BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 14/04/2003

NOT IN MY NAME

di Giorgio Giacometti

Il dibattito sulla guerra in Iraq, innescato su Bloom dagli articoli di Stefano Rosato, Le ragioni della pace, le ragioni della guerra (Bloom!, 31Marzo 2003) e di Loredana Galassini, Quanto dolore, quanto inquinamento, quanta morte e quanta follia (Bloom!, 7 Aprile 2003), mi pare significativo di una curiosa duplice alterazione della vista, presbiopia per il primo autore e miopia per la seconda (più grave la prima!), che contraddistingue anche più in generale le principali posizioni emerse dal più ampio dibattito sul tema, ma soprattutto quello caratteristico dell’Italietta: posizioni che condividono il fatto di essere, nonostante l’apparenza delle argomentazioni messe in campo dalle parti, desolatamente “senza se e senza ma”.

Se Rosato può forse a ragione imputare a Galassini un certo qual sentimentalismo - miopia, dunque, in quanto ci si arresterebbe all’immediatezza del dato umano e sentimentale - ; d’altra parte suona quanto meno curioso che la macchina argomentativa (altri direbbe: ideologica) messa in campo da Rosato nel suo scritto, dedicato, apparentemente, alle “ragioni” di entrambi i fronti, finisca poi per riconoscere, non senza un punta di enfasi non meno sentimentale che cinica, solo le ragioni di uno dei due contendenti; e questo per una strana presbiopia, per la quale le “ragioni” di qualcosa che, come la guerra stessa dimostra, ancora non è storicamente compiuto, ossia l’Impero informe e onnipervadente, sono recate come ragioni tout court, quasi che il divenire storico recasse nel suo seno le ragioni del proprio darsi, secondo uno storicismo assoluto che dovrebbe essere quanto di più ripugnante per la stessa logica critica da cui gli scritti di Rosato sembrano guidati.

Mettiamoci, dunque, gli occhiali, ma occhiali buoni, e guardiamo ai fatti.

Uno Stato sovrano, gli Stati Uniti d’America, con la complicità di altri, pochi, ne aggredisce un altro, senza esserne stato attaccato, sulla base di sospetti e accuse di cui il supremo consesso, deputato alla risoluzione delle controversie internazionali, ossia l’Organizzazione delle Nazioni Unite, non ha riconosciuto la fondatezza. Non solo quindi l’O.N.U. non ha avvallato l’intervento, ma non ne ha neppure riconosciuto la motivazione. Formalmente, dunque, non si tratta di azione diversa da quella compiuta dallo stesso Iraq più di dieci anni or sono con l’invasione del Kuwait.

Se questo modello di comportamento, come tale, venisse giustificato, sotto il titolo di “guerra preventiva” o quant’altro, è facile comprendere come si potrebbe pervenire rapidamente, nel campo internazionale, al bellum omnium contra omnes.

Le argomentazioni dei sostenitori dell’avventuristico conflitto, basate sulla qualità degli ordinamenti politici dei contendenti, da un lato paesi liberali e democratici, dall’altro un’opprimente tirannide, sono in primo luogo non pertinenti. Il principio dell’ingerenza di un Paese negli affari interni di un altro per ripristinarvi o imporvi la democrazia, sorta di paradossale rovesciamento del principio di intervento sancito dalla Santa Alleanza nel congresso di Lubiana del 1821, è del tutto sconosciuto al diritto internazionale e alla stessa Carta istitutiva dell’O.N.U. per la quale in questione sono solo le controversie tra Stati.

D’altra parte se prevalesse un principio del genere si assisterebbe, di nuovo, al bellum omnium contra omnes, con effetti devastanti, se si pensa che tra i Paesi di dubbia o nulla cultura democratica vi sono la Repubblica Popolare Cinese, l’Arabia Saudita e molti alleati degli stessi statunitensi (che, come è ben noto, in passato non si sono peritati di sostenere regimi dittatoriali di comodo, in America Latina come in Africa, per tacere del caso della Spagna franchista). Oppure il nuovo “principio di intervento” sarebbe applicato caso per caso, a seconda delle convenienze, denunciando così immediatamente la propria natura ideologica e strumentale (cosa che appunto di fatto avviene, come dimostra l’unilateralità degli USA nel prendere di mira dittature la sconfitta delle quali, non a caso, procura loro sempre vantaggi economici).

Al di là delle terribili conseguenze sul piano empirico, un principio del genere mostra immediatamente la sua debolezza sul piano teorico, solo che ci si ponga la fatale domanda: chi dovrebbe stabilire la “qualità” di un ordinamento politico e giustificare, quindi, un intervento diretto eventualmente a “raddrizzarlo”? Se la risposta non fosse, sempre di nuovo, “l’organizzazione mondiale di tutti gli Stati”, si cadrebbe immancabilmente nell’aporia di un sistema che consentirebbe a ciascuno Stato di accusare qualsiasi altro di non essere “politically correct” e di agire (militarmente) di conseguenza.

A meno che non si voglia ammettere che stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione mondiale, paragonabile a quella francese del 1789, secondo quanto sembrano suggerire in loro recenti interventi, anche televisivi, sia pure da prospettive differenti, lo storico Franco Cardini e il filosofo Emanuele Severino. Gli Stati Uniti, l’Impero appunto, si andrebbero affermando come Stato mondiale, ponendo l’umanità intera davanti a un fatto compiuto, all’effetto dell’esercizio puro della forza. Questa istituirebbe originariamente un nuovo diritto, parente stretto dell’antico diritto di conquista.

Ma se anche così fosse, niente ci obbliga ad accettare il fatto come buono solo per il fatto che si produce. Le ragioni per dubitare della bontà di questo disegno sono molte e diverse: prima fra tutti la considerazione – che non ha nulla di sentimentale - che il “nuovo ordine mondiale” che tale disegno prefigura presuppone, contraddittoriamente, per essere realizzato, una terrificante scia di sangue e di terrore; tutte cose che, almeno nell’immediato, paiono avere ben poco a che fare con l’idea stessa di un “ordine”.

Nessun ordine, d’altra parte, com’è parimenti noto, può reggersi sulla punta delle baionette e sempre di nuovo abbisogna di una legittimazione (l’elemento “politico”, oltre quello “militare”) senza di cui non potrebbe né affermarsi, né sopravvivere. Il che ci riconduce al problema della legittimazione del diritto del più forte attraverso la forza di un diritto che possa dare un significato politico ai suoi atti.

I sostenitori dell’opposizione alla guerra “senza se e senza ma” troveranno quella della (mancata) legittimazione internazionale dell’intervento in Iraq una questione di lana caprina. Tuttavia va ricordato che un atto non si giudica mai in se stesso, ma a partire dal contesto in cui è compiuto. Lo stesso atto, come è ben noto, può essere un gesto d’amore o uno stupro, a seconda del modo in cui viene inteso da chi vi prende parte. Allo stesso modo è cosa diversa uccidere per legittima difesa, in stato di necessità, per negligenza, in modo impulsivo, preterintenzionalmente o premeditatatamente.

Il crescente disprezzo americano per il diritto internazionale quale si è andato faticosamente elaborando nei secoli (si pensi allo scritto Per la pace perpetua di Kant del 1795) rappresenta il vero pericolo per la stabilità mondiale, rispetto a cui lo stesso ingente numero dei morti e di feriti e le distruzioni materiali e morali che questo o quel conflitto potrebbero suscitare passano in secondo piano.

Si tratta, infatti, di un disprezzo aporetico che nasce in un Paese che dei diritti civili, per altri aspetti, è la patria. Proprio questa aporia, in cui siamo tutti presi per il meccanismo della democrazia rappresentativa che ci rende, formalmente, corresponsabili, giustifica il fatto che le manifestazioni contro la guerra si indirizzino preferibilmente contro Bush e Berlusconi e non contro Saddam (come, un tempo, non si indirizzavano contro Pol Pot o Gheddafi). Lo slogan che riassume il senso di questa protesta è, infatti, uno solo: “Not in my name”.

Il rischio è che l’erosione del diritto internazionale in un contesto di sempre maggiore integrazione giuridica mondiale (vedi il caso complesso dell’Unione Europea e dell’affermazione del principio di sussidiarietà) generi effetti a cascata sulla tenuta e sulla legittimazione degli ordinamenti giuridici dei diversi Paesi, nella misura in cui essi, necessariamente, si fondano molto di più sul consenso e sull’educazione dei cittadini che sulla minaccia di sanzioni.

L’esempio, pessimo, offerto in misura sempre più aperta e sfacciata dagli Stati Uniti d’America (che viceversa si propongono come un modello), in termini di evidente strumentalizzazione del diritto e di un crescente conflitto di interessi, questo sì globale, tra apparato militare-industriale e popolo/popoli, non può che erodere la residua fiducia di tutti verso istituzioni sempre più compromesse con l“Impero” e le sue “leggi” (di comodo). L’esito non può che essere quello di giustificare indirettamente forme di “cinismo” di massa, già piuttosto radicate per esempio nel nostro Paese nella forma del “familismo amorale”, e di favorire comportamenti antigiuridici che vanno dall’evasione fiscale ai veri e propri atti di terrorismo, sul pretesto dei quali tutta la macchina imperiale si è messa in movimento.

Da questo punto di vista, e paradossalmente, proprio l’antiamericanismo, generalmente additato come esempio di approccio emotivo all’evento bellico,  - se fondato e giustificato, certamente, non se assunto emotivamente – appare, tra tutte le posizioni confusamente emerse nel dibattito sulla guerra, quella più fondata; più ancora, per esempio, dell’astratta opposizione a tutte le guerre o della posizione di coloro che distinguono sottilmente tra Bush, le amministrazioni che lo precedettero e il “popolo americano”.

Dalla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti, attraverso le loro organizzazioni di intelligence e pressioni di tipo politico, militare ed economico, hanno esercitato, come è ormai emerso con evidenza, un potere occulto che, all’origine, poteva avere una giustificazione nel confronto globale con il blocco socialista.

Sono noti gli episodi (sanguinosi) legati in modo più o meno diretto o dimostrato a questo potere: dal sostegno conferito ai dittatori sudamericani, primo fra tutti Pinochet, alle cosiddette “stragi di Stato” italiane.

Numerosi sono gli indizi e i segnali che suggeriscono come la fine della guerra fredda non abbia ricondotto la politica americana (interna ed estera) nel quadro di un ordine mondiale maggiormente rispettoso delle sovranità nazionali e dei diritti dei singoli, di tutti i singoli.

L’elenco sarebbe molto lungo. Mi limito a citare i dati più eclatanti:

  1. la reiterata mancata ratifica dei protocolli di Kyoto per quanto riguarda il problema ambientale che ha ormai assunto da tempo dimensioni globali;
  2. la sistematica applicazione di una sorta di “teoria dei due pesi e delle due misure” quanto si tratta di giudicare reati commessi da militari americani all’estero (penso alla strage del Chermiss e a tanti analoghi episodi meno noti);
  3. lo spionaggio telematico, dalla valenza politica, industriale e militare, attuato (non a caso con la connivenza britannica) attraverso la struttura segreta denominata Echelon;
  4. l’esercizio o la minaccia (a tutt’oggi), da parte americana, del diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza ogni qualvolta si prospettano risoluzioni di condanna di Israele per evidenti violazioni dei diritti umani o di accordi internazionali;
  5. il rifiuto di appoggiare la costituzione del tribunale internazionale per i diritti dell’uomo;
  6. la sentenza della Corte Suprema relativa all’inapplicabilità per i reclusi di Guantánamo delle tutele giuridiche stabilite dalla Costituzione americana (ergo, ex silentio, di ogni altra tutela internazionalmente sancita);
  7. l’annoso problema dell’applicazione della pena di morte anche a minorenni o a persone con problemi mentali, nonostante la tendenza maggioritaria dell’opinione pubblica mondiale contro questo tipo di pratica.

Nessuno nega che gli Stati Uniti siano una democrazia avanzata e, per certi aspetti, esemplare. Tuttavia, come acutamente osservava già un vecchio liberale, Tocqueville, proprio una democrazia di questo tipo può nascondere un pericoloso dispotismo: quello della maggioranza o, ancora peggiore, quello di quel “potere invisibile e quasi impercettibile”, fatto di luoghi comuni e “politically correct”, che oggi diremmo “pensiero unico” e che possiamo considerare, più per es. degli aspetti economici, il lato più terrificante del processo, omologante, di globalizzazione; potere ancora più terribile e incontrastato quando si salda agli interessi oggettivi di potenti gruppi finanziari di dimensioni mondiali e privi ormai di freni interni ed esterni all’esercizio spregiudicato del loro dominio.

Al pensatore autenticamente liberale, che ama le differenze e lotta per l’autonomia sia dei singoli che della culture di cui essi sono espressione, non può che ripugnare il “nuovo ordine mondiale”  che si va preparando.

Un diritto brutalmente cortocircuitato sulla forza che lo impone, caduti i sapienti veli delle procedure di legittimazione, si va affermando mondialmente col ferro e col fuoco; ma per ciò stesso, in pari tempo, negando. Lo spettro di un mondo sempre più violento, ambientalmente devastato, ma protervamente costellato di scarpette della Nike e di lattine di Coca-cola sembra prendere sempre più forma.

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