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Pubblicato in data: 01/04/2002

APOLOGIA (UN PO' MISTICA) DEL QUANT'ALTRO

di Giorgio Giacometti

Le ragioni che fanno escludere a Varanini il "quant'altro" e preferire l'"eccetera" sono, in parte, le stesse che mi spingono alla soluzione opposta. "Quant'altro" è formula che nello stesso tempo delimita, e apre, come le colonne di un tempio dorico. Tutto quanto "manca" in un discorso si riassume in un pro-nome, cioè in qualcosa che sta per altro ("stands for"), eminentemente. L'apertura si riferisce all'immaginazione del destinatario del messaggio verbale, libero di decidere che cosa sia quest'altro che, in quanto tale, manca. Il "quant'altro", insomma, in un sol punto complica "emittente" e "destinatario" del "messaggio", allude a "spazi interminati" nel momento stesso in cui li delimita, come la siepe di Leopardi. Evoca il correlativo "tanto", mentre ne tace. Quantifica, senza negare la possibilità che altri qualifichi quell'altro a cui si allude. E' intrigante e provocatorio, "fa discorso", mentre l'"eccetera", con buona pace (nella quale c'è forse da augurarsi che requiescat) della sua origine latina, è moneta usurata, importa qualcosa di dispersivo, di generico, di confuso, eccetera, eccetera....

Come lo stesso Varanini opportunamente ricorda, nel "quanto" di "quant'altro" echeggia, tramite il quantum latino, la radice indoeuropea kw, la stessa dell'inglese what (hwat nella grafia antica), del tedesco was (da un arcaico *kwas), del greco pòson (il p è il tipico esito ellenico del fonema kw che si ritrova anche in pòion = quale, pôs = come), del sanscrito kah e così via (und so weiter - costrutto, a sua volta, da interrogare quant'altro mai). Ora, se questo kw è la radice di ogni domanda, ciò avviene non perché esso presupponga una risposta, ma perché, proprio come domanda, esso manifesta un'apertura o un'indeterminazione originaria.

Non è, infatti, affatto casuale che nelle lingue indoeuropee il pronome interrogativo derivi da un originario relativo-indefinito a cui è, spesso, formalmente identico.

Penso al latino "quis", in frasi del tipo "si quis veniat", "se venisse qualcuno", che ha generato l'"altro" "quis", che appare in locuzioni interrogative come "quis veniat?", cioè "chi potrebbe venire?", alla lettera: "qualcuno, verrebbe?". Analogamente, venendo a quanto qui interessa, il greco "poson", così, senza accento, enclitico, significa: "in una certa quantità"; con l'accento, nella forma, derivata, "pòson?", domanda: "in quale quantità?"; infine, nella forma con aspirazione, "hòson", istituisce la relazione: "nella stessa quantità, nella quale".

Domandare, per esempio, quanto manchi a una certa ora, originariamente vale, dunque, chiedersi se manchi qualcosa, il che presuppone che ciò che manca è appunto, in effetti, di sapere se e quanto. E quando si ignora qualcosa, si ignora di norma anche se ciò che si ignora ammetta di essere saputo. L'ora resta del tutto indeterminata.

Analogamente se testimonio di avere visto qualcuno rubare la bicicletta, lascio intendere che non so affatto chi l'abbia rubata. Del resto, è noto: c'è chi ruba, chi uccide, ma c'è anche chi ama, chi pensa, chi parla. Quanto si vorrebbe sapere è appunto, chi? Possiamo anche esclamare: "Quanti si lamentano della loro condizione, e non fanno alcunché per rimediarvi!". O affermare più prosaicamente: "Quanti si lamentano della loro condizione, spesso non fanno alcunché per rimediarvi". Quanti, appunto? Boh: uno, nessuno, centomila.

La domanda, se è autentica, non è il problema. L'indeterminazione fa parte della sua essenza. E' vero che Wittgenstein, nel Tractatus, ha posto che "d'una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure una domanda" e ancora: "Se una domanda può porsi, può pure avere risposta" [1] . Ma è ben noto che lo stesso Wittgenstein ha riconosciuto, in seguito, i limiti di questa impostazione, all'interno della quale il termine "domanda" ricopre, di fatto, il campo semantico, codificato e chiuso, di quello che più precisamente è il problema, nel significato scientifico del termine.

La domanda autentica, invece, come segreta domanda d'amore, "verte su altro che non sulle soddisfazioni che chiede" [2] . Per farla breve: la domanda è sempre, al fondo, domanda all'Altro di quell'amore che, non potendo essere accordato, nella sua intransigente assolutezza, - nella béance tra il bisogno concreto da cui la domanda sorge (per esempio quello del cibo) e l'apertura che le garantisce il linguaggio in cui si aliena - dà luogo allo spazio del desiderio [3] : un desiderio inesauribile (di sapere) che fa dell'uomo un uomo (rendendolo, peraltro, per sempre infelice).

Donde lo spot: "Mi ami? Ma quanto mi ami?". Cioè: "Mi ami quanto quell'Altro?". Risposta: "Ovviamente, no. L'Altro ti amava sempre di più di quanto qui e ora io ti possa mai amare. Non posso mica combattere contro i tuoi fantasmi!". L'Altro, per definizione, anzi per costruzione, ama sempre quam qui maxime, quant'altri mai. Non è possibile competere con Dio (o con chi si crede tale - ogni riferimento al teatrino politico nostrano è puramente casuale). Donde il celebre adagio lacaniano: "amare è dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole". Nondimeno non se ne può fare a meno. Anche nel discorso.

Rovesciando l'argomentazione di Varanini si potrebbe, a questo punto, dall'alto dell'amore divino, per quanto immaginario, che si spia nel "quant'altro", contestare il valore poetico dell'enumerazione, a cui allude l'"etcetera". Indubbiamente l'enumerare è poesia, è un fare, un poièin, cioè, letteralmente, un fare "tale quale" (pòion), un qualificare, un rappresentare, un imitare, al limite: un simulare. Nel senso, certo, della simulazione scientifica, della modellizzazione: se è vero che l'enumeratio è il quarto momento del metodo cartesiano che prevede, prima, i tre passaggi: evidenza, analisi, sintesi. L'enumerazione, per la precisione, appare, nel rigore del metodo di Cartesio, un doppio della sintesi, una ripetizione quasi più retorica (o poetica, appunto) che scientifica, una "prova del nove" superflua se le altre fasi sono condotte sine precipitatione. Eppure, a una più attenta osservazione, l'enumeratio - come c'era da aspettarsi dal filosofo che, mentre faceva il soldato durante la Guerra dei trent'anni, ha "cogitato" la geometria analitica per risolvere problemi di balistica - nasconde la quadratura (impossibile) del cerchio, il fantasma del controllo totale, la parvenza di una padronanza tecnica senza residui. Questo "et cetera", infatti, sotto la parvenza di un'apertura, nasconde la pretesa della totalità (che non è l'Assoluto, l'incondizionato, "per costruzione" indeterminato): "et cetera", cioè "e tutte, ma proprio tutte, le altre cose". Altrimenti sarebbe: "et alia".  La totalità sottesa all'"eccetera" mi appare così, a differenza delle gerarchie angeliche che fanno le loro càrole attorno al "quant'altro", una totalità orizzontale, meccanica, militare, paratattica, neutra (o pretesa tale), banale nel significato etimologico (da bannus, il proclama che è sotto gli occhi di tutti, di pubblico dominio).

Tiriamo le somme. Potrei dire che in questo intervento, per difendere il "quant'altro", sono ricorso all'etimologia, alla citazione d'autore (o al principio d'auctoritas), a qualche gioco di parole e a... quant'altro. Cioè? A che cosa, d'altro, esattamente, intendo riferirmi? A quanto, cioè a tutto, ma proprio a tutto quello che il lettore (cioè un altro) può immaginare. Il "quanto", se non è più, per noi indefinito, è certamente relativo. Chi vi ricorre non allude a una totalità che egli stesso definisca o presupponga oggettivamente definita, a "tutte le altre cose", (ap)punto. No. Chi ricorre al "quant'altro" allude a "tutto ciò che", d'altro, qualcun (altro) può immaginare. Questa formula esprime il riconoscimento di un limite che si confessa di non saper superare, ma è anche un appello, all'Altro, perché trasformi il "quanto" in un "quale", in "qualcosa" (di sinistra, di destra, purché sia). Vi si nasconde una domanda d'amore, vi si tradisce un desiderio.

E' vero che il quantum chiama in causa la quantità, il numero (ma anche il residuo, il minimo, l'atomo, l'elemento, il pacchetto fisso di energia previsto dalla costante di Planck): ma nel numero si nasconde il simbolo dell'esaudimento, come nel miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci o nel qb, il "quanto basta", delle ricette, riferito spesso, non a caso, al sale ("Siate il sale della terra..."). Perché nel quantum si nasconde la misura, nel senso classico, platonico, della misura razionale, non meccanica: esattamente quello che ci vuole, quello che c'azzecca, il kairòs; ciò che nessun computer saprebbe calcolare, ma un buon artigiano (o manager?) sì, specie se il committente lo incalza.

E' qualcosa che non si può esprimere, ineffabile come l'Uno di Plotino o il Dio di Meister Eckhardt. Non è collocato sullo stesso piano delle altre cose, ma sebbene appaia piuttosto defilato nel discorso, quasi timidamente ("questo qui, quello lì, quell'altro là e quant'altro"), tradisce una mancanza radicale, il luogo - mistico - della desiderabile incarnazione di un Altro, a cui si offre in sacrificio l'intero discorso che vi si infrange e lo stesso soggetto che lo pronuncia. Perché se è vero che dicendo "quant'altro" rimettiamo al nostro interlocutore diretto di immaginare il contenuto del "quanto", è anche vero che facciamo questo esattamente come "rimettiamo" i debiti ai nostri debitori, cioè perché sia lasciato lo spazio, nel nostro discorso, perché un Altro, assoluto, ci possa dare (e dire!) quanto, d'altro, "ci liberi dal male", ovvero quanto, d'altro, - non altrimenti dicibile - resta per noi del Giardino.



[1] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, prop. 6.5

[2] J. Lacan, tr. it. Scritti, Torino, Einaudi, 1974, p. 688.

[3] Cfr. J, Lacan, op. cit., p. 816: "Il desiderio si abbozza nel margine in cui la domanda si strappa dal bisogno: margine che la domanda, il cui appello può essere incondizionato solo nei riguardi dell'Altro, apre sotto forma del possibile difetto che il bisogno le può apportare per il fatto di non avere soddisfazione universale (ciò si chiama: angoscia)."

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