BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 26/01/2004

LA FLESSIBILITA' TRA PRECARIATO ED OPPORTUNITA'

di Paolo Iacci


Cos’è la flessibilità
La flessibilità è probabilmente il concetto oggi più controverso nel mondo del lavoro. Fino ad alcuni anni fa era semplicemente sinonimo dispregiativo di deregulation giuslavoristica. Oggi appare anche come la parola d’ordine dietro cui smantellare un’insieme di regole che, nate per garantire certezza dei diritti e stabilità del futuro, si sono a poco a poco trasformate in un reticolo paralizzante. D’altro canto, però, come ogni spinta destrutturante, anche questa comporta dei rischi.
Il più grave tra questi è consentire l’arbitrio dei datori di lavoro sull’altare della libertà. Ciò che invece si vuole perseguire è una flessibilità regolata. Salvaguardare i diritti, senza però dover essere ingabbiati a vita. Uscire da un’economia del bisogno per entrare in una società del benessere comporta il coraggio di rischiare. D’altro canto l’incertezza di cui tanto si sente parlare in questo periodo non è un concetto nuovo, ma è un problema cresciuto di pari passo con la crisi del modello di produzione di derivazione fordista.
La crisi del fordismo ha coinciso con l’obsolescenza di modelli organizzativi centrati sulla specializzazione funzionale, la stabilità del posto di lavoro, la chiara definizione delle posizioni, la pianificazione di lungo periodo e la centralizzazione del controllo. La relativa stabilità dei mercati esterni e la gestibilità dei rapporti con i dipendenti consentiva una grande linearità operativa che procedeva attraverso la separazione gerarchica delle fasi di pianificazione, decisione, azione e controllo.
Oggi i rapporti di forza si sono ribaltati: sono i bisogni dei mercati la variabile indipendente ed i modelli organizzativi quella dipendente. La crisi del fordismo non ha però ancora fatto emergere dei nuovi paradigmi che possano caratterizzare con forza la fase in cui siamo entrati. Sicuramente si sta a poco a poco perdendo la certezza della best way, dell’infallibilità del modello vincente e ad esso si sta sostituendo la necessità di rinvenire volta per volta l’assetto organizzativo più confacente alle specifiche necessità del mercato.
Grazie allo sviluppo delle terziarizzazioni e l’esplodere dei co.co.co., gli stessi confini dell’organizzazione si sono fatti meno invalicabili e più sfrangiati. Se, però, l’organizzazione svolge anche un ruolo di “contenitore psicologico” per tutti coloro che vi lavorano all’interno, laddove i confini di questo contenitore divengono meno definiti, anche la sua funzione di “accoglimento” si fa più labile. Cambiamento e flessibilità sono così diventate le nuove parole d’ordine per chi vuole sopravvivere in queste mutate condizioni di mercato ed organizzative. Non vi è però possibilità di cambiamento senza un costante processo d’apprendimento, organizzativo ed individuale. L’organizzazione che apprende è quindi un’organizzazione in grado di gestire il cambiamento e non di rimanerne vittima. Analoga sorte tocca agli individui.
Il postfordismo supera il modello fordista proprio perché è costretto a porre il soggetto, con le sue caratteristiche, la sua ricchezza ed i suoi bisogni, come elemento centrale della vita quotidiana delle organizzazioni. L’instabilità e la crescente incertezza, certo, sono dati incontestabili che però non devono ammantare negativamente il nostro giudizio.

Il mercato del lavoro italiano e la flessibilità
Flessibilità deve potersi coniugare con reciproci diritti e doveri del lavoratore e del datore di lavoro, in modo che s’ingeneri un sistema che consenta di superare le rigidità del nostro mercato del lavoro e dei nostri rapporti contrattuali senza per questo entrare nel far west della semplice libertà di licenziamento senza alcuna motivazione.
D’altro canto il nostro Paese è quello a più alto tasso di lavoro sommerso e di rigidità del lavoro regolare. Questo è semplicemente inaccettabile. La vera precarietà è quella dei milioni di persone che vivono ai limiti della legalità del lavoro e non quella che si potrebbe paventare nel rendere meno rigidi dei rapporti contrattuali che nella realtà sono talvolta quasi a vita. Così come flessibilità non deve significare incertezza a vita ma semplicemente incentivare la possibilità di momenti di cambiamento.
Le forme di flessibilità che si vogliono introdurre con la legge Biagi, in realtà, sono ad un tempo causa ed effetto di una nuova cultura che si sta rapidamente diffondendo non solo nelle nostre organizzazioni ma più in generale nella percezione sociale relativa al rapporto tra individuo, organizzazione e Stato. Nell’ambito dei grandi Paesi industrializzati è ormai opinione diffusa l’ineluttabilità di un ulteriore passo indietro da parte dello Stato, della necessità che il mercato del lavoro si adegui e che le strutture aziendali divengano meno rigide e più permeabili ai cambiamenti richiesti dal mercato. Il punto, allora, è quello di capire le opportunità ma anche i costi umani di questa nuova ventata di flessibilità e di porre alcuni “paletti” affinché tali costi vengano minimizzati.
Sul piano oggettivo occorre predisporre una serie di vincoli affinché flessibilità non voglia dire assenza di regole e di vincoli della parte più forte del rapporto di lavoro. Sul piano soggettivo, invece, la flessibilità si deve tradurre in un processo di individualizzazione che costringa le persone a fare di se stesse il centro della propria vita, delle proprie speranze e della concreta possibilità di realizzarle. Questo da un lato induce ad un atteggiamento psicologico che già di per se stesso amplia enormemente le possibilità di concretizzare i propri progetti, ma richiede al contempo uno sforzo cui non tutti sono disposti ad assoggettarsi. Tutto ciò, naturalmente, senza dimenticarsi delle concrete condizioni reali di contorno senza le quali qualsiasi atteggiamento positivo rischia di naufragare. Il fatto, comunque, che le persone sentano su di sé tutta la responsabilità della definizione dei propri percorsi e dei rischi che ne derivano può provocare effetti tra loro distonici.
La mancanza di garanzia di continuità lavorativa nel tempo tende a rendere difficile parecchie cose:
- l’instabilità degli introiti.
- minor visibilità nella pianificazione familiare ed economica;
- l’investimento su sé stesso nella costruzione di una professionalità definita;
- per i giovani la dipendenza dalla propria famiglia d’origine tende a proseguire indefinitamente, sia per motivi economici, sia per la sensazione di essere altrimenti “senza alcuna rete”;
- l’integrazione con l’organizzazione da cui si dipende può essere vissuta come transeunte e quindi poco significativa ;
- il senso d’insicurezza causato dai meccanismi di mercato e dalla totale mancanza d’ammortizzatori sociali, economici e previdenziali, induce molto spesso a comportamenti di “nevrosi da accumulo”, finalizzati ad ottimizzare il risparmio assicurativo o comunque gli introiti previsti finché si può disporre di un reddito.
Il tempo è percepito non come proprio ma come appartenente a qualcun altro, che ne può disporre a proprio piacimento. Questo tende a minimizzare la libertà nella vita extra-lavorativa, essendo più difficile pianificare i propri impegni personali.
L’onere della precarietà spesse volte si sovrappone, anche con modalità apparentemente contraddittorie, ad una percezione della flessibilità come garanzia di libertà.
Gli elementi positivi legati ad una maggiore flessibilità dei rapporti di lavoro possono essere così sintetizzati:
- l’attività lavorativa può in parte essere gestita in modo più autonomo, nel rispetto dei propri tempi e dei propri ritmi;
- il rapporto tra vita personale e vita professionale può trovare equilibri e modalità più vicini alle necessità dei singoli;
- il lavoro può essere di più facile gestione soprattutto per le fasce deboli della popolazione, come le donne o i lavoratori studenti;
- in molti casi i contratti flessibili di lavoro sono una via privilegiata per entrare stabilmente in azienda, come dimostra quel 35% di interinali i cui contratti vengono trasformati in stabili a fine missione;
- il senso di libertà
- la maggior libertà rispetto i “regolari” riguarda anche la potenziale possibilità di accettare o meno gli incarichi proposti dalla committenza;
- la ricerca di “senso” delle esperienze lavorative è molto forte.
Concretamente, poi, le persone nelle organizzazioni sperimentano sempre una situazione di “doppio legame”: la mancata partecipazione stabile ad un gruppo può scatenare, da un lato, stati d’animo abbandonici con sensi d’inadeguatezza, ma d’altro lato lo stesso individuo può provare indistintamente il sentimento opposto, la sensazione di finire per essere oppresso da una presenza, l’organizzazione, che è contemporaneamente salvifica e frustrante.
Lo sventolio di questi elementi di ordine soggettivo da parte dell’uno o dell’altro degli schieramenti appaiono però strumentale al fine di sostenere tesi di natura differente. La verità è che ci stiamo avviando ad un mutamento profondo del modo di sentire collettivo del rapporto con il lavoro, dove una maggiore flessibilità nei rapporti contrattuali farà da cornice ad una maggiore centratura del soggetto su se stesso e sulle proprie potenzialità.
D’altro canto, l’Italia, in Europa, è il Paese che ha il più basso tasso d’occupazione regolare ed il più alto tasso di lavoro sommerso. La rigidità del nostro mercato del lavoro fa sì che le aziende italiane siano meno competitive delle loro concorrenti internazionali, che non si riesca ad essere attrattivi per gli investimenti internazionali e che non si riesca a colmare il divario storico tra nord e sud. Sicuramente una maggiore flessibilità da sola non risolverà magicamente nulla. L’esperienza internazionale ci dice però che può essere un contributo decisivo per una maggiore competitività del nostro sistema industriale. Flessibilità però non deve voler dire precarietà gratuita o de-responsabilizzazione delle imprese.

La flessibilità oltre la precarietà
In questo senso credo siano miopi tutte le posizioni che predicano l’immobilismo del nostro mercato del lavoro o, peggio, il rafforzamento delle sue tutele burocratiche. Analogamente, però, non riesco a credere fideisticamente nella capacità taumaturgica della sola flessibilità nel senso dello sviluppo dell’occupazione, della crescita del nostro prodotto interno lordo e del benessere di chi lavora nelle organizzazioni. I buoni auspici di per se stessi non costituiscono alcuna garanzia di buona riuscita. Altre riforme incalzano e dovranno dare una valida mano al raggiungimento degli obiettivi che questo nuovo ordinamento da solo non potrà raggiungere. La riforma fiscale dovrà essere in grado di rendere il nostro costo del lavoro meno oneroso e il riassetto dell’amministrazione pubblica dovrà consentire al nostro sistema Paese di contare su infrastrutture che finalmente possano aiutare lo sviluppo invece che frenarlo. E anche volendo rimanere più ancorati al tema della flessibilità non si può negare come i problemi vi siano e non possano essere sottovalutati.
Non far tramutare la flessibilità in precarietà vuol dire accompagnare l’introduzione delle nuove norme con un rinnovato impegno alla progressiva riduzione del sommerso. Occorre inoltre mettere in campo tutti i possibili incentivi allo sviluppo della mobilità interaziendale. Perdere il posto di lavoro può non essere solo un trauma ma anche una possibilità di crescita e di ridefinizione del proprio percorso professionale. Occorre però dare continuità e progressione a profili di carriera discontinui, attraverso forme generalizzate di certificazione della professionalità acquisita. Occorre sostenere tutti i progetti e le sperimentazioni che possano limitare le disparità di genere, zona geografica ed età di fronte alla precarizzazione dell’esperienza lavorativa. Avviare dei piani di politica industriale o per lo meno degli osservatori che consentano di sapere che tipo di formazione fornire sia ai giovani sia a tutte le persone che rischiano il posto di lavoro o anche, più semplicemente, l’obsolescenza professionale. La formazione deve essere mirata e quindi realmente utile. Non solo: deve diventare un’abitudine ricorrente, per le persone e per le aziende. Tutti gli attori del mercato del lavoro debbono avviare un ampio dibattito ed un’azione molto concreta per rendere più sostenibile la flessibilità. Questa non è l’eden. E’ una tendenza ineliminabile delle imprese, del mercato e dei lavoratori. Può sprigionare grandi forze ma determinare problemi altrettanto grandi. Si deve lentamente tendere verso un sistema che ponga tutti i soggetti sullo stesso piano. Occorre consentire anche ai lavoratori di scegliere la forma di flessibilità a loro più consona. Il rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro va così rivisto e rinegoziato. Occorre approntare un sistema di regole perchè la flessibilità non venga confusa con la precarietà. Occorre tracciare concretamente un sistema di flessibilità sostenibile. La nostra è una società basata sull’abbondanza che dovrà quindi consentire ad un numero sempre maggiore di persone, a qualunque età, di scegliere tra più lavori flessibili, affinché questi non vengano subiti ma costituiscano il segno non della penuria ma della crescita e della maturazione, umana e personale, prima ancora che professionale.

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