UNA COSA DA UN ATTIMO
di Paolo Iacci
Assago, un quartiere di soli uffici alle porte di Milano, accanto all’autostrada che porta al mare, verso Genova. Siamo a Luglio, il 13 per la precisione, quasi mezzogiorno: tutti sono ancora in ufficio mentre un camioncino frigorifero per i gelati s’aggira alla ricerca di uno dei pochi bar aperti. Non trova parcheggio e così si mette di sbieco, una ruota sul marciapiedi e l’altra giù. Tanto è cosa da un attimo. Deve scendere e lasciare qualche scatolone di cornetti e ghiaccioli. L’autista, sudato, apre la portiera, gira sul retro, sgancia il portellone ed in un sol balzo è dentro: l’aria gelida è un toccasana in quella mattinata torrida.
Un attimo d’esitazione, ma poi decide. Vuole fare in fretta. Prende una pigna di scatole, quante più ne può. Forse ha un po’ esagerato, non riesce neanche a vedere davanti, ma non è un problema. Basta arrivare al portellone, appoggiarle sul pianale, scendere, riprenderle e poi via verso il bar. Semplice, una cosa da un attimo. Ma nel momento di girarsi su se stesso per chinarsi, perde l’equilibrio, infila la portiera aperta e cade. Basta un attimo. Batte la testa per terra, forse sullo spigolo di quel marciapiede di troppo. Muore così, tra i cornetti ed i ghiaccioli. Nel giro di breve attorno a quel corpo, pietosamente coperto da un grembiule, si raduna una piccola folla di impiegati in pausa pranzo.
Io ero tra loro. Non
ho mai saputo il nome di quell’autista, morto per fatalità.
Da allora, però, le cifre riguardanti la mortalità
sul lavoro mi appaiono, come dire, “vere”, non più
solo come dei numeri da scorrere distrattamente. Anche se anche
quest’anno i dati sono stati impressionanti. Nel 2002,
nel mondo, gli infortuni sul lavoro sono stati 270 milioni,
160 milioni i casi di malattie professionali, 2 milioni i morti.
Una media di 9.000 morti al giorno.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), agenzia
speciale delle Nazioni Unite, ha quantificato il loro costo,
più o meno il 4% del Pil mondiale (1.250.000 milioni
di dollari, cioè venti volte l’ammontare mondiale
ufficiale dei fondi stanziati per lo sviluppo). Qualche dettaglio:
ogni anno 340.000 lavoratori muoiono a causa di sostanza tossiche
e l’amianto causa circa 100.000 morti l’anno, 11
milioni di lavoratori sono esposti a radiazioni ionizzanti e
le malattie cardiache e muscolo-scheletriche rappresentano più
della metà dei costi imputabili alle malattie professionali.
Il cancro, ancora, rappresenta la principale causa di morti
legate al lavoro, causando il 32% di questi decessi. In Europa
il 55% del totale dei giorni di assenza sono dovuti allo stress
lavorativo. Ma tra le mille cifre spaventose ve n’è
una che forse può sembrare piccola al confronto ma che
non può non scuoterci: i bambini morti sul lavoro sono
12.000 ogni anno, mentre venivano impiegati e sfruttati contro
le convenzioni internazionali ed i diritti umani approvati dagli
stessi <paesi in cui hanno trovato la morte. Quella del lavoro
minorile è un apiaga che pesa come un’infamia sulla
coscienza collettiva. L’ILO calcola che nel mondo vi siano
246 milioni di bambini sfruttati, soprattutto in Asia, Africa
ed America Latina. Ma non ne sono immuni neanche i Paesi industrializzati.
I prodotti a bassa tecnologia che troviamo sui nostri mercati
e che provengono da quelle zone del mondo dove le nostre aziende
delocalizzano la produzione cercando costi più bassi,
spesse volte sono intrisi dai segni dello sfruttamento minorile,
così feroce da portarsi dietro quei 12 mila morti all’anno.
Al punto che si sono dovuti creare marchi come Transfair o Rugmark
per contrassegnare prodotti fabbricati senza impiego minorile.
Ma questo ancora non basta, perché talvolta il lavoro
minorile è il minore dei mali, senza quello ci sarebbe
semplicemente la fame. La stabilità del fenomeno è
inquietante, perché indica una realtà pietrificata
in un’economia dal cuore di pietra. I Paesi ricchi come
il nostro fingono di non sapere. Ma il fenomeno riguarda anche
l’Italia: secondo l’Istat ci sono 144.000 bambini
“economicamente attivi”. Di questi 3 sono morti
sul lavoro anche nel 2002. E’ possibile che non abbiamo
occhi per vederli? E’ questo un marchio d’infamia
per tutti noi, nell’ambito più generale del dramma
degli infortuni sul lavoro.
In Italia, nel 2002
vi sono stati 972.404 infortuni, 1.360 morti, 25.000 invalidità
permanenti, 51.000 incidenti durante gli spostamenti per lavoro,
26.000 casi di malattia professionale. Più colpite le
regioni del Nord: Lombardia in testa, seguita da Emilia e Veneto.
Le tre regioni insieme costituiscono da sole il 48% del totale
degli infortuni. Colpi, urti, incidenti alla guida, piedi in
fallo, sono, in ordine di frequenza, le cause principali degli
infortuni sul lavoro. Rispetto gli anni precedenti sono in aumento
le malattie professionali legate al sistema muscolo scheletrico
(artropatie, sindrome del tunnel carpiale e discopatie). Oltre
alla cervicale, il mal di schiena è diventato uno dei
problemi sanitari principali .Anche l’anno scorso, inoltre,
sono stati denunciati oltre 70.000 casi di lesione della colonna
vertebrale: i lavoratori esposti al rischio di sovraccarico
biomeccanico e posture scorrette della colonna vertebrale sono
soprattutto quelli che svolgono la movimentazione manuale dei
carichi ed attività che espongono a vibrazioni.
In generale, comunque, in tema di morti ed infortuni sul lavoro,
l’Italia vanta il primato negativo europeo: 6 morti ogni
giorno lavorativo è un dato agghiacciante.
Tra il 2001 ed il
2002 oltre 3.000 lavoratori hanno subito la perdita di un arto:
si tratta di 14 persone amputate ogni singolo giorno di lavoro!
Ed è ancora più agghiacciante il fatto che non
se ne parla, neanche tra noi, addetti ai lavori, come se fossimo
di fronte a qualche cosa di inevitabile o che non ci riguardasse.
Addirittura quest’anno si sono letti commenti incoraggianti
riguardo un irrisorio calo di qualche punto percentuale sugli
infortuni nel confronto 2002/2001: a mio avviso, davvero troppo
poco per poter gioire.
Per anni sono stato convinto che la legge 626 del ’94 fosse una delle migliori leggi europee sul tema. Poi mi sono accorto che la Corte di Giustizia europea non era dello stesso avviso, avendo di recente denunciato l’Italia per non aver applicato correttamente la Direttiva del Consiglio Ue sui requisiti minimi di sicurezza e salute. Non è la prima volta che succede: già due anni fa la stessa Corte aveva dichiarato la 626 “incompleta”. La legge dovrà quindi subire modifiche al più presto per non incorrere in sanzioni. Tale revisione è già stata auspicata da Governo ed opposizioni, che, dopo nove anni di parziale ed erronea applicazione delle normative europee, oggi auspicano entrambi la revisione della legge, dichiarando farraginosi e burocratici gli adempimenti richiesti alle aziende per attuare le azioni di prevenzione.
La strada è
quindi ancora molto lunga: non vi è una cultura della
sicurezza, molte volte si privilegia l’analisi sulla correttezza
formale di inutili iter burocratici nelle grandi e medie imprese,
mentre si tralasciano controlli di merito nelle piccole imprese,
o in interi settori come l’edilizia. La prevenzione è
ancora molto scarsa e non sempre si mette mano con decisione
là dove si potrebbe: è un po’ come quando
ci si lamenta per chi non rispetta i limiti di velocità
in autostrada, ma nessuno obietta se la maggioranza delle auto
vendute in Italia, secondo il nostro codice della strada, potrebbero
girare solo in pista. A ottobre, in tutti i Paesi Ue si svolgerà
la settimana europea per la salute e la sicurezza sul lavoro.
Ci auguriamo che per allora, imprese, sindacati e legislatore
abbandonino le rispettive sponde ideologiche ed i ragionamenti
da bottega per avviare finalmente interventi ampi e risolutivi.
Noi non vogliamo smettere di indignarci. Né per quello
che succede in Italia, né per i dati che si registrano
a livello internazionale. Vorremmo che dove ci fosse una persona
che si occupa di “personale”, là ci fosse
legalità ed attenzione concreta alle persone. Perché
nessun minore venga sfruttato, perché nessuna persona
debba ferirsi o morire per poter mantenere se stesso ed i propri
cari. Deve far parte della nostra deontologia professionale
ed, ancor prima, della nostra dignità personale. E’
una cosa da un attimo, ma può cambiare la vita a tutti
noi.