BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 01/10/2001

Spaghetti Simple

di Nicola Gaiarin

Leggendo l'intervento dell'amico americano Gianfrancesco Prandato (Keep It Simple) mi è venuto in mente un articolo uscito su Repubblica qualche tempo fa (scritto da Vittorio Zucconi, se non ricordo male) in cui, partendo dal kolossal hollywoodiano sull'attacco a Pearl Harbour, si rifletteva sulla natura politica del cinema americano. La faccenda si potrebbe riassumere in questo modo: gli americani possono fare i loro film in modo così innocente, spettacolare ed efficace perché non hanno dovuto pagare sulla loro pelle il prezzo delle propagande politiche. Non hanno assistito in prima persona alla degenerazione del cinema come grande spettacolo del potere. Loro avevano Rossella O'Hara e Mickey Mouse, noi (inteso come europei) avevamo l'istituto Luce e Süss l'ebreo; loro avevano il corpo di Fred Astaire o di John Wayne, noi avevamo i levigati superuomini ariani filmati da Leni Riefenstahl e i gloriosi elefantoni di Scipione l'africano. Insomma, dopo tutto quello che abbiamo passato (anche per colpa della propaganda), facciamo fatica a credere all'innocenza del fuoco d'artificio cinematografico, e abbiamo bisogno che qualcun altro, che ci crede ancora, metta in piedi lo spettacolo per noi.

Tutto questo per dire che il "Keep It Simple" potrebbe essere uno slogan realmente efficace se si riuscisse, anche per un solo momento, a crederci per davvero. La semplicità è un valore, e qualcosa del genere si ritrova, ad esempio, anche nell'elogio della rapidità scritto da Italo Calvino in occasione delle Norton Lectures che non fece in tempo a tenere ad Harvard. Ma probabilmente la semplicità che abbiamo in mente noi europei non coincide del tutto con il pragmatismo d'oltreoceano. Il modello americano, con la sua estrema compenetrazione tra formazione e mondo del lavoro non mi sembra del tutto esportabile, e accanto al "Keep It Simple" troviamo anche estremizzazioni, manierismi e derive spettacolari, proprio come succede al cinema. Pensiamo a un fenomeno all american come quello delle università concepite alla stregua di un vero e proprio serbatoio per le imprese: l'indubbia efficacia del sistema dà luogo ad un modello a dir poco ricattatorio (io sovvenziono l'università ma gli studenti migliori sono territorio di caccia riservato della mia azienda). Oppure pensiamo alle potentissime lobby che rendono esplicito il nesso tra potere politico e potere culturale in modo talmente sfacciato da sembrare quasi incredibile (è nota la leadership inattaccabile dell'università di Chicago, vera e propria fabbrica di premi Nobel, nel campo delle teorie economiche). Insomma, è giusto che l'istruzione venga considerata come un investimento, ma sarebbe interessante capire fino a che punto l'investimento dia diritto ad un possesso assoluto nei confronti dei suoi frutti. È lecito che il sapere appartenga del tutto a chi ha contribuito economicamente alla sua elaborazione?

Al di là di considerazioni troppo specifiche, c'è da dire che il pragmatismo ha una storia lunga, con picchi e cadute, e le sue conseguenze sono difficili da misurare. Accanto all'attenzione (sicuramente auspicabile) nei confronti delle competenze di base, troviamo aspetti senza dubbio caricaturali (le lezioni sull'uso della calcolatrice ricordate da Prandato, i famigerati test a risposte multiple, la strutturazione rigida degli elaborati personali). Il pragmatismo viene, come teoria dell'educazione, almeno da Dewey, ed è da quell'ottimistico culto dell'esperienza che derivano quelle che a noi sembrano le stranezze del sistema educativo americano, come i corsi universitari sulla cucina e sulle tecniche di seduzione politically correct oppure le lauree in scrittura creativa. Alla radice del dibattito sul pragmatismo troviamo poi un paradosso di fondo che rende questa "filosofia della pratica" molto problematica: il culto dell'esperienza come guida per la crescita individuale si accompagna ad un'idea di formazione intesa come modello rigido e universale. Quel valore aggiunto insostituibile che dovrebbe segnare l'originalità dell'individuo rischia di trasformarsi in uno schema per l'elaborazione di risposte standard ad un dato problema. Il rapporto tra pragmatismo e conformismo è molto stretto, e il modello formativo americano è sempre a caccia di nuovi meccanismi di autocorrezione. Infatti non c'è dubbio che proprio dalla patria del "Keep It Simple" spesso saltino fuori le mode più becere che noi, puntualmente, importiamo.

Mi sembra però che le considerazioni di Prandato rivelino un doppio fondo. L'autore si porta dietro un "nome d'arte" impegnativo e affascinante, tutt'altro che neutro o lineare. Dietro L'Amico americano che su Bloom offre traduzioni e incroci tra Italia e Stati Uniti si nascondono Wim Wenders e Patricia Highsmith. Insomma, in realtà Prandato è Ripley, un personaggio cinico e complicato, ben poco "simple" e innocente, perfettamente consapevole dei giochi di potere e degli inganni che si nascondono dietro gli slogan. In fondo è un europeo in incognito o un americano visto da lontano, come gli investigatori in impermeabile di Wenders e Polanski, e da questo travestimento deriva tutta una serie di effetti deformanti che intervengono a complicare il gioco dei riferimenti incrociati. Qualcosa del genere capita, per esempio, nella bella ricerca svolta da Gideon Kunda all'interno di un'importante azienda americana che opera nel campo dell'alta tecnologia. Il suo libro, Engineering Culture, mostra quanto sia difficile muoversi attraverso gli schermi e i veli della cultura. Non tanto per chi ci sta dentro, piuttosto per chi osserva da una posizione esterna ma non neutrale. L'israeliano Kunda che svela il proprio background esistenziale e mette in gioco le tensioni che gli vengono dall'essere cittadino di uno stato "artificiale", mostra tutte le difficoltà che caratterizzano un confronto tra modelli culturali differenti. In modo simile L'Amico americano, con il suo elogio del "Keep It Simple", ci propone un pragmatismo complicato ed ironico, tutto europeo: la sua è una semplicità solo apparente, all'insegna di un cinismo eccessivo, da film western. Non alla Sam Peckinpah (troppo lirico e romantico, difficile credergli fino in fondo), ma vicino agli spaghetti di Sergio Leone (che ha saputo deformare l'epica con il grottesco per inventare i suoi capolavori). Un atteggiamento efficace proprio perché si fa carico di tutte le deformazioni prospettiche che derivano dalla distanza che ci separa dall'America e dai suoi miti (cinematografici, culturali e aziendali).

Quindi, all'insegna di Sergio Leone, direi "Spaghetti Simple", o meglio ancora "Keep It Spaghetti Simple" (che non vuol dire niente, ma in questo modo ricompongo l'acronimo che circola per la rete e che Prandato ha amputato della S finale: KISS, ovvero Keep It Simple Stupid). Vorremmo essere semplici e pragmatici, ma siamo i primi a non crederci del tutto. Per prendere le cose dal verso giusto occorre prima rovesciarle e confonderle un po'.


Nota cine-bibliografica
Süss l'ebreo è un famigerato film antisemita girato da Veit Harlan nel 1940. Leni Riefenstahl è la regista che mise il suo straordinario talento visivo a disposizione della propaganda nazista in film come Il trionfo della volontà e Olympia. Mickey Mouse, tra parentesi, era molto apprezzato dai gerarchi nazisti, che vedevano in Walt Disney uno straordinario talento manipolatorio…

L'Amico americano è un film di Wim Wenders del 1977, tratto da un romanzo di Patricia Highsmith, la creatrice di Tom Ripley, cinico e geniale assassino. Gli investigatori in impermeabile sono quelli di Hammett, film di Wenders del 1983 e di Chinatown, diretto da Roman Polanski nel 1974.

Le Norton Lectures di Italo Calvino sono le famose e purtroppo incompiute Lezioni Americane, Garzanti, Milano 1988. Su Bloom ne esiste una di incerta attribuzione, probabilmente apocrifa: cfr. F. Varanini, Flexibility: la sesta lezione americana di Italo Calvino.

Sulla formazione negli Stati Uniti si vedano le ricerche di Marianella Sclavi contenute nel suo A una spanna da terra, Feltrinelli, Milano 1989 e riprese brevemente in Arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, Milano 2000. Per quanto riguarda la scuola di Chicago e il suo monopolio politico-culturale si veda il libro di Marco d'Eramo Il Maiale e il grattacielo, Feltrinelli, Milano 1995.

Il libro di Gideon Kunda è stato pubblicato dalle Edizioni di Comunità nel 2000 con il titolo L'ingegneria della cultura.

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