BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 20/09/2010

 

OLTRE L'OSSIMORO DEL CAPITALE UMANO

di Roberto Gialdi

L'enfasi che, nella cosiddetta società della conoscenza, viene a più riprese posta sul concetto di capitale umano può indurre a commettere due errori, per certi versi opposti, ma in ogni caso deleteri. Da un lato, può portare a ritenere che sia possibile attribuire un valore economico alle competenze, trattandole alla stregua di un qualunque intangible asset (e però dimenticando che le persone – diversamente da quanto può accadere con un marchio od un brevetto – non si esauriscono mai nella loro utilità economica). Dall'altro lato, può ingenerare una profonda repulsione per l'idea stessa di capitale umano, avvertita come degradante per la persona, che viene ridotta al ruolo – appunto – di una posta di bilancio.
Questa polarizzazione di approcci rischia di trasformarsi in una sterile disputa di principio, a danno tanto delle aziende  quanto dei lavoratori. Come spesso accade in casi come questo, la soluzione dell'impasse deve essere trovata cercando una prospettiva “terza”, una via equilibrata, equa e rispettosa sia delle istanze economico-produttive che delle esigenze proprie della sfera personale dei lavoratori.

Il capitale umano
Quando, nella prima metà degli anni Sessanta del secolo scorso, si iniziò a parlare di capitale umano, il punto di vista era meramente economico e prendeva le mosse proprio da una traslazione del concetto di capitale fisico: “Probably the most important and most original development in the economics of education in the past 30 years has been the idea that the concept of physical capital as embodied in tools, machines, and other productive equipment can be extended to include human capital as well” (1).
Si tratta – come è facile notare – di una partenza in salita, decisamente materialista, che non lascia alcuno spazio a qualsivoglia considerazione di natura psicologica. L'eguaglianza è presto fatta: fattori produttivi = capitale fisico + capitale umano. Ed infatti, “just as physical capital is created by changes in materials to form tools that facilitate production, human capital is created by changes in persons that bring about skills and capabilities that make them able to act in new ways” (2). Non esistono, quindi, fondamentali differenze tra il capitale fisico e quello umano, tranne – giustappunto – la fisicità: a parte questa, tanto l'uno quanto l'altro hanno una valenza squisitamente produttiva ed è esattamente in questi termini che ne deve essere valutata l'utilità.
Produttività rima con competitività (e non solo in senso lirico): l'impresa è competitiva se produce meglio e (possibilmente) a costi inferiori. La filiera del capitale umano diventa, quindi: competenze – produttività – competitività. Seguendo questo circolo (vizioso?, virtuoso?), 224 imprese francesi sono state fatte oggetto di ricerca dal Ministère de l'économie, des finances et de l'industrie nel periodo tra il giugno del 2004 ed il gennaio del 2005. Lo scopo dell'indagine era duplice: “réunir des informations directement auprès des PME sur la façon dont elles lient le développement de l'aspect 'formation, compétences et qualifications' à la compétitivité de leur entreprise” e “permettre de proposer, en fonction de ces remontées, des actions sectorielles ou thématiques sur le thème de la compétitivité du capital humain, en lien avec d'autres services déconcentrés de l'Etat et les partenaires économiques et sociaux locaux” (3). Nell'ottica governativa delle politiche economiche e sociali, quindi, il capitale umano diventa una leva di sviluppo: la formazione e le competenze sono il giunto cardanico tra l'impresa e la competitività, e lo stato deve farsi promotore di azioni utili e necessarie allo sviluppo del capitale umano.
C'è un aspetto, però, che allunga un'ombra un po' inquietante sull'attenzione che il Ministero dell'economia francese (ma non solo lui) riserva al capitale umano: pur con tutte le migliori intenzioni, non sfugge ad una logica strumentale. Come già avevano fatto gli economisti dell'educazione negli Sessanta, anche il ministero approccia il capitale umano come uno strumento: il capitale umano – lungi dall'essere considerato un fine – continua ad essere soltanto un mezzo.

Un ossimoro?
Secondo alcuni, il capitale umano costituisce un ossimoro assurdo e molto pericoloso. Un ossimoro assurdo perché il capitale non ha nulla di umano, molto pericoloso perché coniugare l'uomo ed il capitale significa riproporre una sorta di reificazione dei lavoratori: “Parler de capital à propos de ce qui est ainsi le contraire même du capital en même temps que son principe générateur, c'est renverser tous les rapports de production capitalistes en les rendant incompréhensibles, c'est mettre le monde à l'envers” (4).
Questo punto di vista possiede innegabilmente il fascino antico della lotta di classe, eppure – proprio per questo –  rischia anche di suonare un po' fuori tempo. La lotta di classe appartiene ad un mondo passato, le cui dinamiche sociali ed economiche erano assai più semplici da interpretare rispetto a quelle che si realizzano nel mondo odierno (che, infatti, non a caso si definisce caratterizzato dalla complessità). Il canto del cigno di quel mondo è probabilmente da individuare negli autunni caldi degli anni Settanta, ma da allora tanto (troppo) è cambiato perché quella stagione possa essere ora riproposta. Nondimeno, la paura di fondo che questo sguardo presenta – quella di vedere l'essere umano ridotto ad oggetto – appare piuttosto fondata, se è vero, come è vero, che anche il CEDEFOP (l'agenzia dell'Unione Europea che promuove lo sviluppo della formazione professionale) si chiedeva, nell'edizione 1999 del suo annuale convegno a Salonicco, se fosse possibile tracciare un bilancio del capitale umano e, se sì, perché e come.
Partendo dalla considerazione che la società, nel suo complesso, deve investire soprattutto in formazione ed insegnamento professionale – peraltro assicurandosi di ottenere un ritorno da tali investimenti –, lo scopo di quell'edizione del seminario era rappresentato proprio dal mettere in evidenza la necessità di stilare un rapporto sul capitale umano in azienda e di come un simile documento possa migliorare la competitività delle imprese e aumentare le opportunità di occupazione dei lavoratori (5). Va da sé che la redazione di un tale rapporto, dovendo rappresentare un vantaggio competitivo soprattutto per l'impresa (il richiamo alle maggiori possibilità di impiego appare piuttosto accidentale, almeno dal punto di vista aziendale), dovrebbe sostanziarsi in una valutazione economico-finanziaria degli investimenti in capitale umano.
Ma, proprio nell'ottica della competitività, il bilancio del capitale umano risulta essere solo una parte di un più articolato rendiconto delle attività immateriali: “les parties concernées hors de l'entreprise – actionnaires, institutions financières et l'ensemble de la société – ne se satisfont pas d'un simple bilan du capital humain. Ce bilan doit être mis en parallèle avec d'autres données plus approfondies et complètes sur les actifs incorporels pour obtenir les informations manquantes sur les ressources de l'entreprise” (6).
Parrebbe quindi mancare ogni via d'uscita: da qualunque parte lo si osservi, il capitale umano sembrerebbe perennemente avvolto da questa nube sulfurea d'antan, che la retorica dell'ossimoro contribuisce ad addensare: l'uomo non è nient'altro che una risorsa produttiva. Eppure, il fatto che le conoscenze e le competenze siano un'autentica ricchezza è talmente scontato da apparire oggi un fastidioso pleonasmo.

Il capitale sociale
In realtà, l'analisi fatta sul capitale umano deve indurre a svolgere anche altre considerazioni. Laddove il capitale umano è trattato come un intangible asset su cui investire per incrementare la produttività, effettivamente si creano i presupposti che fanno emergere l'ossimoro: l'essere umano diventa un fattore della produzione al pari di impianti e macchinari e, così facendo, perde la propria umanità, fatta di emozioni, di sentimenti, di relazioni. Non è affatto detto, però, che tutte le aziende vedano una medesima cosa sempre nello stesso modo.
Quando si parla del capitale umano, è costante la tendenza a dimenticarsi dell'esistenza del capitale sociale. Così come il capitale umano deriva da cambiamenti nelle persone in grado di apportare nuove competenze, il capitale sociale deriva da cambiamenti nelle relazioni tra le persone che facilitano l'azione: “If physical capital is wholly tangible, being embodied in observable material form, and human capital is less tangible, being embodied in the skills and knowledge acquired by an individual, social capital is less tangible yet, for it exists in the relations among persons. Just as physical capital and human capital facilitate productive activity, social capital does as well” (7).
Se, quindi, spostiamo l'attenzione dal capitale umano (le competenze) al capitale sociale (le relazioni), possiamo trovare la via per conciliare quello che sembrava inconciliabile: produttività ed umanità.
Investire nelle persone può apparire un'espressione infelice, se ci poniamo nella prospettiva del capitale umano, perché potrebbe trasmettere l'idea – come abbiamo a più riprese sottolineato – che queste persone siano soltanto degli strumenti: investo sulle loro competenze perché quelle competenze arricchiscono la mia azienda. Con le relazioni, però, è diverso: “al invertir genuinamente en sus empleados, crean una obligación recíproca por la que éstos reinvierten su energía y compromiso en la empresa” (8). Eccola lì, la parola chiave: genuinamente. Se parliamo di competenze, l'investimento può essere effettivamente mosso da un interesse sincero nella crescita dei lavoratori; ma può anche semplicemente essere frutto di una strategia che investe sulle competenze dei lavoratori (anziché, per esempio, su un impianto tecnologicamente più avanzato) soltanto perché ritiene che in una determinata condizione questo tipo di investimento si rivelerà maggiormente redditizio. Ma se parliamo di relazioni, o l'investimento è – appunto – genuino, oppure non funziona.
Detto altrimenti: quand'anche non mi interessasse nulla della crescita personale dei miei dipendenti, potrei comunque sapere perfettamente di quali competenze hanno bisogno (non per loro, ovviamente, ma per la mia azienda) ed il mio investimento – strumentale – in capitale umano frutterebbe comunque. Ma se invece non ho sinceramente a cuore il benessere psicologico dei miei dipendenti, non capirò mai di che cosa hanno bisogno sul piano relazionale ed il mio investimento in capitale sociale finirà per essere un fallimento. L'investimento in capitale sociale richiede sincerità, diversamente non produce alcun ritorno positivo.
Sergio Nacach è a capo della regione andina di Kimberly-Clark, che comprende Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia e Venezuela: “Pese a ser relativamente pobre y pequeña, el año pasado registró más del 40% del aumento neto de los ingresos operativos de toda la empresa. (…) El secreto de su éxito no es tan secreto. (…) Simplemente una buena dirección basada en valores humanistas, valores básicos que todos conocemos pero que con demasiada frecuencia no ponemos en prática” (9) Interrogato su che cosa occorra per creare una cultura vincente, la risposta di Nacach “incluía una única y contundente palabra: 'Amor'” (10) Gli investimenti sul capitale sociale danno risultati positivi soltanto se alla base hanno una sincera tensione empatica: occorre “entablar relaciones de confianza más profundas con sus empleados, y éstas se inscriben en el ámbito emocional. Sin ese clima de confianza y seguridad psicológica, es poco probable que sus empleados lleguen a crear jamás el tipo de entorno necesario para construir su legado colectivo" (11).
Avere sinceramente a cuore il benessere psicologico delle persone, investire genuinamente su di loro, non può assolutamente risolversi in qualche intervento spot: richiede un impegno globale, che chiaramente ha molto in comune con la creazione ed il mantenimento di un clima aziendale sereno, ma che altrettanto chiaramente non può di certo esaurirsi con esso: è un fatto di cultura aziendale, è un fatto di valori condivisi.

Oltre l'ossimoro
La cultura aziendale, i valori condivisi devono poi tradursi giocoforza in adeguati comportamenti organizzativo-gestionali (12). Con il termine adeguati s'intende che questi comportamenti devono essere permeati da una naturale compartecipazione emotiva.
Perché ciò accada, infatti, occorre un management che sappia riconoscere i propri sentimenti per guidare le proprie decisioni; che sia in grado di gestire le proprie emozioni, sia internamente – in modo che queste possano facilitare i suoi compiti –, sia nelle relazioni; che sappia automotivarsi; che faccia dell'empatia una pratica quotidiana. Ma occorre anche che i lavoratori siano in grado di leggere e comprendere i sentimenti che provano nei confronti del mondo che li circonda; che siano padroni delle loro emozioni e che riescano a gestirle. Senza questo reciproco impegno emotivo, la nascita e la crescita di una relazione di fiducia è destinata a rimanere per sempre una chimera.
Un'azienda che, su queste basi, metta naturalmente, sinceramente, genuinamente le persone al centro delle proprie politiche organizzative e gestionali è un'azienda che guarda direttamente al capitale sociale, che si propone come obiettivo la qualità delle relazioni sia tra direzione e lavoratori che tra gli stessi lavoratori.
Certo, l'azienda resta tale e non si trasforma magicamente in un ente morale, per cui non perderà mai di vista il risultato economico (e nemmeno potrebbe, poiché ne andrebbe della sua stessa sopravvivenza), ma l'utile di bilancio si può conseguire in modi molto diversi. I lavoratori possono essere un mezzo, uno strumento ed essere trattati come tali. Oppure, i lavoratori possono essere considerati un fine, nel qual caso i risultati economici saranno la diretta conseguenza della ricchezza relazionale ed emotiva che l'azienda – complessivamente intesa: management e lavoratori – avrà saputo creare al suo interno, come dimostra l'esempio Kimberly-Clark nella regione Andina, lasciandosi definitivamente alle spalle l'ossimoro del capitale umano.


1 - James S. Coleman, “Social Capital in the Creation of Human Capital”, in: The American Journal of Sociology, Vol. 94, Supplement: Organizations and Institutions: Sociological and Economic Approaches to the Analysis of Social Structure, 1988, pag. 100 (“Probabilmente lo sviluppo più importante e più originale nell'economia dell'educazione negli scorsi 30 anni è stata l'idea che il concetto di capitate fisico così come è incarnato in strumenti, macchine ed altre attrezzature produttive possa essere esteso fino ad includere anche il capitale umano”).

2 - Ibidem (“Proprio come il capitale fisico è creato da cambiamenti nei materiali per modellare strumenti che agevolino la produzione, il capitale umano è creato da cambiamenti nelle persone che determinano competenze e capacità che le rendono in grado di agire in nuovi modi”).

3 - AA.VV., Le développement du capital humain dans les entreprises, Ministère de l'économie des finances et de l'industrie, Paris, 2005, p. 3 (“raccogliere informazioni direttamente presso le PMI circa il modo in cui esse collegano lo sviluppo dell'aspetto 'formazione, competenze e qualifiche' alla competitività della loro impresa” e “consentire di proporre, in funzione di tali emergenze, delle azioni settoriali o tematiche sul tema della competitività del capitale umano, in collegamento con altri servizi decentrati dello Stato ed i partner economici e sociali locali”).

4 - Alain Bihr, “Capital... humain”, in: Le Monde diplomatique, Décembre 2007, p.28 (“Parlare di capitale a proposito di quello che è così il contrario stesso del capitale e contemporaneamente il suo principio generatore, è ribaltare tutti i rapporti di produzione capitalisti rendendoli incomprensibili, è mettere il mondo sottosopra”).

5 - AA.VV., Agora VI. Bilan du capital humain en entreprise – Est-il possible de dresser un bilan du capital humain et, si oui, pourquoi et comment?, Cedefop Panorama series 19, Office des publications officielles des Communautés européennes, Luxembourg, 2002, p. 1.

6 - Helge Kielland Løvdal, “Bilan du capital humain en entreprise: est-il possible de dresser un bilan du capital humain et, si oui, pourquoi et comment?”, in: AA.VV., Agora VI..., p. 87 (“le parti interessate fuori dell'impresa – azionisti, istituzioni finanziarie e la società nel suo insieme – non vengono soddisfatte con un semplice bilancio del capitale umano. Questo bilancio deve essere messo in parallelo con altri dati più approfonditi e completi sulle attività immateriali per ottenere le informazioni mancanti sulle risorse dell'impresa”).

7 - Coleman, “Social Capital...”, pp. 100-101 (“Se il capitale fisico è completamente tangibile, essendo incarnato in una forma materiale osservabile, ed il capitale umano è meno tangibile, essendo incarnato nelle competenze e nelle conoscenze acquisite da un individuo, il capitale sociale è ancora meno tangibile, poiché esiste nelle relazioni tra persone. Proprio come il capitale fisico ed il capitale umano facilitano l'attività produttiva, lo stesso fa il capitale sociale”).

8 - Jeffrey Pfeffer, “Los empleados son estrellas”, in: IESEinsight, Segundo Trimestre 2009, Número 1, p. 6 (“investendo genuinamente nei loro dipendenti, creano un'obbligazione reciproca per la quale questi reinvestono la propria energia ed il proprio impegno nell'impresa”).

9 - Ibidem (“A dispetto di essere relativamente povera e piccola, l'anno scorso ha registrato più del 40% dell'aumento netto dei ricavi operativi di tutta l'azienda. (…) Il segreto del suo successo non è tanto segreto. (…) Semplicemente una buona direzione basata su valori umanistici, valori di base che tutti conosciamo ma che con eccessiva frequenza non mettiamo in pratica”).

10 - Ibidem (“comprendeva un'unica e decisiva parola: 'Amore'”).

11 - Ibidem (“intavolare relazioni di fiducia più profonda con i propri dipendenti, e queste si iscrivono nell'ambito emotivo. Senza quel clima di fiducia e sicurezza psicologica, è poco probabile che i propri dipendenti arrivino mai a creare il tipo di ambiente necessario per costruire la propria eredità collettiva”).

12 - Per chi desiderasse approfondire la conoscenza di un modello d'impresa centrato sulle persone, trattandone la struttura organizzativa, gli strumenti gestionali ed i processi formativi: Roberto Gialdi, L'azienda in progresso. Organizzazione, gestione e conoscenze, Franco Angeli, Milano, 2006.

Pagina precedente

Indice dei contributi