IL BISOGNO
DI CAMBIAMENTO
di Loredana Galassini
Il bisogno di cambiamento, sia
esso all’interno di un’azienda oppure sociale o ancora personale,
aguzza gli ingegni e mi fa tornare in mente una bella frase di Ernesto
Balducci: “L’uomo è duplex. In quanto homo editus egli
è un prodotto delle parole che ha imparato e che usa. I suoi processi
di autoidentificazione si muovono per intero sulla trama che la società
gli fornisce e nella quale tutto è già definito: il bene
e il male, il bello e il brutto, il vero e il falso. La civiltà
informatica in cui siamo entrati non fa che accentuare questa funzione
della parola filtrata dalle semplificazioni dei computer. Ma in quanto
homo ineditus, absconditus, egli è un insieme di possibilità
ancora inedite, da rivelare, che la fitta maglia della cultura dominante
reprime o dissacra…C’è in noi una grammatica generativa
non esaurita dalle grammatiche apprese a scuola, una grammatica in cui
già ferve la lingua di domani…”
Ma la “grammatica generativa” come la verità, muta
– parafrasando Einstein – secondo l’ambito in cui la
parola viene usata: un fatto dell’esperienza, una formula matematica,
una teoria scientifica, un modello di sviluppo aziendale. Alcuni possono
vivere il cambiamento come sofferenza, come sostiene Varanini, che forse
dimentica la lezione di Gibran quando dice che “la sofferenza scava
per far posto a nuovi piaceri”, oppure come nuova possibilità,
nuovo desiderio come invece ipotizza Davide Storni o compiendo un capovolgimento
“abbandonando la prassi del potere e attuando la filosofia del progetto”,
come propone Francesco Zanotti.
Sono convinta che non tutti i manager siano cattivi e che non tutti i
cambiamenti aziendali vengano fatti con l’intenzione di peggiorare
e alienare ancora di più i lavoratori, ottimizzando invece i profitti
aziendali. Anche il potere in sé, non è negativo se applica
la sua carica positiva e la sua capacità per comunicare. Il potere
non è in antitesi con la natura e il potere personale e di gruppo,
come la libertà, diventano capacità di espressione, capacità
di integrarsi e valorizzazione della propria forza vitale e collettiva.
Diverso è il dominio, che è la malattia del potere, della
forza prevaricatrice, della violenza. E’ per questo, penso, gli
sforzi di cambiamento di manager volenterosi e generosi vengono accolti
spesso con scetticismo, se non con ostilità da chi “subisce”
le decisioni. D’altronde l’esperienza insegna che sia il potere
che il capitale vogliono solo accumulare, tesaurizzare e sono disinteressati
a qualsiasi forma di strutturazione sociale migliorativa o di nuova prospettiva
e che spesso sfuggono a qualsiasi forma di controllo democratico mentre
manipolano le coscienze in nuove forme di schiavitù consumistiche
e comunicative che inglobano tutti, dirigenti e diretti. Ed è innegabile
che, proprio nell’era dell’accesso, si sta consolidando l’impiego
strategico di strumenti unidirezionali che colonializzano le esistenze
rendendole sempre più passive, succubi e subordinate.
Il pensiero occidentale ha subito un collasso psichico, la prospettiva
interattiva, la capacità dialogico-comunicativa e di relazione
diventano sempre più complicate, come la capacità di esprimersi,
mentre avanza, come idea di sviluppo e progresso, la visione macchinica
dell’uomo del futuro, mentre mancano nuovi codici interpretativi
e la confusione che è di corpi e di menti crea zone buie e spettri
di paura e ognuno si sente più solo nel globo inquinato dal nostro
sapere.
Nella megasfera diventa una questione di sopravvivenza scambiarsi passioni,
speranze e sorrisi, mentre diventa sempre meno essenziale l’idea
di una classe dirigente che fino ad ora ha prodotto solo falsi cambiamenti,
falsi sviluppi e tanta sofferenza e ingiustizia. Ma, come dice Erwin Laszlo,
“l’universo cresce attraverso la diversità e l’unità.
L’evoluzione procede entro la comunicazione: il comunicare delle
parti incrementa dall’intimo l’insieme. L’intimo processo
del comunicare trasforma ognuno. Nell’epoca in cui la comunicazione
può divenire mondiale penetrando ogni aspetto della vita, è
necessario lavorare con – e non contro – il processo evolutivo”.
Allora, forse, ascoltare ed ascoltarsi, cambiare e farsi cambiare possono
alleggerire la responsabilità di ciascuno in una liberatoria e
vitale condivisione di rinnovata specie umana non più antagonista
ed egoista, ma solidale e sociale. Che abbandona la presunzione dell’homo
sapiens e abbandona anche la raccapricciante sofferenza spettacolare verso
cui veniamo spinti con violenza dal potere malato di pochi.