BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 09/06/2003

L'ECONOMIA MERCANTILE: COME UN DELIRIO. INTERVISTA A ACHILLE ROSSI
di Loredana Galassini

Un po’ bisogna andare a cercarselo, don Achille Rossi, filosofo, scrittore, editore che però, non trascura, alla maniera di don Milani, la relazione più prossima, quella del luogo, del “locale”. Amico di Ivan Illich, divulgatore del pensiero altissimo di Raimond Panikkar, di lui ho letto recentemente “Il mito del mercato” ( Città Aperta Edizioni, l’altrapagina, Troina, febbraio 2002), un libro agile, essenziale, concretamente lucido. L’articolazione del mito, la lettura antropologica, l’arte del dialogo e azioni che portino ad una nuova visione della vita, sono gli strumenti che diventano sapienti nella elaborazione del testo.
La conversazione si è svolta nella parrocchia di Città di Castello.

Buongiorno. Vorrei iniziare subito con una sua affermazione categorica: il problema dell’economia non è un problema economico, ma antropologico.
Contrariamente a quanto possano affermare manager ed economisti, cioè che il problema dell’economia sia di organizzazione migliore perché le sfide di oggi sono più complesse, ritengo che al fondo, invece, ci sia un problema di ordine diverso: è la visione di uomo che è sottostante, che è soggiacente a questa forma di economia, che non funziona e oggi lo vediamo ancora meglio. Andiamo verso una mercificazione totale di tutto, come mai? Io mi chiedo, come mai, abbiamo un sistema capace di risolvere il problema della fame e non ci riusciamo. Da che dipende? Non certo dalla mancanza di mezzi e neanche dalla volontà politica perché nel mondo c’è una certa, diffusa volontà di risolvere il problema. Penso che bisogna usare altre lenti per guardare, perché se non abbiamo un’antropologia così attenta da cogliere l’uomo per quello che veramente è, allora non riusciremo a risolvere i problemi. Prendiamo il sistema finanziario: è un vero gioco al massacro, dove i più poveri non contano perché ci si impone solo di maggiorare il profitto, quindi anche lì una guerra contro i poveri. Ma perché si fa questa guerra? E siamo sempre lì, perché il sistema antropologico è fasullo, la visione dell’uomo è fasulla. Abbiamo visto la recente guerra, le altre guerre che ci sono. Le spese militari, tra Usa ed Europa sono circa 700 miliardi di dollari. Un sistema, basato su questa moltiplicazione e proliferazione delle armi, mette in mostra un’anima violenta che deriva da visione violenta del mondo. Sono tutti fatti che mi portano a dire che non è tanto l’organizzazione politica, che pure ha le sue responsabilità, ma è la visione dell’uomo che sta dietro che non va bene. Per dirlo in maniera più concreta: penso che derivi dal fatto che l’economia è diventata mitica. E’ una visione, in qualche modo, accettata per fede. A mio parere, tutti questi controsensi nascono da una visione corta dell’uomo. Oserei dire, anche sballata, se potessi parlare così, fuori dai denti. Sballata, non è realistica.
Una concezione dell’uomo che fa la guerra ai poveri, che non ha fiducia nell’uomo per cui moltiplica le armi e che lo rende solo consumatore per cui lo condanna, veramente, ad una esistenza nichilistica e infelice…ecco tutte queste cose nascono per un’antropologia che non può andare avanti così. Se andremo avanti con questa antropologia, non cambieremo nulla. Il problema non è tanto di mutare la politica, senz’altro. Ma è un secondo problema, prima bisogna mutare la visione antropologica.

Lei scrive che c’è una nuova mitologia: la teologia del sistema mercantile. De-strutturazione e ri-creazione del mito. La de-strutturazione del mito mercantile, cosa porterà? La creazione di nuovi miti? Il mito è necessario alla costruzione di un progetto?
Io credo che non possiamo fare a meno del mito. E’ come quella zona d’ombra che accompagna la zona di luce. Se lei punta un faro contro una parete buia, vede una scia luminosa, un angolo luminoso, ma poi vede anche il buio. Se sposta il faro, il buio si ricrea da un’altra parte. Meriterebbe un discorso più ampio, ma intanto dico che il mito, la razionalità e la spiritualità sono tre componenti essenziali dell’umano. Nessuna delle tre, può essere tolta via ma intanto quando dico, che questo mito qui, è perverso, ci aggiungo qualcosa.

Vuole tracciare il percorso mitologico mercantile, per lei, così perverso?
Si tratta di un mito anche pericoloso perché è come se ci dicesse che questa è la realtà e non si può fare niente, perché dalla realtà non si può uscire. Questo mito che si è creato attraverso un lavorio storico e politico, in questa fase, ci fa dimenticare tutto questo processo e ci dice questa è la realtà, si configura così e dalla realtà non si può uscire. Ma il problema della realtà è che se non si può uscire, bisogna accettarla e quindi diventa anche la conservazione dell’esistente, mentre se uno analizza il percorso attraverso cui si è formato, si accorge di questa strutturazione mitica. Qui insisto, voglio anche far vedere come si è formato. C’è un aspetto dell’economia che è vistoso, è quello che vediamo tutti, che è il sistema dentro cui tutti siamo. Poi c’è l’aspetto dell’economia che sostiene l’umanità dell’uomo e questo è mitico ed è un punto fondamentale, perché sostituisce ed esercita il ruolo di funzione fondamentale. Sorreggere l’umanità, in altri tempi, è stata funzione del sacro oppure le ideologie sorreggevano, dio sorreggeva…

Ma questo è un mito dell’economia, della scienza o fa parte proprio dell’essere umano? Recentemente, in un incontro scientifico, si sosteneva che per la prima volta, attraverso la manipolazione genetica, interveniva, coscientemente, nel cambiamento della vita, della natura. L’uomo, finalmente demiurgo. Possiamo fermarci un attimo su questo desiderio di creatività?
Mi sembra l’idea portante della modernità: diventare padroni e possessori della natura come già diceva Bacone. Ma io credo che noi oggi vediamo anche un aspetto in negativo di questa idea demiurgica. Vediamo poi, alla fine, che un’idea demiurgica a questo livello, produce un uomo che è dipendente dall’altro uomo, che è distrutto dall’altro uomo…eh, siamo in grado di vedere anche l’altro versante, per cui non credo che rispetti la piena umanità dell’uomo questa visione mitica scientista. L’uomo è anche qualcosa che tende verso, che è aperto verso…questo dire che con quello che costruisco e manipolo, si realizzerà l’umanità piena, beh, questo non mi sembra che sia vero. E’ l’idea che ha almeno una parte della modernità, ma non credo che sia vera. La modernità ha portato avanti quest’idea dell’uomo ma alla fine, quando la natura si rivolta, l’uomo lo sa che non è padrone di niente. E in economia ha prodotto un sistema in cui l’uomo è una variabile, perché l’importante è che si regga il sistema. Dell’uomo se ne può tranquillamente fare a meno, tanto è vero che si possono usare tutte le schiavitù. Non è importante, purché il sistema si mantenga e che giri.

E’ per questo che lei dice che è perverso. Ma lei dice anche che nasconde una teologia.
Certo, c’è una teologia nascosta. Questo è un dio perverso, non è un dio che libera, è un dio che schiavizza, per cui alla fine ci sono solo duecento famiglie che tengono in piedi questo sistema. E’ vero, l’uomo realizza tante cose, ma alla fine, lo strumento prende il sopravvento. Al di là di una certa soglia, lo strumento non è più strumento, è padrone, come diceva giustamente Ivan Illich in un’analisi che mi sembra insuperata. Tutto il complesso tecnocratico, arrivati ad una certa soglia, è uno strumento che asservisce l’uomo, non lo libera, lo utilizza per i suoi fini, per l’alto mantenimento del sistema. Il sistema tecnocratico, non è tecnica, è tecnologia, una macchina di secondo grado, in un certo senso. La macchina ha delle regolarità che alla fine schiacciano l’uomo e lo costringono a fare in quel modo, tant’è vero che l’uomo dell’Occidente è a corto di tempo, non ha tempo…chi glielo ha preso il tempo, una macchina di secondo grado?

In certi ambiti scientifici, però, si pensa a connubi tra uomo-macchina, il simbionte, che possa assicurare all’uomo l’eternità.
Non conosco queste teorie, però mi sembra siano il prolungamento della stessa illusione. L’uomo, creandosi una macchina più sofisticata, riuscirà a risolvere i problemi eterni che ha sempre avuto, del suo significato, della sua apertura infinita…non è che moltiplicando la macchina o facendosi macchina, trovi queste risposte. Mi sembra che siamo alla meccanizzazione della sua spiritualità e mi sembra il colmo dell’abiezione. Non mi sembra che l’uomo vada verso la sua liberazione, ma che seppellisca quello che è più profondo, che meccanizzi ciò che è più spirituale. Se, quello che ho chiamato “il tendere verso” lo facciamo dipendere solo dalla macchina e diciamo che quella via è macchinina, penso che avremmo umiliato l’uomo fino al fondo.

Lei ha letto l’economia mercantile come un delirio e dice che dopo una diagnosi, occorre una de-costruzione e una prospettiva costruttiva. Una nuova mitologia o una consapevolezza?
Io credo una consapevolezza, perché fa rendere conto che quel percepire l’economia come mito non funziona. Percepire l’economia come ciò che fa stare in piedi l’umanità dell’uomo, non funziona. Quello che ci sostiene, è altro, è quella che chiamo la funzione fondamentale e che non può essere categorizzata con niente. E’ la funzione che deve rimanere sempre aperta. Se la strutturo e dico che è l’economia che tiene in piedi la nostra umanità, ho già messo in atto il meccanismo dell’idolatria, l’ ho ossificata, l’ ho fossilizzata. Invece deve restare sempre aperta. Se vuole, è la funzione dell’invisibile. Oppure…chiamarla spiritualità non mi piace tanto…è quella realtà che deve rimanere aperta perché l’uomo possa vivere…chiamiamolo come vogliamo, ma l’importante è sapere che è quella realtà lì che tiene in piedi l’umanità dell’uomo ed è sempre aperta, non è fossilizzata in nessun oggetto e in nessun concetto. E’ la relazione umana, invece, che tiene in piedi l’umanità. E’ la relazione che può adempiere a questa funzione fondamentale perché nella relazione scopro il fondo della verità. Raimond Panikkar ha una bellissima espressione, l’inter-indipendenza. Un’indipendenza, perché ciascuno ha una forma di indipendenza, se stesso, ma è inter, in comunione con e questa non è solo ideale, ma è anche di traffici, di commerci, di interscambi. La globalizzazione, invece dice che c’è una visione sola e fatalmente poi produce una politica, una economia e poi dice che quella è la migliore. Ecco io temo che siamo tutti un po’ figli anche di un’altra accettazione passiva, come quella frase di McLuhan che dice che siamo in un villaggio globale, solo perché passano le comunicazioni, mentre i villaggi sono tanti. Sono tanti quante sono le culture. Ogni villaggio ha la sua cultura, i suoi scambi, ma l’importante è che ognuno abbia la sua indipendenza nel momento stesso in cui è in comunicazione, sennò diventa solo una particella di questa globalizzazione, che non può essere positiva perché aggrega tutti in un unico modello. E’ uniformizzazione. Vorrei porre l’accento proprio sull’alterità degli altri, a coloro che non hanno i nostri criteri di giudizio. Penso siamo un po’ irriverenti quando parliamo di globalizzazione complessivamente, anche quando parliamo di comunicazione, di media. Di dove sono realmente gli altri, ai quali interessa l’interscambio, ma non interessa il modello nostro, perché non lo vogliono o sono forzati a entrarci da noi, ma non lo vorrebbero. Un’attenzione maggiore all’interculturalità, alle specificità delle culture altre, ci porterebbe a capire che l’economia capitalistica interessa meno, mentre interessa altro rispetto a questa frenesia di lavorare per accumulare. Ogni cultura sa di economia, solo che non è la nostra. Non voglio disprezzare neanche la nostra, solo che è limitata. E questo significa che non può essere assolutizzata e non può essere imposta, perché c’è salvezza anche in altri posti e in altri modi.

La responsabilità di questo modello è certamente anche nei fruitori, nei consumatori, ma sicuramente e soprattutto in chi continua a proporlo come unico.
E’ certamente in chi continua a proporlo come la “realtà”. Se la realtà è, come abbiamo visto, questo mito, che ha avuto una fase storica, che si propone come il sostegno dell’umanità dell’uomo e che diventa invisibile…Ecco, questa è una cosa che avevo dimenticato di dire prima: diventa invisibile. Come sostegno dell’umanità dell’uomo, diventa invisibile e viene creduto. E’ lì l’aspetto mitico. Smantellare quest’aspetto mitico, guardandolo, questa è costruzione storica che non serve a sostenere in ogni caso la gente. La gente sta in piedi per altre cose. Dire questo significa avviare un’opera di smantellamento che però, secondo me e la chiamo la grande trasformazione, è la capacità di rileggere con altri occhi tutto quello che c’è e di avviarlo su un’altra pista. Per esempio, quando scrivo che non sputerei sul denaro, non sputerei sulla competitività e nemmeno sulla crescita, è perché letti da un’altra angolatura, dicono qualcosa dell’uomo. Non butterei niente, credo che tutti questi aspetti abbiano un senso, ma non in quest’ottica. Sono aspetti del mito che vanno destrutturati. Intendo seriamente destrutturate, ripensare radicalmente tutto, ma non per demolire con mania dissacratoria, ma per riprendere tutto da un’altra angolatura.

Giorni fa, leggevo un’analisi di Franco Berardi sul suicidio micidiale. Questa consapevolezza, che fa paura, forse aiuta a destrutturare il mito, perché se l’uomo non riesce a legare la sua situazione di cosiddetto benessere al principio di responsabilità rispetto al pianeta, rischia il suicidio micidiale. Lei cosa ne pensa, c’è un rischio reale?
Credo sia un rischio reale, siamo proprio su una cattiva strada e proprio per quello che dicevamo all’inizio: un sistema di guerra, grande produzione di armi, un sistema economico cieco e che si trova impotente di fronte ai bisogni primari dell’umanità. Ma per reggere questa divisione del mondo fatta così, con il 20 per cento che ha l’ottanta per cento delle risorse, ci vuole la guerra, è semplice. Non può stare in piedi su una condivisione, ha bisogno del metodo forte. E questo è chiarissimo. L’amministrazione americana, credo, ha reso evidente quello che forse avevano chiaro solo alcuni e nascosto i più. Oggi è evidente ai più: noi abbiamo bisogno del petrolio e lo prendiamo dove c’è. Noi abbiamo bisogno della guerra commerciale, la facciamo come ci pare. Abbiamo bisogno del diritto della forza, pieghiamo il diritto. Mi pare che sia evidente, ma ancora una volta siamo su una cattiva strada perché la visione di questo uomo che sta sotto il sistema, che spinge ad accumulare sempre di più, è falsa. Per questo c’è bisogno di un’antropologia diversa. Se voglio ricostruire con la politica classica, che ha messo al centro la competitività, la sopraffazione, è evidente che non vado da nessuna parte. Potrò fare solo dei piccoli rabberciamenti al sistema, ma non cambio profondamente niente. Ecco allora che, parlare della pace oggi, va bene, ma come dico ai ragazzi, siate coscienti che ci vuole un’antropologia diversa per le cose che chiedete voi. Che bisognerà avere un modello meno consumistico, che bisognerà puntare sulla relazione interumana, se volete, sulla parsimonia. Significa anche che i beni umani sono limitati, che dovremo avere un nuovo sistema di regole. Ma già ci sono tanti processi. C’è quello culturale che intanto comincia a vedere che la guerra non è risolutiva, che questo metodo violento è distruttivo. E questo è il primo passo che già è entrato nella consapevolezza di larga parte dell’umanità. Dicono che i 187 milioni di esseri umani che hanno espresso il loro dissenso alla guerra sono pochi. Va bene, ma è un primo passo per capire che così non si potrà andare avanti e che allora si vorrà un nuovo diritto, una nuova cultura. Che non c’è pace se non c’è il riconoscimento dell’altro, e che la propria cultura è limitata e non si possono imporre democrazie o sviluppi o civiltà.

Il rigetto della guerra è fortemente sentito, ci sono grandi energie…
Certo. Troveranno una via giuridica che, secondo me, è la prima anche perché un diritto contrario alla guerra già c’è, solo che non viene rispettato o si cerca di calpestarlo. Ma questa difesa, per esempio, dei giuristi di tutto il mondo a difendere i diritti dell’Onu, è interessantissimo. Questo vuol dire che queste idee di rifiuto della violenza, di rifiuto della guerra, che hanno già preso corpo soprattutto alla fine del secondo conflitto mondiale, adesso stanno resistendo a questo scossone, a questo ritorno indietro. Ma è interessante anche la riconciliazione, perché solo la riconciliazione con l’altro può portare la pace. Questo esperimento splendido di cui non si parla, dell’Unione Sudafricana, dove nel processo, il criminale può essere liberato se l’altro è consapevole di perdono. L’ascolto dell’altro, abbandoniamo il discorso del villaggio globale. Cerchiamo di fare un’interfecondazione che sarà la cultura del domani: Non sappiamo come sarà, perché nessuno ha la ricetta e non si può scrivere prima, però siamo sulla strada giusta. Oggi assistiamo ad un passaggio delicato, perché si può sbagliare ancora tutto, ma interessante perché la guerra non ci salverà più, l’unico sistema economico non ci salverà più, la Terra non ne può più di un sistema economico così. Gli uomini cominciano a capire che con questi mezzi non andiamo lontano.
Viviamo un tempo in cui tutto può essere ridiscusso, che ha delle possibilità infinite. Rileggere al di fuori del mito, questi assiomi dominanti, per cui devono comandare solo i vincenti, che si debba fare la guerra alla natura per estrarne il massimo possibile di benessere materiale, che la società politica ha diritto ad essere guidata solo da quelli che hanno i soldi…insomma, tutte queste cose vanno superate, sono fasulle. Altre cose vanno elaborate culturalmente. Così credo possa prendere vita una cultura che sia da supporto ad una nuova politica. Solo una nuova antropologia partorisce una cultura nuova e una cultura politica all’altezza di queste sfide. Intorno all’idea del bene comune, va costruito qualcosa di solido. Non può esistere una società in cui siamo solo individui ed ognuno fa gli affari propri. Se il desiderio di stare bene, rimane in solitudine e non passa attraverso la relazione, diventa distruttivo. Bisogna liberare il desidero dalla caduta del possesso e liberarlo verso…rimettere alla base della convivenza il senso della relazione. L’altro non è mai strumento, in nessun senso, ma solo un mistero con cui confrontarsi. Ricostruire un tessuto, ricostruire nuovi significati perché sennò, oltretutto, quanto durerà la pazienza degli altri?

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