BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 09/01/2006

TROPPO VECCHI A QUARANT'ANNI?

di Paolo Iacci

Nei comuni medievali, l’anziano era l’appartenente alle magistrature formate dai cittadini considerati più saggi e che, infatti, avevano compiuto i cinquant’anni. Se dal Medio Evo saltiamo ai giorni nostri, il Consiglio europeo di Stoccolma, nel 2002, constatava che l’indice d’occupazione decresceva rapidamente negli uomini dai 50 anni e nelle donne dai 45 anni, ma che la tendenza era per una diminuzione della soglia. Negli atti del Consiglio più volte si rileva come tra breve, se non si corre ai ripari al più presto, la soglia diverrà di 40 anni per le donne e di 45 per gli uomini.

Inoltre, se dal dato occupazionale in senso stretto, passiamo ai dati riguardanti la formazione, scopriamo che già oggi la partecipazione ad interventi formativi per le persone tra i 45 ed i 50 anni scende di quasi il 20% rispetto i loro colleghi più giovani. Nelle imprese, in pratica, si tende a pensare di non investire più nell’aggiornamento professionale di chi ha compiuto gli “anta”, come se non ne valesse più la pena.

Il problema, però, si evidenzia già prima, ai quarant’anni. Per le categorie medie, la carriera continua fino ai 45 anni e per quelle alte anche fino ai 47 – 50 anni.

Per le categorie più basse, però, tutto si conclude entro i quaranta. Se per quell’età non sei arrivato a fare il capo macchina, il capo turno o il capo contabile, o il gerente di negozio o di magazzino, allora non lo diventerai mai più. Inizia, in altre parole, un periodo di limbo che precede quello della perdita di desiderabilità sul mercato del lavoro.

L'Unione Europea, nel consiglio di Stoccolma del marzo 2001, si era posta come obiettivo per il 2010 di portare al 50% il tasso di occupazione media dei 55-64enni. La situazione di quell'anno vedeva in testa la Svezia con un tasso d’occupazione del 72%, la Danimarca con il 62% e il Regno Unito con il 53%. La media dell'Europa dei 15 era del 48%. L'Italia con il 28% era tra i paesi in coda, seguita soltanto dal Lussemburgo con il 23% e dal Belgio con il 22%.

In Italia, il numero complessivo della forza lavoro over 50 è passato dai 4.455.652 del 2000 ai 5.119.552 del 2003, segnando un incremento positivo pari al +9,1%. Valore nettamente superiore rispetto quello medio registrato dalla forza lavoro complessiva del sistema (+2,4%). L’ultimo rapporto Censis spiega, in modo assai chiaro, questa nuova tendenza. «E’ noto come il fenomeno trovi una sua giustificazione in due distinti e paralleli processi che investono pesantemente il nostro sistema socioeconomico e, per converso, il mercato del lavoro: la denatalità diffusa ed il progressivo invecchiamento della popolazione.

La crescita del volume degli occupati over 50 trova un’ulteriore giustificazione nelle nuove regole previdenziali.…»

Assistiamo quindi ad una parziale ripresa dell’occupazione degli over 50 che è però ben lungi dal compensare ciò che abbiamo perso negli ultimi 30 anni e la distanza, pesantissima, che ci divide dagli altri Paesi europei. Quello che, inoltre, le statistiche non riescono a dirci è la qualità della vita di lavoro dentro le organizzazioni per gli over 45, il rapporto tra età e occasioni di crescita professionale e retributiva per i non più giovani, il loro atteggiamento e le modalità con cui sono gestiti.

Infatti, più cresce la popolazione “matura”, più le si richiede di rimanere in attività, meno ci si preoccupa di come potrà rimanerci, perché viene precocemente emarginata dal mondo del lavoro.

Nell’economia fondata sul sapere si disperde il valore conoscitivo accumulato dai lavoratori maturi, cui si chiede di pensionarsi più tardi senza saperne utilizzare il potenziale contributo produttivo.

A poco a poco, con l’innalzamento della vita media, tutti i tempi si sono dilatati.

Oggi un laureato trova il suo primo contratto a tempo indeterminato a ventisette anni. Il periodo utile per la carriera, inoltre, si è notevolmente ridotto, restringendosi tra i trenta ed i quarantacinque anni: forse troppo pochi per imparare tutto quello che serve nelle nostre organizzazioni. Così le aziende rischiano troppo e probabilmente non utilizzano tutte le potenzialità di crescita del personale a loro disposizione.

Più cresce la complessità delle nostre organizzazioni, più si accorcia il tempo per imparare a dirigerle.

Più cresce la popolazione in età matura, più le prassi organizzative sembrano non rendersene conto, creando, talvolta con la convivenza degli interessati, una sorta di limbo gestionale in cui si abbassa il livello di performance richiesta in cambio di una bassa conflittualità.

Alla grave emergenza della disoccupazione giovanile – il 27,7% dei giovani tra i 15 ed i 24 anni – nel silenzio collettivo si è ormai aggiunta la precoce espulsione dal mercato del lavoro degli over 45.

Quanto più nelle organizzazioni c’è necessità di esperienza, tanto meno essa viene valorizzata perché si espelle anzitempo chi l’haaccumulata.

D’altro lato, però, non dobbiamo sottovalutare le due barriere che in molti casi rendono difficile un pieno utilizzo della risorsa matura: l’innovazione tecnologica e l’apprendimento delle lingue straniere. Senza queste due competenze trasversali è oggi difficile lo sviluppo professionale o la ricollocazione qualificata nei casi di mobilità interaziendale. Occorre che si superino blocchi culturali antichi, sia sul versante delle aziende che investono poco in formazione sulle loro risorse meno giovani, sia su quello dei singoli che tendono ad autoconvincersi di aver oltrepassato l’età dell’apprendimento. Ciò è falso ed inutilmente limitante.

Più le realtà organizzative diventano complesse, meno si valorizzano le potenzialità delle persone di mezza età che operano in esse, ritenendole non più adeguate quantitativamente e qualitativamente. Esse vengono precocemente espulse dalle organizzazioni produttive e si sviluppano su di loro stereotipi di percezione sociale che tendono a discriminarle e a svalutarle.

Si tratta di un insieme di pregiudizi e tabù interiorizzati anche dai meno giovani, che si esprime in credenze prive di fondamento scientifico, come quella, comunissima, del decrescere delle prestazioni intellettuali nel periodo 45 – 65 anni. Si pensa che a quest’età l’apprendimento sia più lento e la capacità lavorativa minore. Niente di più falso.

In questi anni l’ambientalismo ci ha insegnato a riciclare i rifiuti, risparmiare energia, proteggere la qualità dell’acqua e dell’aria ma non abbiamo ancora imparato a non sperperare la risorsa più importante che abbiamo, i nostri anni di vita. Occorre ritrovare un nuovo «senso» nello stare nelle organizzazioni, rinnovate motivazioni per persone ricche d’esperienza e competenze, per il loro ed altrui benessere.


Sintesi dal volume di : Paolo Iacci, Gianni Rebora, Giorgio Soro, Romano Trabucchi, Troppo vecchi a quarant’anni?, Edizioni Il Sole 24 Ore, 2005, € 19,00.

Pagina precedente

Indice dei contributi