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Pubblicato in data: 08/12/2003

L'EVOLUZIONE IMPERFETTA

di Nicola Gaiarin

Un’ulteriore teoria di quei tempi remoti sosteneva che l’Onnipotente avesse creato  quegli esseri umani nel luogo stesso in cui gli esploratori li avevano trovati, sicché era inutile formulare congetture sul mezzo di trasporto.

Kurt Vonnegut. Galápagos.

Certo, come dice Francesco Varanini nel suo articolo [1] , bisogna imparare a gestire la sofferenza delle persone che si trovano costrette a cambiare. Ma chi è davvero in grado di gestire la componente cognitiva ed emotiva che interviene nei processi di cambiamento organizzativo (ma non solo)? La questione decisiva riguarda il “come” del processo di cambiamento. Sentir parlare di “Gestire il cambiamento” mi fa venire in mente un film di animazione digitale uscito un paio d’anni fa, Ice age – L’era glaciale, che racconta le peripezie di tre animali (un Bradipo gigante, un Mammut e una Tigre dai denti a sciabola) che, assieme a un cucciolo d'uomo, formano una strana task force di resistenza che si trova ad affrontare i rischi (molti) e le opportunità (poche, per il momento) dell'incipiente glaciazione. I nostri eroi, pur così male assortiti, riescono a lavorare assieme per salvare il piccolo uomo e riportarlo tra i suoi simili. Forse Ice age non è un capolavoro, ma contiene almeno due scene memorabili: l’episodio dei Dodo, predestinati all'estinzione dalla loro idiozia e dalla passione esclusiva per le angurie; e le apparizioni ricorrenti di Scrat, un minuscolo roditore che sembra avere come principale scopo di vita quello di mettere al sicuro una ghianda, unica risorsa sulla quale, evidentemente, intende contare per superare l'imminente arrivo dei ghiacci.

Sono tra le scene più divertenti del film, e sembrano dirci essenzialmente una cosa: rimanere attaccati al proprio stile di vita in momenti di grande e repentino cambiamento può essere fatale. Troppo spesso quando si tratta di cambiare o di introdurre soluzioni che facilitino il cambiamento, anche minimo, all’interno di un qualsiasi gruppo, assistiamo alla comparsa della sindrome del Dodo [2] : dato che ci cibiamo solo di angurie, per sopravvivere dobbiamo immagazzinarne il più possibile. Perciò tutti iniziamo a chiederci come possiamo fare per portare con noi, nel futuro, abbondanti porzioni del nostro vecchio stile di vita. Il fatto è che in questo modo tentiamo di disinnescare il cambiamento, sforzandoci di ridurlo a qualcosa di estrinseco e di lontano da noi: come dire che tutto cambia intorno a noi, ma in fondo restiamo sempre gli stessi. Si tratta di una paradossale forma di evoluzione che continua a guardare dietro di sé, come se per cambiare dovessimo portare sempre con noi qualcosa che continua a ricordarci chi siamo e chi continueremo, nonostante tutto, ad essere. Il problema è che la domanda giusta sembra essere un’altra: possiamo tentare di differenziare la nostra dieta, almeno in parte, in modo da aumentare le nostre possibilità di successo evolutivo?

In questo contesto paraevolutivo voglio introdurre una voce un po’ più seria, quella del grande paleontologo e divulgatore scientifico Stephen Jay Gould. Gould era un evoluzionista, e questo ci fa venire in mente noiosi gentiluomini vittoriani con la barba lunga. Ma, fuori dagli stereotipi, la sua fede nell’evoluzione, tutt’altro che dogmatica o cieca, si contaminava con un’idea molto più stimolante e complessa, che potremmo definire come “nube evolutiva” (è la teoria, formulata assieme a Niles Eldrato, degli “equilibri puntuati” (o “punteggiati”). Per Gould l’evoluzione esiste, ma non è lineare, necessaria, teleologicamente predeterminata da una misteriosa astuzia biologica. Si tratta piuttosto di un processo stocastico, casuale, nebuloso, pieno di passi falsi e di sopravvivenze non giustificate. Evolvere, per Gould, assomiglia molto più a vivere, con tutte le difficoltà che la vita comporta, che a discendere (che sembrerebbe piuttosto una questione di lasciti e di notai). La linearità di Darwin è sostituita dalla sorprendente e ingiustificata esistenza di forme viventi fossili che, in fin dei conti, avrebbero potuto farcela ma, per ragioni spesso casuali, non c’è l’hanno fatta. Questo Gould lo spiega in La vita meravigliosa, la storia del paleontologo Charles Doolittle Walcott e del ricchissimo giacimento di fossili di Burgess: la sovrabbondanza di forme di vita potenzialmente vincenti dal punto di vista evolutivo che sono state tuttavia spazzate via contrasta con l’idea tradizionale che ci si fa dell’evoluzione, intesa come discendenza lineare che porta, ad esempio, dalla scimmia all’uomo. Gould, insomma, ci spiega che “la vita è un cespuglio che si ramifica copiosamente, continuamente sfrondata dalla sinistra mietitrice dell’estinzione, non una scala di progresso prevedibile [3] ”.

In uno dei suoi libri più belli, Il pollice del panda, una silloge degli articoli scritti per la rivista Natural History, Gould rifila una spallata terrificante a tutte le teorie che sembrano andare alla ricerca di qualche rigida forma di razionalità evolutiva. Gould, nel saggio che dà il titolo alla raccolta, studia il pollice opponibile del panda, unico in natura, soffermandosi sulla natura derivata e adattiva di questa parte della zampa: il panda, anatomicamente parlando, non possiede nulla che corrisponda ad un pollice vero e proprio, ma solo un osso del polso, il sesamoide radiale, che, allungandosi, lo ha messo nelle condizioni di utilizzarlo come se fosse quello che noi chiamiamo un pollice. Come dire che l’adattamento e la pressione selettiva hanno portato l’animale ad utilizzare quello che aveva a disposizione, un osso leggermente più allungato, per aumentare le proprie possibilità di sopravvivenza. L’evoluzione, perciò, è tutt’altro che una scala solida e sicura che porta alla perfezione degli esseri viventi: è piuttosto un’azione di riciclo continuo che riutilizza parti anatomiche diversissime per adattarle ad usi alternativi. Il panda non possiede un pollice, ma vive come se lo avesse, afferrando il bambù con il suo ossicino “adattato”. L’esistenza stessa del pollice del panda rivela, agli occhi di Gould, la natura tortuosa e, per così dire, abduttiva del percorso evolutivo: si cambia seguendo un misto di necessità e di caso, inventando usi non convenzionali di parti del corpo che fino a un certo punto erano state utilizzate in modo tradizionale. Non esiste linea retta nell’evoluzione, ci sono solo percorsi congetturali, usi impropri, travisamenti anatomici, utilizzi innaturali di quello che la natura ci ha fornito. Secondo Gould “”in sistemi complessi, la regolarità di entrata può tradursi in un cambiamento episodico in uscita [4] ”. Vale a dire che un sistema complesso funziona – ed evolve – più sulla base di eccezioni che attraverso regole. Ne viene fuori un’immagine della natura sempre più funzionalista e sempre meno lineare: una natura pragmatica, che bada al risultato e non si innamora delle proprie invenzioni. È l’idea stessa di perfezione della natura ad essere messa in discussione, per lasciare spazio ad una straordinaria e imprevedibile fioritura di forme di vita perfettamente imperfette.

La mia idea è che per gestire il cambiamento bisognerebbe scoprire dove si trova l’ossicino del polso di ognuno - quel pollice in potenza che tutti dovremmo avere da qualche parte (e che spesso consiste in un pollice emotivo e mentale) e che potrebbe, se valorizzato, mettere le persone nelle condizioni di vivere il cambiamento organizzativo come una chance importante di trasformazione e crescita personale - per verificare la possibilità di farne uso diverso. Occorre lavorare sulla moltiplicazione delle risorse offerte alle persone, evitare di proporre un’idea di cambiamento come evoluzione necessaria. Pensare la componente evolutiva come componente personale, inseparabile dalle variazioni e dalle fluttuazioni del contesto, ma pur sempre legata al percorso che la persona deve tracciare innanzitutto su di sé e dentro di sé.



[1] Mi riferisco a Cambiamento: sofferenza e responsabilità individuale. Sullo stesso tema si veda anche il contributo di Davide Storni, Cambiamento: possibilità, opportunità, desideri.

[2] Ricordo qui che il Dodo, in realtà, si è estinto alla fine del XIX secolo a causa della caccia e dell’alterazione complessiva del suo ecosistema causata dalla presenza di animali non autoctoni – soprattutto cani e maiali – introdotti dagli europei  che colonizzarono l’Australia.

[3] S.J. Gould, La vita meravigliosa, Feltrinelli, Milano 1989, pag. 30.

[4] S.J. Gould, Il pollice del panda, Editori Riuniti, Roma 1983, pag. 37.

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