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Pubblicato in data: 16/02/2004

OLTRE IL CONOSCIUTO, O IL CIBERSPAZIO E LA POESIA. INTERVISTA A GIUSEPPE O. LONGO
di Loredana Galassini

Se la scienza è sempre più distaccata dalla vita reale, anzi cerca di piegarla ai suoi voleri, non sempre gli scienziati si piegano ad essa, ma anzi ci avvertono di come l’economia della scienza può risolversi in un pericolo per tutta l’umanità. Ordinario di Teoria dell’Informazione presso l’università di Trieste, Giuseppe O. Longo è una singolare figura di scienziato, poeta, scrittore, attore e drammaturgo. Autore di saggi scientifici di grande valore divulgativo, come Homo Technologicus [1] e prima ancora de Il nuovo Golem, [2] è stato anche vincitore, in Francia, del premio Laure Bataillon, con L’acrobata [3] ed è facile trovare in rete il suo nome in siti che vanno dalla fantascienza fino a quelli anarco-libertari. Più conosciuto dai giovani che dai coetanei, in ambito letterario, è certamente una delle voci più saldamente positive nel mondo della comunicazione.   

Professor Giuseppe O.  Longo,  nel suo ultimo libro Il Simbionte edito da Meltemi, [4] sembrano procedere in maniera parallela, la narrazione della scienza e la presa di coscienza dello scienziato che si è spinto oltre la conoscenza ed ora, nel recupero della memoria che ha accompagnato il suo percorso accademico, riaffiora forte il desiderio dell’inconosciuto.

In effetti nel Simbionte compio un tentativo di rappresentare il dentro e il fuori, di trattare insieme versanti che di solito sono tenuti rigorosamente separati: l'oggettività (presunta) e la soggettività (presunta), ma che separati in noi non sono mai; questa inseparabilità di solito è taciuta, è considerata quasi sconveniente o imbarazzante. Io invece ho voluto esplicitarla, mosso da un desiderio di totalità, da un'aspirazione che coinvolge anche l'inconosciuto; in fondo l'inconosciuto è l'unica cosa che m'interessa conoscere, e non temo ciò che potrei trovare in quei territori poco esplorati: gli altri territori li ho già esplorati, e con grande soddisfazione. Adesso voglio andare oltre.

Lei scrive che “ciascuno di noi, più o meno circondato e invaso dalla tecnologia, sta diventando una cellula ibrida di una sorta di macroorganismo che invade tutto il globo: in modo ancora inconsapevole ne costruiamo dall’interno il metabolismo e il sistema nervoso. Ci avviamo a diventare gli elementi costitutivi, i neuroni, gli organi, le cellule di una creatura planetaria…la complessità della creatura planetaria può essere affrontata solo con nuovi strumenti, in particolare con la simulazione”. Quali possono essere gli altri strumenti e quali potremmo definire “democratici”?

Le tecnologie dell'informazione e il nuovo orizzonte di cognizione e azione che esse prospettano possono mettere in crisi la delicata e problematica nozione di democrazia; nel ciberspazio la democrazia potrà subire modifiche profonde, oscillanti tra due estremi: da un lato una partecipazione diretta e totale, di tipo plebiscitario, consentita dalla Rete e accompagnata dall'abolizione di molti stadi intermedi cui oggi sono affidati compiti di filtro, mediazione e sintesi; dall'altro una delega altrettanto totale, favorita dall'analfabetismo o dall'indifferenza informatica dei più e dalla massa enorme dei dati, che si oppone al controllo delle fonti e favorisce il rifiuto da eccesso.

Del resto alcune componenti del sistema complessivo, ad esempio il mercato e la scienza, sono del tutto antidemocratiche e affidano la propria dinamica a meccanismi di selezione che favoriscono il "più forte". Sempre più la Rete manifesta una stretta identificazione col mercato, di cui esalta l'ideologia debole e rozza rappresentata dalla monodimensionalità antidemocratica del denaro. Questa potrebbe essere un'indicazione quanto agli effetti di Internet sulla politica, che potrebbero manifestarsi non solo in una profonda revisione del concetto di democrazia, ma anche in un suo tramonto.

La Rete può avere un forte effetto omologante sulle opinioni: la sua capacità di diffondere rapidamente le notizie rafforza la parte collettiva del nostro cervello (quella che ci permette di dialogare su una base comune di nozioni, esperienze e idee) a scapito della parte individuale (quella che ci fa diversi gli uni dagli altri), e quindi rafforza la formazione di un pensiero unico, per cui invece che una democrazia diffusa, con la sua variegata disomogeneità, essa favorirebbe una sorta di monolitica e paradossale "tirannide diffusa." In linea di principio, infatti, tramite la Rete tutti possono accedere agli stessi dati, e questa globalizzazione dell'informazione, sostenuta da una partecipazione totale e uniforme, potrebbe indurre una globalizzazione delle opinioni. Se le storie e i patrimoni informazionali di tutti fossero identici, sarebbe alta la probabilità di esiti indifferenziati. Questo scenario peraltro sarebbe poco probabile. Il desiderio di partecipazione, la competenza tecnica, la quantità di tempo che ciascuno vuole dedicare alla politica e alla vita pubblica non sarebbero comunque uniformi e il panorama tendenzialmente omologato tornerebbe a differenziarsi. Rinascerebbero quindi gli organi di mediazione, di rappresentanza, di sintesi, di interpretazione. Ma sarebbero certo diversi da quelli odierni e, per noi, difficili da immaginare.

Vorrei ancora menzionare il grande mito della trasparenza totale, che sembra essere il presupposto della democrazia. Fin dall'inizio la Rete è stata considerata uno strumento capace di garantire la trasparenza, l'accesso libero e indiscriminato, insomma il rapporto paritario tra i comunicanti. A parte i problemi della sicurezza (virus e contraffazioni) e gli ostacoli frapposti da chi vuole introdurre barriere e dogane per motivi economici, può darsi benissimo che la trasparenza assoluta sia tossica per la comunicazione: in fin dei conti negli organismi e nelle società la maggior parte dei flussi d'informazione sono "inconsapevoli", cioè si svolgono all'insaputa della maggior parte delle componenti del sistema. Un sistema che dedichi tutte le proprie risorse a rappresentarsi (e a

rappresentare le proprie rappresentazioni, all'infinito) non ha più risorse per agire e resta paralizzato. Dietro l'ideale della democrazia diffusa e della partecipazione totale c'è forse il pericolo dell'inazione. Ancora una volta queste considerazioni sembrano spingere verso un'analisi precisa e aggiornata del concetto, forse troppo impreciso, di democrazia nell'era della comunicazione tecnologica.

Con la tecnologia dell’informazione, lei dice che c’è un mutamento del modo di conoscere e apprendere e che l’uomo ha due modi di apprendere: la prima è quella che è iniziata 30 o 40 milioni di anni fa e che è “cablata nella biologia dell’individuo”.  La seconda, molto più recente è la conoscenza che si  attua nella mente e tramite la mente. Il neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, nel suo libro L’errore di Cartesio [5] dice che la coscienza ha una configurazione unificata “che riunisce l’oggetto con il sé” e che la mente dell’uomo, meno precisa delle macchine, prende in considerazione il peso emotivo che gli deriva dall’esperienza precedente e ci fornisce risposte sotto forma di sensazioni viscerali. Quale coscienza per il Simbionte e quali emozioni?

Domanda impegnativa! Ciò che afferma Damasio è in fondo ciò che i poeti hanno sempre saputo; in generale ciascuno di noi percepisce questa profonda unità di razionalità ed emotività, questa inseparabilità dei nostri processi interni; la scienza oggi riscopre verità che essa stessa aveva messo tra parentesi per poter procedere più spedita nell'esplorazione del mondo esterno; ormai si sono toccati i limiti di questo procedimento separatista e riduzionista, e si è costretti ad affrontare la complessità, l'unitarietà.

La complessità del mondo in cui viviamo oggi è accresciuta anche dalla tecnologia. Se è vero che i sistemi complessi naturali, in particolare i sistemi biologici, sono sede di fenomeni emergenti, per esempio l'intelligenza o la coscienza, allora questi fenomeni potrebbero emergere anche nei sistemi complessi artificiali. Il cervello è un sistema complesso, costituito da un numero enorme di unità, i neuroni; ciascun neurone è un elemento piuttosto stupido, conversare con un neurone non è molto interessante. Ma questi neuroni si scambiano dati, informazioni, impulsi: comunicano. In più il cervello è in comunicazione con tutto il corpo e il corpo con l'ambiente. Questa vasta e intensa attività comunicativa fa sì che nel sistema emerga qualcosa che chiamiamo intelligenza. E conversare con uno di questi sistemi complessi (in un essere umano) è spesso molto interessante. Lo stesso accade nel formicaio: le singole formiche sono piuttosto stupide, ma il formicaio manifesta un comportamento organizzato emergente che ha caratteristiche nettamente più intelligenti.

Detto questo, chi ci impedisce di immaginare che in un sistema complesso artificiale, come potrebbe essere la rete, si manifestino prima o poi fenomeni emergenti? E questi fenomeni potrebbero essere cognitivi (questi in parte già si possono osservare: molti parlano di'intelligenza collettiva) e anche emotivi. Chissà, potrebbe emergere anche qualcosa che potremmo chiamare coscienza. Non si dimentichi che della rete fanno parte non soltanto le linee telefoniche (molto stupide) e i calcolatori (piuttosto stupidi ma molto elaborativi), ne fanno parte anche gli esseri umani, che si ritengono

intelligenti sotto il profilo cognitivo e anche emotivo. Queste loro caratteristiche potrebbero essere intensificate a livello globale e assumere forme inedite e oggi inimmaginabili grazie alla comunicazione consentita dalla rete.

Il dolore permea la nostra realtà e siamo entrati in una fase acuta di precarietà ambientale, sociale, personale.  Alcuni, come Bush, si affrettano ad abbandonare il pianeta alla distruzione e cercano vie di fuga su Marte facendo ricerche con una sonda che si chiama addirittura Spirit.  Lei parla invece di rivalutare le 4 E: estetica, etica, emozione, espressione perché valori legati alla nostra storia evolutiva. Il futuro come ibrido di tendenze concretamente contrastanti?

Non voglio certo paragonare le mie modeste proposte a quelle del presidente degli Stati Uniti! Anche perché lui deve rispondere ai suoi elettori e io non devo rispondere se non alla mia coscienza. Penso tuttavia che gli umani si siano incamminati su una strada molto pericolosa per il pianeta e quindi per sé: la strada della crescita illimitata di certi parametri, in particolare del profitto. Il profitto di per sé non è un male, anzi: tutta la natura, tutti i sistemi cercano di aumentare il proprio profitto (sotto forma di cibo, di risorse, di denaro e così via). Il punto è che in un sistema limitato, com'è sicuramente il nostro pianeta, le variabili che comportano un consumo di risorse non rinnovabili non possono crescere oltre

un certo limite compatibile con la fisiologia e la salute del tutto; ogni grandezza, anche benefica, oltre una certa soglia diventa tossica.

Ci sono invece variabili che non consumano risorse, o consumano risorse rinnovabili: il piacere, l'amicizia, la convivialità, la conversazione, la cultura non finalizzata all'azione, e così via. Tutte queste variabili possono dare soddisfazioni grandissime e non comportano gravi pericoli per l’ambiente. Mi rendo conto che è un punto di vista teneramente utopico, ma se non ricorriamo alle utopie rischiamo di appiattire il nostro futuro su una visione strumentale e pericolosa. Il futuro? Sì, se ci sarà un futuro sarà anche perché la tendenza al consumo sarà temperata dalla tendenza alla conservazione. In questo senso io sono molto reazionario.


[1] Giuseppe O. Longo, Homo technologicus, Meltemi, Roma, 2001

[2] Giuseppr O. Longo, Il nuovo Golem, Laterza, 1998.

[3] Giuseppe O. Longo, L'acrobata, Einaudi, collana I Coralli, 1994

[4] Giuseppe O. Longo, Il simbionte. Prove di umanità futura, Meltemi, Roma, 2003.

[5] Antonio Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi, 1999.

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