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Pubblicato in data: 23/06/2003

IL SEGRETO INDUSTRIALE, IL MERCATO E IL FATTORE UMANO, INTERVISTA A GIANNI TAMINO
di Loredana Galassini

Professor Tamino, [1] al di là delle parole, la globalizzazione neoliberista impedisce agli scienziati la comunicazione, quando li vincola al segreto industriale e al brevetto?

Non c’è dubbio che la globalizzazione è stata più volte giustificata (parliamo dal dopo seconda guerra mondiale con il Gatt e poi dopo il Wto) come il sistema per mettere in comunicazione anche le informazioni tecnico-scientifiche e aumentare l’opportunità di avere una comunicazione globalizzata, ma anche una ricerca a vantaggio di tutti. In realtà è proprio il contrario, perché  in molte università, anche di paesi ricchi, siamo testimoni di un problema grossissimo. La globalizzazione ha trasformato il sistema di ricerca in un sistema subordinato ai grandi interessi commerciali, alla logica di lavorare per permettere un aumento di produzione di un sistema industriale, non più per conoscere. Questo ha comportato che molte delle ricerche sono sottoposte a brevetto, tanto è vero che per esempio, anche il governo italiano, quando si misura l’efficienza dei luoghi di ricerca, ha adottato il criterio di misurare la ricerca in base  al numero di brevetti elaborati. Questo significa che quella ricerca, non è più  ricerca della collettività, non è più disponibile per tutti, ma entrerà in un ciclo industriale dove oltre al brevetto, il segreto industriale creerà ulteriori motivi per non conoscere.

Qui ci sono due problemi: da una parte che c’è uno scambio solo nell’ambito di accordi commerciali anche dell’informazione tecnico- scientifica e dall’altra che in un’ottica di privatizzazione anche della stessa ricerca, si va sempre più verso un accordo tra sistema pubblico e sistema privato per cui il primo mette a disposizione persone e strutture, ma i fondi sono messi a disposizione dal privato. Il risultato è che, pagando meno il privato, perché utilizza strutture pubbliche, riesce a finanziare ricerche di cui ha la gestione totale. Questo vuol dire sottrarre conoscenza pubblica a favore del privato, ma non solo. E’ chiaro che la struttura pubblica deve occuparsi della ricerca finalizzata alla produttività, alla produzione, agli interessi tecnologici, ma siccome manca una ricerca in grado di controllare quel settore, oggi la struttura pubblica, non è più in grado di effettuare un controllo, diciamo neutrale o di interesse collettivo, su quella che è l’attività industriale.

Il problema centrale è, in questo inizio di millennio, la parola bios in tutte le sue accezioni. Può spiegarci quali sono i cambiamenti e cosa comportano?

Il suffisso bio è stato utilizzato, anche giustamente per alcuni versi, come significativo di qualcosa di positivo. In passato si utilizzava per i detersivi, per i prodotti più incredibili, come elemento di un valore aggiunto. E’ diventato, quindi, strumento di una trasmissione ideologica, di un’idea che poi, però, non trova corrispondenza. Quindi, negli anni ‘80, all’interno di questa logica, si è parlato di biotecnologie, non nel senso originario del termine, che nasce all’inizio del ‘900 quando nascono le fermentazioni a livello industriale, per cui biotecnologia è una qualsiasi tecnologia che utilizza fenomeni biologici, un qualunque sistema che trasforma materie prime in prodotti che non troviamo in natura, attraverso un processo tecnologico, come il latte che diventa yogurt attraverso un processo industriale.

Non è un termine negativo, quindi. Quando ha cominciato a cambiare di significato?

Il sistema è stato questo: si usa il termine bio, negli anni ‘80, perché sinonimo nel mondo più ricco, di qualcosa di positivo. Tecnologie, perché sinonimo di progresso, di innovazione. Biotecnologia diventa così qualcosa di progressivo e positivo, applicato alla manipolazione degli organismi viventi, in particolare alla manipolazione della loro informazione genetica. Siamo quindi arrivati ad una situazione paradossale per cui l’essere umano che appartiene alla categoria del bios e fa parte integrante dei processi biologici naturali, incomincia a manipolare gli organismi viventi e se stesso, nell’ambito della sua attività manipolatoria, che è una caratteristica propria dell’essere umano fin dalle origini perché la caratteristica della nostra specie è proprio quella di avere delle mani e con queste, di voler cambiare il mondo intorno a sé. Ha cominciato dalla pietra e siamo arrivati a quello che è oggi la realtà: un’enorme quantità di strutture artificiali fatte dall’uomo. Quest’attività manipolatoria è chiaro che sottintende anche una coscienza che l’uomo deve avere, di quello che fa.  Prima progetta e poi realizza e questo passaggio dovrebbe comportare, come ha ben sottolineato il filosofo tedesco Jonas,  una assunzione di responsabilità. Invece, quello che ha caratterizzato, purtroppo, il periodo recente è che l’uomo sta manipolando in maniera incredibile la realtà intorno a sé, senza l’assunzione di responsabilità. Oggi siamo arrivati a manipolare l’essenza stessa degli organismi viventi, uomo compreso. Siamo nella condizione per cui, attraverso la biotecnologia moderna, che in realtà dovrebbe essere chiamata manipolazione genetica, mettiamo in discussione il futuro nostro e degli altri organismi viventi, che deriva da processi che si sono evoluti in milioni di anni. Nel giro di una frazione di secondo rispetto all’evoluzione, pensiamo di migliorare ciò che è il frutto di un processo lunghissimo e complessissimo.

Una filosofia di potenza che prevale su quella che fino ad oggi è stata la nostra comprensione e conoscenza del reale.

Sì. Si confonde soprattutto, il diritto legittimo dell’uomo a conoscere, con un’assunzione di diritto che invece non è scontata, di poter fare qualunque cosa. Questo delirio di onnipotenza è il pericolo ma  non nel senso, ripeto, che non dobbiamo conoscere. Quest’anno cade il cinquantenario della conoscenza della struttura del DNA, cioè della molecola che contiene l’informazione genetica. Bene, rispetto a cinquant’anni fa, noi abbiamo una conoscenza in materia, enormemente maggiore, ma non c’è dubbio che oggi qualunque scienziato che si occupi di questi problemi ha inevitabilmente la sensazione di conoscere molto meno di quanto forse ritenevano di conoscere gli scienziati in precedenza, perché la quantità di cose a noi sconosciute, sta diventando sempre più grande ed è così evidente che tutte le nostre certezze del passato si stanno sgretolando.

Lei è scienziato e uomo politico, avendo rivestito importanti incarichi sia nel parlamento italiano sia nel parlamento europeo. Come mai non  si è riusciti ad avere la sperimentazione in laboratorio di prodotti agroindustriali e invece ha prevalso, per esempio, la sperimentazione a cielo aperto… I politici sono responsabili di tante situazioni che, come cittadini dobbiamo oggi affrontare per una mancanza d’impegno da parte di chi dovrebbe rappresentarci?

Ci sono due ragioni almeno, perché il mondo politico non è riuscito a determinare almeno una pausa di riflessione. In qualche modo, in Europa, una pausa parziale di riflessione l’abbiamo ottenuta perché, bene o male, nelle applicazioni in campo aperto c’è stata di fatto, negli ultimi cinque o sei anni, una moratoria. Di fatto, in Europa, non si coltivano per fini commerciali ma solo e limitatamente per fini sperimentali piante in campo aperto e nel  periodo dal ‘99 al 2002 erano nettamente diminuite. C’è adesso tutto un ritorno di queste sperimentazioni. Però il nodo è un altro, oggi nel mondo, in particolare in alcune parti del mondo, mi riferisco principalmente agli Usa ma anche ad altri stati europei, la politica è una subordinata dell’economia. I processi di globalizzazione hanno portato proprio a questo. Cioè la globalizzazione è avvenuto su scala planetaria sulla base di regole che sono quelle  prima del Gatt e poi del Wto, senza che esista un sistema di controllo politico sulle politiche economiche di questi organismi. Questi organismi ritengono ci sia una sola legge: nessun ostacolo alla libera circolazione delle merci. E’ quindi chiaro che tutti i paesi che hanno aderito al Wto, devono subordinare le loro scelte politiche a questa esigenza economica che favorisce ovviamente concentrazioni multinazionali sia statunitensi ma anche europee, perché ci sono molte multinazionali anche in Europa.

Lei ha detto economia. Stiamo parlando ancora di una scienza, l’economia  oppure stiamo parlando di mercato?

Siamo in una fase di transizione. L’economia come scienza, non ha che un valore accademico. In realtà il vero problema, come dice la sigla Wto, è la merce, il mercato, l’organizzazione mondiale del commercio. E non c’è dubbio che tendenzialmente, e questo è molto pericoloso,  non avremo più un’economia di mercato sulle merci tradizionali, ma sempre più un’economia di mercato finanziario. Che vuol dire la speculazione sul processo di trasformazione delle merci. Sempre meno controllabile, sempre meno valutabile e sempre più nelle mani di settori che neanche hanno l’obbligo di investire in qualcosa di produttivo, ma investono in qualcosa di speculativo.

Quali possono essere le prospettive positive, in questa situazione così a rischio?

L’unica alternativa ai colossi economico-finanziari, è un movimento di persone, anch’esso con connotazioni globali, in grado di opporsi ad una globalizzazione mercantile e di impegnarsi per una società futura globale ma basata su solidarietà e rispetto della differenza. Contrapporre all’omologazione, all’uniformità il rispetto delle diverse culture, delle diverse storie, non per annullarle ma per valorizzarle scambiando informazioni, creando anche una contaminazione, processo fondamentale che ha caratterizzato anche i fenomeni biologici, ma senza che questo voglia dire arrivare all’uniformità globalizzante, invece, del mondo economico, secondo il quale dobbiamo tutti consumare le stesse cose a prescindere dalla diversa zona del mondo. L’agricoltura deve produrre le stesse cose, a prescindere dal luogo in cui si producono.

Diversità come ricchezza?

Certo. Una diversità come ricchezza, ma anche come acquisizione consapevole di quella che è una delle regole dei processi biologici visti dal punto di vista globale ecologico. Se non abbiamo diversità, non abbiamo futuro. Se tutti gli organismi fossero omogenei e ci fossero poche specie, quindi una perdita di biodiversità intesa come specie, non avremmo più la possibilità di garantire gli equilibri complessivi perché  non avremmo un riciclaggio dell’aria e del suolo, se non ci fossero le enormi quantità di organismi che, come le piante catturano l’energia solare, che, come i microrganismi, modificano il suolo e ne permettono la fertilità. Così la produzione di piante garantisce cibo per gli erbivori, che a loro volta costituiscono cibo per i carnivori  e così via. Tutta questa complessità non è possibile se non con un grande numero di specie. Ma a sua volta ogni specie deve essere dotata di una grande diversità interna. Anche  la specie umana, e questa è una delle sottovalutazioni volute anche in termini di informazione al pubblico, se fosse omogenea, ad esempio se fossimo tutti uguali perché risultato di un processo di clonazione, ad ogni variazione ambientale o ad ogni variazione dovuta ad un nuovo virus o ad un nuovo microrganismo, ad esempio la polmonite atipica, ci ammaleremmo o tutti o nessuno. E’ solo la biodiversità, anche interna ad ogni specie, che garantisce che in ogni momento una quota della popolazione è in grado di adattarsi alla nuova situazione. Andare verso una globalizzazione uniformante vuol dire ignorare questa lezione dell’evoluzione, della storia biologica e complessiva del pianeta Terra e infilarci in un vicolo cieco che porta inevitabilmente all’estinzione dell’umanità ma con il rischio di portare anche all’estinzione di moltissime altre specie.

Secondo lei, cosa vogliono gli Usa?

Il vero obiettivo degli Stati Uniti, quello che hanno già in parte ottenuto attraverso il Wto, è eliminare o quanto meno limitare il ruolo delle Nazioni Unite, proprio perché se si vuole un commercio senza controlli non ci devono essere regole politiche. E questo è il primo obiettivo, come ha detto chiaramente a Johannesburg Colin Powell, dichiarando che il governo degli Usa non vuole assolutamente sottostare  a imposizioni da parte di organizzazioni internazionali come quelle previste dal protocollo di Kyoto. Anche prima Clinton è stato chiarissimo: dopo la caduta del muro e non essendoci contrapposizioni militari, per difendere gli interessi degli Stati Uniti,  il loro destino è quello di assumersi la responsabilità di comandare il mondo in modo militare. In questa logica, non può esserci un’organizzazione politica mondiale, la globalizzazione è economica senza regole politiche. Ci deve essere una struttura con controllo militare unico, che interviene ogni volta che gli interessi economici vengono messi in discussione: e questi sono gli Usa.

In questo senso, un nemico è anche l’Unione Europea che è stata messa in crisi, già a metà degli anni ‘90 con due azioni per altro sottovalutate: 1) l’inserimento, prima ancora che entrassero nell’Unione Europea, dei paesi dell’ex blocco di Varsavia nella Nato. 2) il Kossovo,  la guerra destabilizzante per mettere in crisi qualunque ipotesi di costruzione politica in quell’area. Che l’Ue sia un partner economico può andare, essendo però privo di una sua politica e autonomia militare, non può essere che succube della superpotenza. Se invece vuole assumere un ruolo, non solo economico, ma politico finanziario, diventa un nemico. Allora l’euro, se rimane una moneta interna  va bene, ma se diventa una moneta di scambio, diventa pericolosissimo. Ci sono stati 3 paesi che hanno usato o minacciato di usare l’euro come moneta di scambio: l’Iraq, il Venezuela e il Brasile.

Il Venezuela ha subito una insurrezione pilotata e eterodiretta e riguardava proprio il petrolio. In Iraq abbiamo avuto la guerra. A questo punto, il povero Lula dovrà stare molto attento perché se per caso continuassero a proporre l’euro, rischierebbero moltissimo. Certamente Lula ha proposto un accordo con Venezuela e Argentina per uscire da questo vicolo cieco, ma difficilmente in questo momento l’Argentina riuscirà a liberarsi dai condizionamenti imposti dagli Usa e il Brasile, probabilmente, dovrà rimangiarsi tutta la sua politica. Ma questi due episodi dimostrano che l’ipotesi della trasformazione, anche solo di una parte delle transazioni del petrolio in euro, è inaccettabile per gli Usa perché questo automaticamente determinerebbe il loro crollo economico.

La guerra in Iraq, non è stata fatta solo per il petrolio, ma anche per questo controllo più vasto: adesso l’Arabia Saudita, pur avendo la più grande riserva di petrolio, non sarà più la sola a decidere quale sarà il prezzo. E poi la guerra è servita a lanciare anche un messaggio: sappiate che c’è un solo gendarme adesso.

Ma il petrolio, alla fine, dovrà essere abbandonato come fonte di energia, quindi perché scatenare guerre per qualcosa che è naturalmente destinato ad essere abbandonato?

Ma ci vogliono almeno 50 anni. E in questo spazio di tempo verrà applicata una

strategia geopolitica abbastanza evidente. Sfruttare al massimo il petrolio e accumulare più soldi possibile per investire in nuovi settori e controllare la riconversione, perché se l’alternativa non sarà controllata dagli Usa ma da qualcun altro, le cose cambiano. Facciamo un esempio: l’idrogeno. Sarà fondamentale come sostituzione, ma comunque è un sistema di accumulazione e trasporto dell’energia, come quella elettrica o il metano. Chi avrà il controllo della tecnologia e dei luoghi in cui si produce  avrà il potere. La tecnologia per il mercato dell’energia a idrogeno, verrà introdotta solo quando ci sarà il controllo e quando avranno sfruttato ben bene la manna del petrolio. A quel punto potranno buttare via tutti i paesi arabi e quelli del sud del mondo dopo averli spremuti come limoni e aver avuto il tempo di mettere a punto altre tecnologie. Finito il petrolio, saranno sempre gli Usa ad avere le tecnologie e anche se queste fossero il solare nei deserti, non basta il sole, ci vuole la tecnologia che permette la trasformazione dell’energia solare in idrogeno. E chi le avrà? Non certo i paesi minori.

In questo tipo di strategie, mi sembra sempre, però, venga trascurato il fattore umano

Esatto e speriamo che l’alternativa sia in un movimento globale che si basi invece su criteri di solidarietà e di rispetto reciproco. Su veri e fondanti valori di democrazia, dove la democrazia non è quella che si vorrebbe esportare ma è quella che si crea sulla base della storia, della cultura di un popolo. E’ questa la differenza. Ma oggi è proprio sul petrolio che si gioca tutto, perché chi ha il controllo dell’Iraq sottopone a condizionamento anche l’Arabia Saudita che non sarà più l’unica a deciderne il prezzo e in caso di crisi, le riserve dell’Iraq saranno sufficienti a condizionare il prezzo del petrolio e determinarlo. Qui sarebbe anche interessante vedere come le strategie del terrorismo, diciamo alla Bin Laden,  siano invece funzionali a interessi locali, di settori e stati che sul petrolio hanno guadagnato e fatto la fortuna di alcuni personaggi. In Afganistan, finché c’era il regime dei talebani, si impediva il passaggio di un oleodotto che fa concorrenza al petrolio e al controllo sul petrolio esercitato dall’Arabia Saudita. Quindi la guerra in Afganistan è servita a bloccare un ruolo dominante di controllo sul petrolio da parte dell’Arabia Saudita. Il nuovo governo dell’Afganistan è presieduto da un ex dirigente, anche se lui è afgano, di una multinazionale americana che è quella che ha progettato l’oleodotto.

Adesso, dopo anni di minacce, gli Usa hanno deciso di portare l’Europa davanti al “tribunale” del WTO. L’Europa è accusata di mantenere una moratoria che impedisce la coltivazione di organismi geneticamente modificati (OGM) sul territorio europeo, contravvenendo alle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Il segnale lanciato dagli Usa non è indirizzato alla sola ‘vecchia Europa ’, ma a tutti i paesi del pianeta che intendano seguire “l’isteria anti-biotecnologica dell’Ue (come l’ ha definita Charles Grassley, Presidente della Commissione Finanze del Senato statunitense).

In realtà si tratta di un conflitto ampiamente annunciato: già il 5 febbraio di quest’anno il New York Times affermava che la prospettiva di una possibile guerra in Iraq aveva spinto l’amministrazione Bush a sospendere la diatriba sugli OGM con gli alleati europei e a rinviare la probabile denuncia dell’Unione al WTO per la mancata revoca della moratoria sugli OGM. La guerra con l’Iraq è finita e puntualmente, come richiedeva il ministro del commercio Usa, Zoellick, l’Ue è stata denunciata al WTO. Ma le ragioni dell’irritazione di Bush si ritrovano già in un rapporto al Congresso degli Stati uniti del 1999 che affermava: “Finché non sarà raggiunto un accordo con l’Europa per una comune politica sulle biotecnologie, poche aziende correranno il rischio di sviluppare nuovi prodotti che potrebbero non essere mai collocati sul mercato”. Gli Stati uniti denunciano che non vi sono basi scientifiche per rifiutare gli OGM, ma la scientificità voluta dagli Stati Uniti è quella che richiede la misura di quanti danni ambientali e quanti morti ha fatto una sostanza, prima di dichiararla pericolosa o cancerogena. D’altra parte che gli OGM siano indispensabili all’agricoltura o a risolvere la fame nel sud del mondo ci credono ben pochi, visto che sono solo tre i paesi che hanno sviluppato significativamente un’agricoltura transgenica: oltre agli Usa, Canada e Argentina, paese quest’ultimo dove, nonostante le coltivazioni di OGM, vi sono persone che muoiono di fame a causa della povertà, vero motivo di tale dramma.


[1] Gianni Tamino, biologo dell'Università di Padova, membro del Comitato Nazionale per la Biosicurezza e le Biotecnologie.

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