BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 14/07/2003

REGOLE FITTIZIE, BUCHI NEL SISTEMA DI CONTROLLO E PERSONE EMPOWERED

di Nicola Gaiarin

Caro Francesco,

ti scrivo stimolato dal tuo contributo L’organizzazione danneggiata dalle persone perché, secondo me, sollevi una questione fondamentale. Direi che si tratta di una questione centrale non solo dal punto di vista delle aziende e della loro efficacia, ma, più in generale, di una formidabile domanda che investe una serie di problemi non elaborati sul rapporto tra autorità e politica. Diciamo che la politica è lo spazio delle decisioni, dell’elaborazione di strategie per il raggiungimento di determinati risultati. Che si tratti di risultati che rientrano puramente nella sfera degli interessi o che si faccia intervenire quella dimensione intangibile che va sotto il nome di mission, con il relativo contorno di valori, di significati sociali, ecc., non è molto importante. Quella che sollevi tu è la questione delle regole, del rapporto tra le persone e il sistema di norme vigenti all’interno di un organismo che, in poche parole, è un organismo sociale. Abbiamo un corpo sociale, l’organizzazione, e un sistema di norme che ne regolano (o ne dovrebbero regolare) le procedure, i comportamenti, le relazioni gerarchiche. Rispetto a questo orizzonte, sottolinei un rischio: si parla di regole flessibili nelle organizzazioni, ma un eccesso di flessibilità delle regole – che si tratti di delega, di condivisione assoluta delle responsabilità, di cambiamento continuo – può far sì che, a lungo andare, l’efficacia delle prassi consolidate lasci il posto ad un trionfo della sfera personale. Si favorisce un amico come fornitore, si decide di adottare un determinato comportamento per pigrizia anche se può essere un comportamento meno efficace di altri più consolidati. Il cambiamento rischia di diventare semplice instabilità organizzativa, l’autonomia delle persone può capovolgersi in una specie di uso privato della propria sfera di responsabilità, per quanto piccola sia.

Credo che, per semplificare, il problema sia quello del rapporto tra responsabilità e potere. Potere è una parola che suona sempre fuori moda, forse è un po’ sgradevole. Ma alla fine ritorna sempre fuori. Penso al dibattito sull’empowerment che, accanto alle versioni soft e più strettamente valoriali o motivazionali (che mettono al centro il “sentimento di potere”, citato nel contributo di Stefano Ghiano, Empowerment for people), riporta al centro la questione del “power”. Ci sono persone disempowered e a queste persone bisogna ridare potere: bisogna rimetterle al centro dell’organizzazione in termini di responsabilità , possibilità e decisioni. Bisogna farle rientrare nel circuito di elaborazione delle scelte strategiche. Ci devono “essere” in maniera più piena e le loro potenzialità vanno ricollocate a centro della scena aziendale. Se non erro il classico italiano sull’Empowerment, il libro di Claudia Piccardo, fa esplicito riferimento anche a Michel Foucault che, nel bene o nel male, è quello che più d’ogni altro ha contribuito a rinnovare il dibattito sul tema del potere nel suo rapporto con gli individui. Ora permettimi di reimpostare il discorso a partire dalla filosofia, che è il codice che maneggio meglio. Mi ha molto colpito il fatto che, l’anno scorso, su Bloom si sia parlato di Empire, di Negri e Hardt. Perché in fondo si tratta di un libro di filosofia politica che mette al centro proprio il problema del potere e del rapporto tra le fantomatiche “Moltitudini” e l’altrettanto fantomatico “Impero”. Al di là dei limiti evidenti del libro (che ha segnalato bene il nostro Prandato nella sua recensione) Empire ha un merito: quello di segnalare i paradossi di una società, esistente - come pensa Negri - o possibile, in cui il rapporto tra individuo e potere è giunto alla piena compenetrazione. Il soggetto è il potere, il suo effetto e la sua causa. Il potere, con i suoi dispositivi assolutamente a-soggettivi e auto-poietici, crea il soggetto in un rapporto di produzione dei legami gerarchici con gli altri individui. È stata questa la grande scoperta di Foucault: il potere moderno ha orrore del vuoto. Non proibisce e non reprime, incita a parlare. Spinge ad una fabulazione incessante il soggetto che, proprio mentre esprime al massimo se stesso, la propria interiorità, i propri valori, si trova in realtà a replicare e diffondere, come un virus, la presa del potere stesso. Nei suoi libri (soprattutto in Sorvegliare e punire e La volontà di sapere) Foucault mette al centro un soggetto che proprio quando crede di esprimersi per liberarsi, sprofonda ancora di più nelle sabbie mobili del potere. Risuona qui la battuta di Spinoza sulla stupidità degli uomini che combattono per farsi sottomettere ancora di più.

 Ovviamente per Foucault il potere, proprio per il suo carattere paradossalmente produttivo e affermativo, non è un concetto dal quale ci si può liberare una volta per tutte. E non è nemmeno una nozione caratterizzata in senso negativo. Così stanno le cose e dentro questo ring bisogna combattere. Quel che è certo è che non basta rifugiarsi in una visione banalmente illuminista per liberarsi di questo quadro: non basta aumentare il sapere per liberarsi del potere o per diventare più empowered, perché le spirali sapere-potere (e piacere, ma questa è un’altra storia) sono strettamente intrecciate. L’attuale dibattito sulle aziende e sulla responsabilità delle persone mi sembra essere rimasto al di qua dello spartiacque segnalato da Foucault: si ridistribuisce il potere, si spartisce l’autorità, ma l’idea di potere è ancora oggettuale. Si è capito che al centro della questione della responsabilità sta la relazione, e non solo l’individuo, ma non si capisce bene come sia fatta questa responsabilità che si condivide. Da qui tutti i paradossi che hai segnalato tu: una volta che si individuano più sfere di autonomia, tutte queste sfere, in mancanza di un quadro normativo forte, vengono gestite come altrettante sfere di potere “tradizionale”. Non si tratta di ritornare a una visione centralizzata e “leviatanica” dell’organizzazione, ma di capire cosa vuol dire assumere un nuovo modello di responsabilità, di decisione e di autorità all’interno di organizzazioni più flessibili di quelle del passato. Tenendo presente anche il problema segnalato, in modo un po’ troppo profetico, da Negri e Hardt: c’è sempre il rischio di muoversi contro un sistema che in realtà si nutre degli attacchi, li parassita. Se esiste qualcosa di simile all’Impero, è sicuramente un sistema estremamente sottile di equilibri continuamente autogenerati nel contrasto con tutte le “Moltitudini” che si oppongono ad esso. Empire ha quantomeno il merito di indicare lo spazio di definizione di un problema.

  Per complicare ancora di più il quadro metto sul piatto un autore che adesso è abbastanza di moda, ma che è sicuramente molto più interessante di quello che potrebbe sembrare a prima vista. Si tratta del filosofo e psicanalista sloveno Slavoj Žižek. È sloveno ma si muove molto verso gli Stati Uniti e l’Europa. Soprattutto, è un filosofo che riparte da Lacan. Lacan è un altro nome che fa drizzare i capelli: il simbolo della fumosità intellettuale francese. Ma è anche l’autore che, più di qualsiasi altro, ha messo al centro della riflessione la questione del autorità nella produzione del sapere. Lacan è il Maître, il master, padrone o maestro auratico e carismatico. Ma è anche il decostruttore delle figure dell’autorità. È il paradossale dandy che dice “Mi autorizzo da me” e il nomade scacciato da tutti i centri del potere analitico. Lacan, che era figlio di produttori di aceto e che chiamava gli analisti americani “dentisti” è un po’ il simbolo del self made man all’americana: la sua corporation è la psicanalisi, la sua strategia l’accentramento e la distruzione dell’autorità. Oppure è il piccolo imprenditore che crea un prodotto puramente immateriale e che sa che la successione dell’azienda non può avvenire che attraverso la dispersione. Lacan è una parabola del business e della negazione del business. Il faraone e il buffone. Il potere assoluto e il sapere assoluto, lo stratega matrimoniale che manda in spose le figlie ai suoi seguaci e successori e il grande nemico di ogni forma di successione legittima.

Žižek, dunque, parte da Lacan. E vuole partire (ri-partire) da Lacan per mostrare il lato grottesco del potere. Mostra come molti atti di contestazione dell’autorità siano solo il risvolto grottesco dell’autorità stessa. La costruzione (simbolica, direbbe Lacan, ma uso il termine in senso lato) della struttura sociale fallisce sempre, c’è sempre qualcosa che rischia di restare fuori, un’escrescenza, un residuo che il lenzuolo troppo corto delle regole non riesce a coprire. Ma questo qualcosa (il desiderio, la singolarità del soggetto, l’inconscio) in realtà, restando fuori, da corpo alla struttura stessa. Chi crede che per riequilibrare le cose (per dare alle persone più power) sia sufficiente spostare l’autorità dal centro della struttura (il padrone, i leader) alla periferia (l’underground dell’organizzazione) per ottenere persone empowered, si illude. Perché anche alla periferia sono in atto i giochi del potere: giochi che non si oppongono alla struttura centrale, ma la confermano. Un po’ come in quei rituali militari segreti (ad esempio i pestaggi che ribadiscono determinate gerarchie di fatto e non autorizzate, come nel film Codice d’onore) che, pur essendo formalmente vietati, in realtà vanno a confermare il codice ufficiale del sistema militare. Il potere, dice Žižek con Lacan, funziona producendo un suo doppio “osceno” che, lungi dal contestarlo, lo conferma e lo rafforza (pensiamo ai romanzi di Hrabal, che ha descritto come nessun altro gli indispensabili ometti che stanno in contatto con questo lato grottesco del potere). La soluzione che suggerisce Žižek si esplicita nel confronto tra due atteggiamenti opposti. Per lui l’atteggiamento da assumere non è quello di chi cerca di distruggere o combattere la struttura ufficiale (con la sua rete di norme), ma quello di chi rimane dentro le norme e trova, al loro interno, uno spazio di abitabilità. È la differenza tra il cinico, cioè quello che, constatando come la grande struttura dell’organizzazione sia solo una finzione, decide di fare i propri interessi e l’ironico, quello che magari migliora le cose introducendo un piccola sfasatura all’interno del sistema, senza illudersi di poterlo disgregare. Il punto non è dire che le regole non servono a niente perché sono arbitrarie e fittizie, ma capire che anche se sono fittizie funzionano. Forse funzionano proprio perché sono fittizie. È questa la base della loro efficacia, e leggere le regole in termini troppo realistici porta a reificarle, a trasformarle in oggetti maneggiabili e di conseguenza a credere che sia sufficiente decentrare il potere per far saltar fuori persone empowered, mentre così si rischia solo fare un buco nell’aereo: la pressione, che preme tutto attorno, fa cedere la struttura. È la backdoor, il buco nei sistemi di controllo, che può portare tutto l’edificio organizzativo a collassare su se stesso. Per Žižek, addirittura, qualcosa di simile è accaduto nella ex Jugoslavia, per cui i primi a sprofondare nell’elogio dell’etnia sono stati gli intellettuali illuminati che contestavano (cinicamente) la struttura centralizzata del paese. La backdoor etnica concepita come unico ingresso praticabile in mancanza di un sistema di regole ancora credibile.

La lettura forse è troppo pessimista, e magari non centra molto con la questione di partenza. Quello che volevo segnalare è come, troppo spesso, l’elogio della flessibilità si trasforma nel trionfo delle hidden agendas, gli interessi locali che rinascono in mancanza di una forte struttura centrale. L’organizzazione di fatto rischia di ripiegarsi sul fatto dell’organizzazione, che diventa l’unica regola da seguire. La risposta, anche sul piano politico e sociale, non può essere solo il rinforzo dell’organizzazione centralizzata. Ma si dovrebbero elaborare forme efficaci di decentramento, modalità inedite per stare nel decentramento. Il rischio altrimenti è doppio: un decentramento fittizio e illusorio (magari operato solo perché è di moda) oppure un decentramento reale, senza che ci siano gli strumenti (mentali, prima ancora che tecnici) per gestirlo.

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