BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 07/09/2000

Pro e contro della New Economy

Di Alessandro Lajolo

Recensione di: William Wolman – Anne Colamosca, Il tradimento dell’economia, Edizioni Ponte Alle Grazie, Firenze

Il "tradimento dell’Economia, un libro del 1997, quindi non recentissimo, ma per certi aspetti un po’ anticipatore di alcuni temi, che oggi sono dibattuti, sulla "nuova economia".

Può essere considerato come l’espressione dell’"altro" punto di vista, sicuramente meno ottimistico della "cultura economica" attualmente dominante.

Un’analisi giornalistica lucida, e non un trattato, sulle regole che governano e caratterizzano la "New Economy".

Nella nuova economia globale che ha seguito la fine della guerra fredda <<sono i soldi a "comandare", e a farne le spese è chi per vivere ha bisogno di lavorare. Non importa se questo è un lavoro manuale o intellettuale>>.

Questa che sembrerebbe essere una tesi di scuola marxista è invece una considerazione da cui fanno partire la loro analisi, i due economisti ed autori del libro, William Wolman (chief economist della rivista american Business Week) ed Anne Colamosca (dapprima giornalista di Business Week ed ora collaboratrice free lance di diverse testate americane).

Potrebbe sembrare paradossale che proprio la cultura americana promotrice e leader carismatica dell’economia capitalistica di mercato sia anche portatrice di una critica "accesa", peraltro sempre più diffusa, alle basi stesse, etiche, concettuali e pratiche, di tale sistema economico.

I due giornalisti americani, sostenitori, come loro stessi affermano, del libero mercato, sono convinti che il prevalere dell’ideologia liberista, all’indomani della "caduta" del muro di Berlino, ha profondamente alterato l’equilibrio fra Stato e mercato che aveva consentito, dalla fine della Seconda guerra mondiale fino alla fine degli anni ottanta, un benessere senza precedenti.

L’affermazione forte, <<il Capitale trionfa a spese dell’occupazione>> è comunque una preoccupazione condivisa da molti altri Autori e studiosi di economia.

La forbice, secondo i due giornalisti, sarebbe destinata ad allargarsi nonostante la crescita della competitività dell’economia americana.

L’analisi mette in evidenza di come gli americani che si guadagnano da vivere con il proprio lavoro sarebbero impegnati in una corsa senza traguardo per produrre un miracolo economico di cui non beneficiano; tenore di vita stagnante, nessuna tranquillità

Questa constatazione sarebbe vera non solo per i lavoratori comuni, ma anche per i "colletti bianchi" dei paesi occidentali che fino ad ora sono stati i principali beneficiari della rivoluzione della conoscenza, e che molti intellettuali consideravano "salvaguardati" da questa competizione; tuttavia, secondo i due autori, l’erosione di questa posizione dominante delle élite occidentali costituirà un evento storico senza precedenti. Il ceto medio americano non sarà più il depositario di conoscenze, di capacità scientifiche ed organizzative esclusive.

Il Capitale oggi <<non è più vincolato quindi all’idea che la "manodopera" occidentale, anche quella altamente istruita, debba necessariamente essere un partner della New Economy; in quanto assolutamente sostituibile, ad eccezione di quella più innovativa, esperta nell’analizzare parole e numeri, a suo agio in una comunità globale tenuta insieme dai computer, più aggressiva e più creativa>>.

Nelle società fondate sulla conoscenza, come la nostra, inoltre la definizione del termine qualificato è destinata a cambiare molto rapidamente.

Nel nuovo mondo del libero mercato, i capitali si spostano dovunque si intravedano le migliori opportunità e si lasciano alle spalle chi vive del proprio lavoro. Proprio nel momento in cui sono esplose le nuove tecnologie e crollano i prezzi del trasferimento delle informazioni, chi possiede capitali gode di possibilità senza uguali.

Wolman e Colamosca fanno notare <<che per quasi tutta la storia del capitalismo, al movimento delle persone si è accompagnato il movimento dei capitali, infatti, al flusso migratorio verso gli stati Uniti si è accompagnato il flusso dei capitali europei, mentre a partire dalla fine della guerra fredda il Capitale Occidentale non ha più bisogno, nella sua fuga verso i paesi in via di sviluppo, di portarsi dietro i "bianchi" istruiti. Mentre la mobilità della manodopera è diminuita quella del capitale ha compiuto un salto di quantità>>.

I progressi delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni che consentono di appaltare all’esterno quasi ogni genere di lavoro, combinati con la nuova forza lavoro mondiale permettono così di creare un mercato del lavoro veramente globale, caratterizzato da una forte competizione e da cui non sarebbe escluso nessuno.

Nonostante sia molto diffusa la tesi secondo la quale è l’evoluzione tecnologica in corso a spiegare la stagnazione dei salari negli Stati Uniti, in realtà gli autori ritengono che la causa di tutto ciò non siano tanto le innovazioni tecnologiche quanto il "trionfo del Capitale" e la disponibilità di manodopera nei paesi emergenti.

Gli anni Novanta si sono così distinti per il decollo della globalizzazione, osservano i due giornalisti <<dove nessun paese è in grado di rimanere in testa molto a lungo senza uno sforzo continuo ed estenuante da parte delle imprese di tagliare i costi, riorganizzare la forza lavoro e licenziare>>.

È evidente, anzi dichiarato, il loro atteggiamento critico verso i molti tentativi di reengineering che negli Stati Uniti avrebbero dato dubbi risultati.

Alcune ricerche, condotte da primarie Società di consulting, nel 1991 e nel 1992 (Ernst and Young, McKinsey e Arthur D. Little) e dall’American Quality Foundation, citano gli autori, avrebbero evidenziato i limiti dei programmi di reengineering. In particolare da due studi, effettuati nel 1992, sembra emergere che poco meno di un terzo dei programmi avrebbe avuto conseguenze significative per il successo delle imprese.

Valutando costi-benefici, per Wolman e Colamosca, <<il reengineering avrebbe aperto la via ad un enorme aumento dei profitti delle imprese americane, fornendo una giustificazione logica per il contenimento dei costi salariali, tuttavia non avrebbe dato luogo ad un aumento complessivo della loro efficienza>>.

Il libro descrive come negli Stati Uniti la conseguenza sociale più evidente e pericolosa di queste "trasformazioni" è che la gran massa della popolazione, per quanto lavori sodo, ha sempre più difficoltà a reggere il peso emotivo e finanziario dell’esistenza.

Famiglie e comunità così si disgregano ed i genitori non hanno mai abbastanza soldi per tenere a galla la famiglia perché i limiti posti dall’aumento dei salari, da chi controlla il capitale, sono troppo stringenti.

Tutto è perduto?

Gli autori ritengono che ci sia una via di salvezza e cercano di tracciarne il percorso. Il capitalismo, secondo loro, può rigenerarsi, ristabilendo un equilibrio migliore fra gli interessi del lavoro e quello del capitale. Ma gli ostacoli sono grandi.

Secondo loro, la stessa miopia che indusse i capitalisti a battersi con le unghie contro i New Deal, anche dopo il grande crollo della borsa e la "Depressione" che vi fece seguito, esiste ancora.

Quando la crescita economica non è vigorosa, anche i lavoratori più qualificati hanno difficoltà a trovare impieghi ben retribuiti.

Purtroppo, sostengono i due giornalisti, la tesi accettata da diversi economisti e dai Governatori delle Banche Centrali è che i paesi industrializzati non possano perseguire politiche di rapida crescita economica senza rischiare di innescare l’inflazione, perché il tasso di aumento della produttività in questi paesi è rallentato. Questa tesi ha paralizzato la politica economica dei paesi avanzati e quindi con l’abbandono della crescita sono comparsi buchi giganteschi nella rete di sicurezza sociale.

Oggi comunque, si legge nel libro, si scorgono indizi, sempre più frequenti, del fatto che i meriti di un capitalismo globale senza controlli cominciano a venire messi in discussione anche nelle sedi più inattese. L’esigenza di porre dei vincoli al capitale globale ha costituito uno dei temi centrali della Conferenza Economica Mondiale di Davos del 1997. Nel riferire sui lavori del convegno, uno dei più noti commentatori del New York Times, Thomas Friedman ritiene di intravedere <<la possibilità che si concretizzi una reazione di tipo morale contro la globalizzazione dove l’unica cosa che conta è la Finanza>>.

Tra l’altro in una intervista condotta dal quotidiano Le Monde, e pubblicata su La Stampa nel gennaio 2000, Peter Drucker affermava:<< quindici anni fa negli Stati Uniti le imprese hanno vissuto una rivoluzione: dare importanza agli azionisti è diventato il primo criterio di valutazione delle imprese. Era necessario. A breve termine tutto ciò si è rivelato molto positivo per l’economia americana. Tuttavia l’azienda non deve creare valore solo per gli azionisti, ma anche per i suoi dipendenti e per i clienti. Bisogna trovare un equilibrio tra breve e lungo periodo. Non è molto complicato da ottenere, ma è abbastanza difficile da spiegare alla comunità finanziaria. Si può accettare che gli analisti finanziari credano che le imprese facciano unicamente soldi e non ad esempio, scarpe piuttosto che automobili>>.

Al di là delle considerazioni espresse e delle possibili soluzioni proposte da Wolman e Colamosca, che per alcuni potrebbero anche essere non del tutto condivisibili, il valore aggiunto del libro è sicuramente quello di allargare il punto di vista su una trasformazione economica i cui effetti si proiettano sulle relazioni economiche internazionali, sugli assetti interni delle società avanzate e non, e infine sui valori stessi che rendono accettabile la vita e che permettono alla libertà umana di correggere le storture prodotte dagli andamenti "naturali" dell'economia.

Potrebbe sembrare tuttavia paradossale che la società attuale, pervasa da inquietudine e incertezza per le trasformazioni in atto, sia al tempo stesso immersa in un alone di "eccitazione" e di fiducia incondizionata verso un "nuovo" must : la "new economy".

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