BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 11/03/2002

L'eccezione e la regola: WARNER vs. DISNEY

di Nicola Gaiarin

Tutti abbiamo sentito, almeno una volta nella vita, la perfetta replica della voce di Leon Schlesinger. Ma chi diavolo è Leon Schlesinger? Lo vedremo alla fine.

La leggenda vuole che Harry Warner (uno dei Warner Bros., mica un cretino qualsiasi), offrendo per la prima volta la cena al suo staff di animatori, se ne uscisse con questa battuta “Non so nemmeno dove sia la divisione cartoon della nostra produzione”, concludendo con l’immortale “so solo che siamo noi a realizzare i film di Mickey Mouse”. Si può dubitare della veridicità di quanto riportato sopra, ma di sicuro, se le cose sono andate così, i cartoonist della Warner non si saranno certo lasciati sfuggire l’occasione di mantenere vivo il clamoroso equivoco. Secondo Friz Freleng, i capi della casa di produzione hanno continuato a credere di essere i produttori del topo più famoso del mondo fino al 1963. Appena scoperta la verità hanno chiuso lo studio.

Tutto questo può essere vero o falso, ma non importa poi molto. Il fatto è che simili aneddoti fanno capire meglio di mille discorsi tutto lo stile dei cartoon Warner: follia, creatività, capacità di autogestione, inventiva scatenata e una buona dose di irrisione contro ogni tipo di autorità. L’autorità, naturalmente, non è solo quella incarnata dal povero Harry Warner. Bersaglio delle beffe poteva essere il produttore Eddie Selzer, oppure Ray Katz, business manager dello studio. Probabilmente si trattava di abilissimi dirigenti, ma, se prestiamo fede agli innumerevoli aneddoti sugli scherzi che i due avrebbero subito, erano anche degli autentici idioti. Gli artefici della persecuzione continua erano personaggi i cui nomi sono entrati nella leggenda dell’animazione: Tex Avery, Mel Blanc, Friz Freleng, Mike Maltese. E Chuck Jones, che è morto un paio di settimane fa.

Pensiamo agli studios Disney di Burbank, California. Walt, il grande capo, amministrava saggiamente le risorse della compagnia. La creatività veniva passata al vaglio del comitato dei grandi vecchi, i disegnatori storici dello studio. L’ultima parola, ovviamente, toccava al “padre padrone”. Walt era un sognatore, ma anche un individuo collerico, dispotico, per niente disposto a concedere spazio ai propri collaboratori. La Disney era un’azienda fondata su un modello organizzativo accentrato e paternalista. I grandi film per famiglie venivano sfornati da una squadra molto affiatata che rispondeva tuttavia a una serie di direttive rigidissime. In primo luogo, niente sindacati, e Disney sapeva essere feroce nel caso una delle sue regole d’oro non venisse rispettata. La vision della Disney era Disney stesso: il programma dell’azienda dipendeva unicamente dal suo insindacabile giudizio. Venerato dai dipendenti, era fondamentalmente un grande leader, una guida da seguire e da non contestare mai.

I principi che governavano casa Disney erano anche forme di regolamentazione della creatività. Il genio che aveva innovato l’animazione non permetteva che le sue regole venissero in alcun modo messe in discussione. Prima di tutto, la regola chiave, ancora prima del lieto fine, era il realismo. La magia, per funzionare, non deve essere smascherata. La convenzione va rinsaldata, occorre che lo spettatore si identifichi pienamente con la vicenda che sta per seguire. Su questa fedeltà maniacale alle direttive del fondatore si fonda l’immenso successo degli studios Disney: le competenze dei singoli vengono incanalate all’interno di una struttura organizzativa molto rigida per costruire un progetto che rientra in una tradizione ben precisa. Al punto che anche in tempi recenti i collaboratori più originali hanno dovuto cercare fortuna altrove (pensiamo al caso di Tim Burton).

Alla Warner le cose erano leggermente diverse. L’affiatamento dello studio prescindeva da qualsiasi forma di controllo gerarchico. L’arrivo dei capi e dei supervisori veniva annunciato da un campanello d’allarme che permetteva ai disegnatori e a tutti gli altri di prepararsi adeguatamente. La performance-tipo era di questo genere: Ray Katz entrava nella prima stanza, facendo scattare l’allarme prontamente azionato da un giovane animatore collocato in posizione strategica. A questo punto i disegnatori e gli scrittori iniziavano a darsi da fare in modo frenetico e del tutto improbabile, in assoluta contraddizione con i tempi di realizzazione delle storie: lavorando a quel ritmo lo studio avrebbe potuto produrre un film al giorno. Subito dopo Katz passava nella sala storyboard, in cui i creativi – sceneggiatori e registi –  preparavano materialmente lo svolgimento dei cartoons. Tutti erano immobili, intenti a leggere il giornale o a sorseggiare una Coke ghiacciata. Katz, che non aveva assolutamente idea di cosa succedesse in quella stanza, si guardava in giro qualche istante, per poi allontanarsi con aria perplessa. Di solito ritornava dopo qualche ora. Niente era cambiato: stesso giornale, stessa Coke. Solo che questa volta alla parete erano appese cinquanta pagine di storyboard. Katz se ne andava, sempre più perplesso, emettendo un verso caratteristico che veniva subito ripreso dall’indisciplinato staff.

La differenza tra la filosofia Warner e quella Disney si rifletteva soprattutto nel rapporto tra animazione e realismo. La verosimiglianza disneyana veniva disintegrata dall’impatto ferocemente anarchico di Bugs Bunny, Wile E. Coyote e compagnia. La reiterazione di situazioni comiche (come l’immancabile caduta nel burrone del Coyote) portava al parossismo la contestazione delle convenzioni disneyane. Liberi dalle briglie produttive che si facevano sentire in casa Disney, i disegnatori e i registi della Warner diedero vita ad un’epopea irripetibile. Ogni residuo di  moralismo andava in pezzi nelle animazioni ad alto tasso erotico di Tex Avery. La rassicurante simpatia di Mickey Mouse veniva ribaltata dal diabolico trickster, il buffone divino Bugs Bunny: irresistibile mix di umorismo yiddish e frenesia imprenditoriale americana. Alter ego distruttivo di Topolino, il coniglio Bunny - come  ha notato Marco Giusti - è soprattutto un parente stretto del Confidence-man di Melville, diabolico imbroglione che riesce sempre a salvare la pelle e a menare per il naso i suoi avversari. Come se Groucho e Harpo Marx si fossero fusi insieme per dar vita alla quintessenza della slapstick comedy: gag verbali e acrobazie fisiche concentrate in un solo personaggio.

Nel periodo d’oro alla Warner non c’erano regole, solo eccezioni e ristrettezze di budget da rispettare. Se un produttore dava delle direttive chiare, l’imperativo era cercare di contravvenire in ogni modo agli ordini. Quando un executive urlò a Jones e Maltese di non scrivere assolutamente storie che parlassero di corride, i due capirono in un lampo di aver dimenticato qualcosa. Il risultato fu la corrida del devastante Bully for Bugs, uno dei migliori Bugs Bunny di sempre. L’epopea degli animatori folli si ritrova tutta nella galleria dei grandi personaggi degli anni quaranta e cinquanta. Daffy Duck che sconfigge i nazisti, l’impassibile cane Droopy che infligge dolorosissime punizioni al rivale Spike. Wolfy con gli occhi spiritati che fischia a una irresistibile versione sexy di cappuccetto rosso. La realtà per loro era solo uno sfondo di cartapesta da plasmare a piacimento, pieno di candelotti di dinamite e di gallerie dipinte da cui possono uscire fuori treni sparati a tutta velocità. La vision di Chuck Jones, Tex Avery & Co. si basava sulla sistematica contestazione di ogni regola nel campo dell’animazione. Dall’organizzazione piramidale di matrice disneyana si passa al caos come ordine di secondo grado, disorganizzazione creatrice, creatività scatenata.

 

Alla lunga lo scontro tra queste diverse filosofie produttive e organizzative è stato vinto dalla Disney. La libertà assoluta dei cartoonist Warner degli anni quaranta ha lasciato il posto alla sobrietà e alla ripetizione dei decenni successivi. Il lungometraggio per famiglie ha sconfitto i fulminanti “corti” dei concorrenti. Anche la Warner è un colosso, e come tale ragiona: i suoi personaggi rispondono alle logiche del merchandising e Bugs Bunny si è ritrovato a giocare con Michael Jordan. Eppure lo spirito degli anni d’oro ha continuato a nutrire l’immaginario americano (e non solo). Tutto il primo Spielberg rende omaggio a ripetizione all’arte di Jones e Avery (da Sugarland Express a Indiana Jones, passando per Incontri ravvicinati del terzo tipo). E, soprattutto, senza il mucchio selvaggio Warner non esisterebbero i Simpson di Matt Groening, una delle massime espressioni della cultura pop degli ultimi anni.

Ma, tornando all’inizio, chi è Leon Schlesinger? Era uno dei capi della Warner, ex produttore di western muti. Nel 1937, al momento di inventare la voce di Daffy Duck, Cal Howard suggerì a Mel Blanc (l’uomo delle voci dello studio) di usare l’incredibile inflessione di Schlesinger per il papero imbranato e permaloso. L’imitazione di Blanc fu perfetta e il risultato esilarante. Alla prima proiezione, gelo in sala: la beffa era troppo evidente, da un momento all’altro sarebbe esplosa l’ira del boss. Si accendono le luci e un felicissimo Schlesinger chiede: “Gesù, quesfta è una voce davfero divertfente. Dovfe l’avfete pescafta?”.

Nota bibliografica

 Gli aneddoti che ho riportato provengono dal bellissimo libro di Luca Raffaelli Le anime disegnate. Il pensiero nei cartoon da Disney ai giapponesi, Castelvecchi, Roma 1998, che a sua volta pesca a piene mani da Chuck Jones, Chuck Amuck. The Life and Times of an Animated Cartoons, Simon & Schuster, London 1989. Fondamentale anche il repertorio di Marco Giusti, Dizionario dei cartoni animali, Vallardi, Milano 1993. Su Tex Avery si veda Franco Porcarelli, Tex Avery, Editori del Grifo, Montepulciano 1993. Per quanto riguarda Walt Disney si possono consultare Oreste de Fornari, Walt Disney, La nuova Italia, Firenze 1978 e Franco Fossati, Walt Disney e l’impero disneyano, Editori Riuniti, Roma 1986. I lati oscuri dell’inventore di Mickey Mouse sono raccontati da Marc Eliot in Il principe nero di Hollywood, Bompiani, Milano 1993.

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