalisi, a sua volta traduzione (in senso linguistico e culturale) della social analysis di Elliott Jaques, psicoanalista canadese allievo e collaboratore di Melanie Klein, figura centrale del movimento psicoanalitico europeo e, in particolare, della cosiddetta "scuola inglese".

La prima socioanalisi italiana (siamo alla fine degli anni ’60) prende questo nome dall’ultima versione della proposta di Jaques. Social analysis è infatti già una versione tarda (che risale ai primi anni ’60) del suo approccio, che inizialmente (agli inizi degli anni ’50) era stato definito come social therapy a rendere ben esplicito il significato dell’operazione di trasferimento della teoria e della tecnica kleiniana dall’ambito terapeutico a quello della diagnosi e dell’intervento nelle organizzazioni (fabbriche, ospedali e scuole) dell’Inghilterra dell’immediato dopoguerra.

Luigi (Gino) Pagliarani, psicologo sociale e collaboratore di Franco Fornari, pur adottando il termine socioanalisi, con cui allora Jaques e i suoi allievi denominavano il proprio approccio, in realtà già allora stava dando forma ad un’idea di intervento nelle organizzazioni piuttosto diversa da quella sostanzialmente terapeutica della matrice jaquesiano-kleiniana. Prendiamo ad esempio il problema dell’interpretazione. Pagliarani mette subito in evidenza come l’utilizzo del cosiddetto "esame di realtà" consente di fare a meno dell’interpretazione analitica in contesti, quali quelli di un’intera istituzione coinvolta in un intervento socioanalitico, nei quali la relazione di transfert assume tratti di complessità molto superiori a quanto avviene intorno al divano dell’analista, in uno spazio relazionale definito e più governabile.

Psicosocioanalisi è il modo con cui Pagliarani all’inizio degli anni ’80 riformula l’intera sua proposta enfatizzando, nel nome, la dimensione di integrazione degli aspetti clinici ("psico") con quelli organizzativi ("socio"). Pagliarani, per tutto il decennio precedente aveva infatti a lungo lavorato su più piani. "Di giorno" faceva il socioanalista, con seminari e interventi nelle aziende e supervisioni nel suo studio; "di sera" faceva lo psicoanalista alternando le sedute di gruppo e quelle individuali.

In quegli stessi anni con Il coraggio di Venere, la sua opera più ampia, viene sviluppando una visione transdisciplinare e transprofessionale, di cui è felice espressione la visione integrata della "finestra psicosocioanalitica". In uno spazio inquadrato dalle polarità psico « socio e individuale « gruppale, si danno infatti molteplici – distinte ma al tempo stesso interconnesse – possibilità d’intervento che, nel loro insieme, sostengono un progetto culturale – teorico e operativo – di valorizzazione dei soggetti umani, cui Pagliarani è stato costantemente fedele.

In questi diversi ambiti di riflessione teorica e di intervento operativo si è mossa ARIELE, l’associazione fondata da Pagliarani nel 1983 e che da allora ha accolto e fatto crescere più di una generazione di allievi e di studiosi di questa disciplina, i cui elementi fondamentali sono stati descritti più compiutamente solo in questi ultimi anni.

Le organizzazioni sono cambiate, come mai in precedenza. Il pensiero sull’organizzazione anche. La pratica di chi opera nelle e con le organizzazioni si è più volte modificata, registrando e incorporando visioni e metodiche diverse sviluppate in varie parti del mondo – in buona parte certo ancora negli Stati Uniti (ad esempio con il process reengineering), ma molto anche in Giappone (TQM) e in Europa (service management). L’O.D., lo sviluppo organizzativo, venendo meno alcune sue condizioni fondamentali, quale la prevedibilità di medio-lungo periodo, è entrato in crisi; i maestri dell’O.D. "classico" – Edgar Schein prima di ogni altro – hanno denunciato la deriva tecnocratica di questa prassi. La psicosocioanalisi testimonia invece la vitalità di un "approccio clinico allo sviluppo organizzativo", che sa porsi in relazione con le caratteristiche attuali dell’esperienza organizzativa.

Si considerino tre tra le questioni oggi di fondo. La prima è il cambiamento. I soggetti organizzativi, di fronte al cambiamento, rischiano di vedere minacciata la propria identità, se non la stessa propria sopravvivenza. Le "ansie di base" teorizzate dalla psicoanalisi (quella "persecutoria" suscitata da un ambiente minaccioso e quella "depressiva" attivata da un sentimento di inadeguatezza nei confronti della sfida rappresentata dal cambiamento) rendono intelligibili le numerose strategie difensive che i soggetti, individuali e collettivi, adottano continuamente nei confronti di ogni prospettiva di cambiamento incerto e discontinuo. La concezione psicosocioanalitica, arricchitasi, rispetto alla tradizione psicoanalitico-socioanalitica, del concetto di "terza angoscia", o della "bellezza" (Pagliarani 1985), consente di comprendere la natura radicale dell’ansia del cambiamento, relativa ad una condizione nella quale il soggetto mette in gioco tutte le sue possibilità e potenzialità. L’intervento psicosocioanalitico, che sia rivolto ad una realtà organizzativa o ad un singolo soggetto, si fa carico di sostenere i soggetti nell’impatto con il cambiamento e nell’elaborazione di un progetto realistico di trasformazione di sé e dell’ambiente in cui operano.

Una seconda questione fondamentale è la responsabilità. Si è già accennato alla caratteristica di novità rappresentata dall’attuale tendenza alla responsabilizzazione diffusa. Le organizzazioni basate sul servizio, sulla qualità e sulla ricerca di una sempre maggiore soddisfazione dei propri clienti, richiedono necessariamente un’azione di empowerment ad ogni livello della struttura, e in particolar modo dei "semplici" addetti che, al contrario, nell’organizzazione gerarchica tradizionale erano posti al termine della catena decisionale, in ruoli di mera esecuzione di quanto stabilito dal management aziendale. Sennonchè il processo di responsabilizzazione – in situazioni in cui l’addetto vive una condizione di "solitudine" (il front end è per l’appunto un avamposto) e di "dipendenza" (dalle politiche aziendali e dallo stesso cliente) – sollecita tutte e tre le ansie di base teorizzate dalla psicosocioanalisi e in particolare le prime due – quella persecutoria e quella depressiva. Compito della stessa psicosocioanalisi è allora quello di individuare interventi strutturali, gestionali e formativi che riescano a ridurre il vissuto di inadeguatezza professionale, da un lato, di "abbandono" da parte dell’organizzazione, dall’altro.

La terza questione è la relazione con l’altro. L’organizzazione contemporanea accentua – e in ogni caso ridefinisce – la natura della socialità lavorativa. Nell’organizzazione fordista le relazioni erano al tempo stesso "proibite" (dalla cosiddetta "parcellizzazione" della divisione tayloristica del lavoro) e "tollerate" (si ripensi agli studi sull’organizzazione informale "illegale"). Tale condizione, se da un lato alimentava sentimenti di estraneità nei confronti del lavoro, dall’altro appagava, con l’isolamento, i bisogni basici di protezione e di non esposizione. La nuova organizzazione, aperta, reticolare, fortemente interconnessa e basata pertanto sull’interdipendenza tra i soggetti interni e anche esterni all’organizzazione stessa, espone i soggetti ad un confronto relazionale costante e attiva processi di comparazione e competizione, li sollecita alla richiesta e all’offerta di collaborazione e di sostegno, produce invidia, conflitti, delusioni e frustrazioni. La psicosocioanalisi, su questo punto in particolare andando oltre alla visione tradizionale della socioanalisi, forte della concezione della "angoscia della bellezza", sostiene i soggetti nel riconoscimento dei vissuti arcaici legati al rapporto tra simbiosi e isolamento e nella ricerca di forme di relazionalità in cui la solidarietà si sposa con l’autorealizzazione.

"Non c’è nulla di più pratico di una buona teoria" è la difesa ultima di consulenti e formatori nei confronti delle pur giustificate aspettative dei propri clienti. La psicosocioanalisi fa suo questo motto, nella convinzione (certamente da verificare in ogni occasione!) di essere capace di far corrispondere lo sguardo teorico alla realtà osservabile.

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