BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 20/10/2008

AZIENDE INVISIBILI, AUTORI IPOTETICI, MANIERISMI CALVINIANI

di Nicola Gaiarin

Leggo l’intervento di Varanini su Bloom e giro qualche riflessione. Intanto il gioco di Francesco è davvero splendido, un perfido capovolgimento di senso, un meta-gioco che abbatte il meta per parlare direttamente del gioco. Una confessione di chi vuole scomparire e rimane come traccia di imprenditore-imbroglione. Smonta il personaggio Calvino per farne uscire una specie di ironico (mica tanto!) lato oscuro, sul quale abbiamo avuto già modo di confrontarci su Eseresi. Poi i temi che tocca: non c'è dubbio che la difficoltà nell'assegnare i racconti agli autori sia un problema e che il sentirsi “autore” è un vizio al quale molti di noi cedono. Detto questo vengo al tema centrale (per me): il rapporto tra autore e opera e il gioco a raffreddare di Calvino. Certo che nel gioco della torre butto Calvino se ci sono dall'altra parte Cortázar e Perec. Mi chiedo però se i limiti di questo tipo di scrittura non siano diversi da quelli che indica Francesco. Intendo dire che Calvino è evidentemente un non-scrittore, un prosatore, un Leopardiano-Leonardiano utopista e non un romanziere. Il problema non è Calvino, ma l'apparato di ricezioni che lo ha fatto diventare una specie di intoccabile, un dato acquisito nelle storie delle patrie lettere. Lui ha saputo sicuramente costruirsi una carriera, ma basta leggerne gli scritti giovanili per trovare tutte le beceraggini di partito che fanno capire come la sua tanto osannata intelligenza formale fosse accompagnata da una scarsa empatia con la realtà. Allora perché ci piace un depotenziato come lui, perché è stato lo scrittore del nostro passaggio di secolo? Perché sta tutto in una tasca, è compatto e leggero, non è impegnativo ed è morto al “momento giusto”, con quel capolavoro di self help letterario che sono le Lezioni americane.

Ali Babà e il Gran Kahn
Non è forse un caso che un grande amico di Calvino, Gianni Celati, ricordando i suoi viaggi su una macchina scassata fino a Londra racconti delle sue deviazioni verso Parigi, a casa di Calvino, in Square de Chatillon, e delle conversazioni con l’amico che era anche un poco un maestro. Celati - che a quel tempo, nella sua sete di letture e teorie e visioni del mondo portava a Calvino i libri, i filosofi, le idee che giravano nell’aria - dice che si sentiva un po’ come Marco Polo che sciorina le sue mercanzie intellettuali davanti al Gran Khan Calvino. Nel suo omaggio all’amico scomparso Celati offre un dono avvelenato, perché identificare Calvino con il Gran Kahn è anche mettere lo scrittore ligure in quella posizione di potere che poi tutti oggi, implicitamente, gli riconoscono. Erano gli anni in cui i due amici, assieme tra gli altri a Calzo Ginzburg, lavoravano all’idea di una rivista mai nata, Ali Babà, che doveva essere una specie di grotta delle meraviglie piena di racconti, modelli, tracce di culture sepolte, disegni, fumetti.
Da quel laboratorio escono Le città invisibili, nel 1972. E il Calvino Gran Khan ora sembra un po’ oscurare il cercatore di tesori che guarda incantato i frammenti di una modernità caotica ma ancora ricca di speranze e utopie (gli anni settanta sono anche quelli del Calvino lettore appassionato di Fourier). Poi accadono varie cose – una di queste è il terrorismo – che riportano Calvino nell’alveo tutto sommato sicuro del contemplatore che non si sporca troppo le mani. È un’immagine riduttiva, ma se c’è un tratto comune in tutto il percorso calviniano è la sua tendenza a raffreddare scrittura ed esperienza attraverso le lenti dello scienziato.
 
Un caso di follia
Portogruaro, provincia di Venezia, gennaio 1955. Su una piccola isola coperta di alberi e cespugli al centro del  Rio Reghena, affluente del placido e poderoso Fiume Lemene, c’è il cadavere di  un uomo. Non è un uomo qualsiasi, ma Cannarozzo, protagonista di uno dei più celebri casi di cronaca nera degli anni cinquanta (e ora purtroppo dimenticato). Pochi giorni prima, Il Maresciallo della guardia di finanza Michele Cannarozzo, frustrato per l’impossibilità di ottenere una casa popolare, era entrato in un cinema di Ancona, dove stavano proiettando Pane Amore e Gelosia. È un quadretto del boom niente male, il cinema sdolcinato che piaceva tanto alla DC, le case popolari, gli statali. Solo che Cannarozzo ha con sé quattro bombe. Il Maresciallo sale in galleria e lancia gli ordigni tra il pubblico. Due donne muoiono (una, pare, decapitata), i feriti si contano a decine. Compiuto il misfatto, fugge verso Nord e arriva a Portogruaro, dove aveva dei contatti. Preso dal rimorso, forse rendendosi conto di essereormai in trappola, va sull’isoletta sul Reghena e si uccide, dopo aver lasciato un memoriale in cui racconta la propria storia. Il caso desta grande impressione e la Domenica del Corriere dedica a Cannarozzo una copertina in cui si vede il sottufficiale, con gli occhi spiritati mentre scaglia le sue bombe sul pubblico inerme.

Perché citare questo episodio di cronaca? Perché il 29 gennaio 1955 esce sul Contemporaneo un articolo di Calvino sulla storia del “Sottufficiale impazzito”. Da questa fosca vicenda - decisamente triste nel suo essere emblematica di un mondo in cui da una parte c’era Pane amore e gelosia e dall’altra ci si ammazzava per problemi di graduatorie e di possibili raggiri nell’assegnazione di un alloggio, in cui il boom era accompagnato da ben altri “bum!”- Calvino estrae un pezzo di cronaca rosso-nera. Nel senso politico e non milanista del termine. A leggerlo si rimane colpiti dallo stile: lo scrittore spara frasi del tipo “pur ottenebrato dalla demenza”, “ha spento su di sé la sua rabbia distruggitrice”, “il suo memoriale, scritto con la sovrabbondanza logica dei grafomani”, “per inconscio mimetismo, Cannarozzo dall’alto della galleria del cinema ripetè un atto … quello dell’aeroplano che nel buio sgancia le sue bombe” poi concede “Se una tregua di giudizio è richiesta per la pazzia, presentandosi essa come cieco fatto di natura”. Ora, sarebbe scorretto voler far dire troppo a questo testo di circostanza, che oscilla tra la bonaria commozione per il misfatto “demente” e una stigmatizzazione del Cannarozzo nel suo ruolo di pubblico ufficiale e strumento di regime, ma colpisce il linguaggio pseudo-lombrosiano di Calvino. N
on c’è traccia in queste pagine del simpatizzante di Queneau, il quale già nel ‘38, nei Figli del limo, aveva mostrato la solitaria grandezza dei folli letterari. Calvino, non dimentichiamolo, stava nel 1955 lavorando a quelle fiabe italiane che avrebbero portato avanti la sua immagine di “fiabesco” e leggiadro scoiattolo delle lettere. Se c’è qualcosa di profondamente calviniano nell’articolo su Cannarozzo (intitolato, lo ripeto, “Il sottufficiale impazzito”) è la mancanza di sentimento e di pietas che traspare dalle sentenze veteropositiviste dello scrittore ligure. Insomma, frasi come “Ottenebrato dalla demenza” o il disprezzo malcelato per la sovrabbondanza logica da Calvino non ce le aspetteremmo. Oppure sì?

Aziende Calviniane?
Proprio per questa ambiguità di fondo Calvino sta bene in un'operazione come quella delle Aziende invisibili, che è Calviniana proprio per la sua volontà di affabulare e affascinare con un labirinto di storie incrociate. Ma anche per la scelta di rifondere tutto in un quadro unico, per il suo non voler lasciare che i frammenti e le piste parlino da sole ed esplodano. La narrazione trasmette pezzi di esperienza ma, se si esagera con la pulsione combinatoria, può allontanare l’esperienza invece di avvicinarla. Questo, forse, dipende dal testo e dall’autore di partenza, che incurva lo spazio narrativo attorno a lui. Anche se proviamo a staccarci dalla sua figura, Calvino sembra attirarci in una trappola fatta di morbide ironie metaletterarie. Non è immaginabile, secondo me, un’operazione del genere su, poniamo, Kafka o su Cortázar, troppo anarchico per poter essere tenuto a bada. O pensiamo a cosa sarebbe venuto fuori se si fosse partiti dagli Scritti Corsari di Pasolini… Effettivamente ci sono autori sui quali ci si può mettere in scia e autori con i quali è difficile giocare e il rischio è sempre quello di scottarcisi le mani.
L’iniziativa rimane molto interessante, ma l’impressione è che ci possa essere un sovraccarico di senso, un voler dire o far dire troppo. C’è forse troppo nelle Aziende invisibili (ed è il bello dell’operazione), ma forse è un troppo controllato, al punto che i sentieri a forza di biforcare generano un eccesso di “senso unico”, naturale per la scelta di dare tutto sommato al progetto una cornice più “forte” di quella dello stesso Calvino. Potrebbe essere interessante riprendere il mio pezzo di partenza, perché quello che c'è nel libro in realtà è la “mia” azienda, mutata da Marco Minghetti, infilata nelle mutazioni degli altri Living Mutants, che più che a Dick mi fa pensare, ironicamente, a Matrix: matrice centrale che riporta tutto a un senso unico e a una realtà troppo virtuale che rischia di rendere tutto sommato innocui i testi. Rimettere in circolazione i materiali di partenza sarebbe un modo per rivoltare il tessuto del testo, portarne alla luce le cuciture, gli strappi e gli sbreghi.
E allora forse le vere aziende invisibili sono quelle in progress che Marco ha pazientemente ricucito nei mesi in cui ha portato avanti il progetto, così come il vero Calvino sta forse nel suo lavoro dietro le quinte, nel suo scrivere per i “libri degli altri”, nel suo essere redattore paziente e gentile alla Einaudi. Allora, le aziende invisibili vivono soprattutto in tutte quelle schegge che stanno attorno al testo, nelle versioni parziali, nel blog di Marco, nell’entusiasmo di chi ha preso parte all’iniziativa. Nel versante Ali Babà più che in quello Gran Khan. E capisco cosa a Varanini non piaccia dell’operazione: per lui la scrittura è messa in gioco del livello personale, tentativo di abbassare il tiro, movimento rasoterra, magmatica esplorazione di sé  che non ha paura di perdere il filo. In fondo, ha scritto un libro sulla letteratura latinoamericana come diario di incontri per lui importanti, una controstoria come autobiografia esplicita.
Non gli piace la maniera, e Calvino è manierista (parola di un altro grande manierista come Giorgio Manganelli). Marco ha montato la sua versione del libro, l’ha incorniciata con i temi che gli stanno più a cuore. Forse sarebbe stato più interessante un libro fatto meno di cornici e più di smontaggi. In fondo, per un cerebrale come me c’è sempre un piacere nel gioco delle maschere e quindi nello stare nel gioco proposto da Marco. Ma i giochi, si sa, possono generare effetti e cortocircuiti nella realtà. Allora la mia vera azienda in-visibile è quella che racconto ora.

Il caso dei nomi scambiati
Diventa divertente, anche se non mi ha fatto ridere per niente, anzi, mi ha fatto incavolare molto e mi farà incavolare ancora se non ci sarà l'errata corrige, quello che è successo sul Sole 24 ore di domenica 5 ottobre: da un testo collettivo che si chiama Le aziende invisibili viene estratto, in modo secondo me forzato, il racconto di uno dei partecipanti, senza che la cornice sia chiarita (il problema, immagino, è del redattore). Il testo è l’azienda invisibile di Innocenzo Cipolletta. Inizio a leggerlo e riconosco un altro testo, quello su Pirra, scritto da Giovanna Tinunin assieme ad Alessandro Rinaldi. Sul Sole volevano pubblicare una città e ne hanno pubblicata un’altra, lasciando però il nome di Cipolletta. Giovanna lo legge e, paradossalmente più divertita di me, conferma che il testo è quello suo e di Alessandro, che ora legge con il nome di un altro come autore. Uno strano caso di pseudonimia forzata!! Come dire, attenzione a non fare gli anonimi con i nomi degli altri e - a pensare male forse ci si imbrocca - se il Sole deve pubblicare un testo sul suo inserto, poi pubblica quello di Cipolletta e non quello di un nome meno noto. Ovvio che sono maligno perché Giovanna è la mia compagna, Alessandro un mio grande amico, li ho invitati io a scrivere sulle Aziende invisibili, e sono imbarazzato per la cosa. Il gioco manierista mi provoca problemi molto reali…
A dire il vero, a tutta prima avevo pensato a un geniale detournement calviniano, a un gioco di nomi falsi e false piste. Anche perché Cipolletta è un fantastico nome da redattore Calviniano (remember il dottor Cavedagna-Ponchiroli?), da personaggio di sceneggiatura disneyana di Rodolfo Cimino o da Jacovitti, tipo Pippo Pertica e Palla, Cocco Bill e la Signora Carlomagno. Ovviamente scherzo, ognuno ha i suoi cognomi, ma è interessante trarre questa riflessione: spesso quando si cerca di lavorare sull’anonimato poi ci si trova di fronte a un establishment culturale che gioca in retroguardia, e va a cercare il “nome” a tutti i costi.
E così tradisco anche il mio feticismo nei confronti della pagina stampata, l’attaccamento all’immagine dell’autore, l’idea dello scripta manent, il continuare a dare più peso alla carta che, supponiamo, alla rete. Predico bene e razzolo male e, se, poniamo, mi venisse detto “Preferisci dieci articoli su Bloom o uno sul Sole?” mi troverei in serio imbarazzo … Mi colpisce però come Giovanna, su tutta la faccenda, sia più distaccata di me. Anzi, empatizza sinceramente con Cipolletta, che si vede attribuire un testo collettivo anonimo ma a nome suo che in realtà è il testo di un altro, anzi, di altri due, e che è stato poi leggermente modificato dal curatore del volume mutante e transpersonale in cui è apparso. Per continuare a scherzare, chissà che grane per Cipolletta, magari guardato con sospetto dai colleghi per un testo che è un elogio del viaggio on the road, una lynchiana strada perduta, un peana al traffico su gomma e al fascino degli Autogrill scritto proprio da lui, dal Presidente delle Ferrovie…
L’autore è una convenzione, come dice Varanini. Poi però è difficile sottrarsi alla sua attrazione.

David Foster Wallace e Cannarozzo
Per tornare a Calvino, si potrebbe pensare che il suo distacco, questa specie di raffreddamento del vissuto per diventare un semplice fatto di stile, la ricerca di scrivere un’opera senza “self”, sia connaturata all’dea di “postmodernismo” trionfante. Non parliamo di sentimenti in modo diretto, ma ne parliamo tra virgolette. L’esperienza è sempre mediata dal linguaggio, tutto si riduce a codici, giochi linguistici, ecc. Poi però succedono cose come quelle di David Foster Wallace, che, per quanto si sappia che l'opera non si riduce al suo autore, rende davvero doloroso e toccante rileggere uno a caso dei suoi libri, che sono libri tristi ora che sia sa che la sua depressione e i suoi suicidi e le sue dipendenze e il suo stress da successo e il suo buco nero non erano pose da creative writing, ma squarci di dark side e di anima lacerata. E che quelle centinaia di pagine di note e tutti quei suoi pezzi di bravura erano forse veli sottilissimi stesi sul male oscuro e su anni di farmaci e sul suo altro talento, quello di tennista, così automatico e vuoto e “divino” rispetto al talento di scrittore, così pieno di autoriflessioni e metariflessioni e di decostruzioni da diventare intollerabile. E inutile, ma per noi lettori ora più che mai necessario. E cosa possiamo dire di Wallace: forse, come per Cannarozzo, che era ottenebrato dalla demenza o possiamo parlare della sovrabbondanza logica da grafomane? Poi però ecco cosa sapeva scrivere il genio con la bandana, quando ancora controllava la depressione e riusciva a fare la cosa che sapeva fare come pochi altri, essere intelligente e toccante e vero:

“Com’è spesso la procedura standard con la verità, c’è un paradosso crudele implicito. Potrebbe essere che noi spettatori, privi dei doni divini degli atleti, siamo davvero gli unici in grado di vedere, esprimere e animare l’esperienza del dono a noi negato. E che coloro i quali ricevono e mettono in pratica il dono del genio atletico debbano, di necessità, essere ciechi e muti al riguardo, e non perché la cecità e il mutismo siano il prezzo di quel dono, ma perché ne sono l’essenza”.

DFWPerché Tracy Austin mi ha spezzato il cuore” in Considera l’aragosta

Altri nomi
Allora, come al solito, è una questione di nomi: chi scrive è chi ha provato cose o chi ha capito cose o chi ha sentito dire cose. Scrittori che trasmettono esperienze e vissuti e sensazioni o pulsioni violente o impalpabili (Bianciardi, Murakami, Miller, Muriel Spark, Ingeborg Bachmann, FS Fitzgerald, McEwan), scrittori che creano mappe del mondo e ordinano la realtà sulla base delle loro ossessioni (Mann, Borges, Calvino, Gombrowicz, Stevenson, Nabokov, Tolkien, Bolano), scrittori ventriloqui che fanno le voci e si reggono sullo stile o sui personaggi e che scrivono un unico lunghissimo libro (Dickens, Balzac, Arbasino, Celine, Philip Roth, Joyce, Hrabal, HP Lovecraft, Wu Ming).
I grandi fanno tutte e tre le cose (Cortázar, Perec, DF Wallace, Dick, Ballard, Woolf, Gadda, Primo Levi, Bulgakov).
Poi c’è anche gente come Kafka o Melville o Flaubert o Gogol, ma questi per me vengono da un altro mondo.

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