La consapevolezza
di sé e la capacità di performance.
Sfruttare o sviluppare le risorse umane?
di Guido Ligabò
Diceva un saggio che
bisogna conoscere profondamente noi stessi per poter vivere degnamente da essere
umani , rispondeva un altro saggio che finché stiamo meditando profondamente
su noi stessi gli altri conquistano i mercati migliori, ci seducono la donna,
fanno carriera e occupano i posti migliori a teatro e al cinema.
Chi dei due era più saggio? Naturalmente nessuno dei due, vi risponderebbero
alla to gnothi sautòn. L'essere umano è più complicato
della saggezza, di qualsiasi saggezza, egli è straordinariamente capace
di essere soggetto, abile nel migliorarsi indefinitamente e nell'autoprogrammarsi
liberamente ma non può e non deve sottrarsi al vivere in continua interazione
con un mondo esterno che ha le sue leggi, i suoi ritmi ma soprattutto i suoi
tempi oggettivi e se l'essere umano si ferma troppo per "migliorarsi"
alla fine perde l'aereo e non arriva mai da nessuna parte.
Sviluppo del soggetto e performance:
nessuno di questi due poli può essere negato.
Nulla ha successo come il successo si dice (e un successo sicuramente e brillantemente
oggettivo, ovviamente), ma non possiamo non chiederci, se non siamo miopi, ma
molto miopi: il successo di che tipo di persona?
Che tipo di essere umano (e quindi di reali possibilità a lunga scadenza)
stiamo realmente programmando?
Le persone che hanno successo determinano poi il futuro e che futuro possono
avere una azienda, una organizzazione, uno stato determinati da persone non
consapevoli di sé?
E quindi: può durare a lungo un successo che non ha vere radici nella
soggettività dell'essere umano?
"I tuoi soldati vinceranno solo se avranno più paura di te che del
nemico" pare pensassero Attila e Goetz
"I tuoi soldati vinceranno solo se saranno convinti più di te dei
motivi della guerra" pare pensassero Cesare e Carlo Magno.
Nessuno può dubitare dei successi di Attila, che lasciò però
dietro di sé rovine e un popolo che sparì dalla storia.
A lunga scadenza potrebbero sembrarci meglio Cesare e Carlo Magno anche se l'opera
di Attila non fu certo priva di una sua efficacia non trascurabile.
Restando alla storia d'oggi, momento quasi magico di precario equilibrio tra
la saggezza e la follia, ci pare sia obbligatorio chiederci: è meglio
puntare ad una economia di sfruttamento delle risorse umane o ad una economia
di sviluppo delle risorse umane? (dato per scontato che per l'attività
di qualsiasi struttura operativa aziendale pubblica o privata valga la pena
di investire veramente in risorse umane)
Anche gli schiavisti intelligenti sapevano che investire in schiavi voleva dire
in qualche modo migliorarli, se no erano un pessimo investimento.
Certo per il dirigente che si trova in una difficile situazione di gestione
aziendale, per l'uomo politico con un drammatico e urgente problema e per il
militare che deve vincere in circostanze avverse e poco controllabili il pragmatismo
assoluto può sembrare perfetto e qualche volta può anche esserlo.
Per salvare uno che sta velocemente annegando ci vuole decisione immediata,
abilità e coraggio: non c'è tempo di fare corsi di nuoto e tantomeno
corsi di acquaticità, da ciò si trae purtroppo spesso l'idea che
tutto debba essere sempre così.
Perché perdere tempo a sviluppare
le risorse umane quando è così facile sfruttare quelle che ci
sono già?
Cerchiamo di vedere le due cose in una prospettiva tattica e in una strategica.
Nel breve termine è chiaro che poche strutture possono permettersi(o
credono di potersi permettere) di investire abbastanza in un vero programma
di sviluppo delle risorse umane.
A molti responsabili pare che la pressante necessità di tenere bassi
i costi, la notevole difficoltà a formare realmente i dipendenti su basi
soggettive culturali e personali efficaci, la scarsa affidabilità della
libertà dei singoli come fonte di ricchezza rendano utopiche e perdenti
tutte le forme di sviluppo serio e metodico delle risorse umane.
A questo si aggiunga che non pochi responsabili hanno un rifiuto violento e
viscerale (a volte inconscio, a volte conscio, a volte per motivi chiarissimi
ma inconfessabili) a rinunziare al potere assoluto, al gusto del mobbing, al
mantenere quindi volutamente in stato di inferiorità e di confusione
i loro dipendenti.
Persino alcuni corsi di formazione per dirigenti (anche molto di moda) insegnano
esplicitamente a cercare di capire (?)i dipendenti nel senso di cogliere i loro
aspetti comportamentali e, in realtà, le loro debolezze per sfruttarle
meglio e renderle strumenti più efficaci di rapidi successi.
Non si può negare che questi metodi abbiano una loro efficacia (come
quelli di Attila): le cose che vengono insegnate sia per lo sviluppo personale
che per il controllo degli altri sono vere, nel senso che fanno proprio parte
dell'essere umano.
E' vero che siamo esseri limitati, in cui si possono facilmente cogliere , per
esempio, dal gestire o dai movimenti degli occhi cose che vorremmo tenere nascoste
(magari anche a noi stessi) e che possiamo anche essere facilmente condizionabili
ad agire funzionalmente senza troppe storie e in qualche modo "automaticamente"
.
Qualcosa di simile alle suggestioni della "mente bicamerale" di Julian
Jaynes (1), forse, che in questo caso sospenderebbero,
non sostituirebbero la coscienza (almeno si spera) o più semplicemente
qualcosa di simile ad un semplice addestramento.
Se questi metodi funzionano perché non fermarci qui e basta?
Essenzialmente perché gli esseri umani reali sono anche ma non solo quello
che abbiamo appena detto e quello che viene sostenuto dai difensori della scorciatoie
psicologiche.
E' certamente possibile con un adeguato addestramento guidare un auto o usare
un computer o far volare un aereo senza avere la minima idea di come siano fatti
e di perché funzionino , così è possibile usare un essere
umano (anche sé stessi) senza avere la minima idea di cosa e di chi sia;
nel breve termine questo uso funziona, entro certi limiti, se l'addestramento
è buono.
A lunga scadenza però si crea un vuoto di comprensione e di sapere che
non può che dimostrarsi negativo per i fini stessi per cui era stato
creato.
Possiamo fidarci di una cultura del lavoro senza fondamenta nella profondità
della natura umana, di una cultura che sta in piedi solo sulla capacità
di piegare gli altri o di piegare sé stessi a determinati fini immediati?
Le piante senza radici muoiono.
Pensiamo ad una azione di due commandos : uno in cui ciascun uomo è preparato
perfettamente e condizionato solo a un compito specifico che deve "ingranarsi"
perfettamente con tutti gli altri: se appena qualcosa va storto tutto fallisce;
l'altro invece è formato da uomini tutti consapevoli e convinti dell'azione
in tutti i suoi aspetti : di fronte all'imprevisto anche uno solo potrà
portare a termine il compito, se ce n'è la minima possibilità.
Naturalmente la realtà non è mai così semplice ma questo
esempio è una traccia da seguire per valutare le scelte strategiche sulla
consulenza aziendale riguardante le risorse umane, e anche la metodologia della
selezione del personale, spesso troppo tecnicistica.
L'adattabilità consapevole e il rispetto costruttivo
Il mondo in cui viviamo è in continuo mutamento ed è difficile
perfino per le istituzioni di grande prestigio e con ottimi sistemi di valutazione
fare previsioni attendibili anche su periodi piuttosto brevi: i fattori che
influenzano lo sviluppo (o il non sviluppo) della economia sono sempre più
vari e, ci pare di poter dire, meno tecnici e più umani.
Non occorreva attendere l'11 settembre e il suo violento impatto emotivo per
accorgersene ma da quella data è divenuto impossibile non prendere in
considerazione ad ogni livello il dirompente potere e l'imprevedibilità
della mente umana (guidata dalle storie che noi uomini sappiamo abilmente raccontare
e raccontarci).
In questo mondo così strano in cui spesso gli esperti sembrano ora così
poco esperti sembra più necessario di prima dare un nuovo valore alla
capacità umana di autodeterminarsi, di adattarsi, di divenire consapevolmente.
Serve meno saper dirigere dominando e condizionando (e avere dipendenti dominabili
e condizionabili) e serve di più avere, in ogni posizione, essere umani
autonomi e consapevoli, capaci di essere flessibili, capaci di responsabile
autonomia, capaci di affrontare con elasticità e coraggio i rischi del
nuovo, persone così libere da poter obbedire, senza sentirsi sminuite,
per rispetto della oggettiva necessità della gerarchia e non per paura
o per interesse o per incapacità di decidere loro stessi.
Tutto questo è possibile solo a persone coscienti, profondamente radicate
in una storia soggettiva vera e credibile e contemporaneamente radicate pienamente
nella propria energia vitale.
La possibilità di formare persone con queste qualità è
la sfida che un gruppo di operatori ha posto a sé stessi e ai propri
clienti.
Creare nelle strutture operative, con un investimento a lunga scadenza per tutti,
una atmosfera di adattabilità consapevole e di rispetto costruttivo.
La conoscenza di sé: la storia
e la biologia.
Le basi teoriche della to gnothi sautòn sono complesse, l'impatto operativo
è semplice.
La visione dell'essere umano è ottimista in profondità e pessimista
in superficie: tutti abbiamo un sacco di problemi ma tutti abbiamo la capacità
reale di migliorare e soprattutto in tutti ci sono una energia e una intelligenza
vissute in modo estremamente riduttivo rispetto alle possibilità, quindi
ampiamente sviluppabili.
Il punto cardine dell'attività sautòn è però lo
sforzo di condurre tutti alla acquisizione consapevole del fatto che siamo un
impasto di storia (personale e collettiva) e di biologia: il saper vivere e
muoversi coscientemente in questi due campi dà un senso nuovo alla vita
ed apre possibilità di sviluppo personale e funzionale originali e veramente
creative.
Saper narratizzare.
La prima cosa che è necessario capire è in cosa consista l'essere
coscienti (conscious, secondo Jaynes) nel senso moderno che è ben diverso
dall'essere senzienti o capaci di giudizio critico o di attività intellettuale,
artistica o motoria, anche di livello elevato.
Essere coscienti significa prima di tutto essere capaci di narratizzare (to
narratize), essere capaci cioè di raccontare sé stessi come soggetti
di una storia distribuita con ordine nel tempo.
Questo tempo, che noi non possiamo che rappresentarci in modo spaziale, con
un prima e un dopo che abbiamo imparato a conoscere e ad usare per analogia
dallo spazio fisico in cui viviamo e per imitazione dal linguaggio che ci hanno
insegnato.
Il modo in cui, di solito incosapevolmente, ci raccontiamo la nostra storia,
scegliendo alcuni fatti ed altri no, scegliendo un certo ordine o una certa
serie di cause come efficienti di ciò che siamo determina la nostra interpretazione
della vita e di noi stessi: è un modo per dirci chi siamo e dove andiamo
secondo noi, chi è il nostro io.
Nel momento stesso quindi in cui ci raccontiamo quella storia, spontaneamente
ne programmiamo e/o prevediamo in qualche modo il seguito e diveniamo così
consapevoli di potere (can) o volere (will) o dovere (must) proseguirla in un
certo modo.
Estrapoliamo cioè la nostra esperienza nel futuro, sulla base però
della nostra storia, così come ce la siamo raccontata e cela raccontiamo
(la fantasia come meccanismo di programmazione e/o di previsione del futuro).
Una capacità tipica di un capo di successo è quella di spingere
gli altri esseri umani ad accettare come proseguimento logico e necessario della
loro storia personale ciò che è deciso dal leader, ad entrare
cioè nella fantasia programmatrice del leader e ad accettarla come propria.
Ciò può avvenire in due modi: o suggestionando gli altri e seducendoli
o comprendendone profondamente la narratizzazione ed armonizzandosi con essa,
aiutandoli ad essere più vicini alla realtà soggettiva ed oggettiva,
cioè ad essere più profondamente sé stessi.
Il vero leader costruttivo, partendo dalla comprensione delle loro singole narratizzazioni,
crea "storie" condivisibili per tutti i collaboratori, storie quindi
pienamente vere sia umanamente che tecnicamente.
E' ovvio che nessuna narratizzazione può essere mai compresa completamente
o perfetta ma se un operatore è capace di mantenere almeno una certa
armonia tra la realtà e quello che racconta di sé e degli altri,
la sua capacità di programmarsi e di programmare a lunga scadenza sarà
efficace, se no disastrosamente inesistente.
La consapevolezza della narratizzazione.
Tutto ciò può avvenire più o meno consapevolmente.
Tutti noi narratizziamo ma ben pochi sono in grado di narratizzare sapendo perché
e come lo fanno.
Gli interventi sia individuali che di gruppo della to gnothi sautòn mirano
prima di tutto a rendere queste preziose attività mentali critiche e
consapevoli; a far comprendere un po' alla volta a ciascuno perché vede
se stesso in un certo modo, perché crede di essere una certa persona,
di incarnare un certo io e quindi di dover e/o poter fare o non fare certe cose.
Quando facciamo questo delicato lavoro tutti ci rendiamo conto di quanto sia
importante per noi e per gli altri e contemporaneamente di quanto sia difficile
farlo bene.
Moltissimi fattori interferiscono (e hanno interferito) in diversi modi nella
nostra narratizzazione e nella creazione quindi di quel nostro spazio fantastico
in cui ci conosciamo, ci giudichiamo, ci amiamo, ci odiamo, ci programmiamo
et cet.
Questi aspetti relativamente superficiali del nostro essere possono essere colti,
guidati, sfruttati da un abile osservatore anche dal di fuori ma questo implica
la negazione della consapevolezza e della soggettività, come dicevamo
all'inizio, e quindi la fondazione di un sistema non formativo di nuove preziose
risorse umane ma di pura "rapina".
Questo sistema senz'altro funziona ed è accettabile a breve scadenza
ma a noi non pare sia un buon investimento per il futuro, come non lo è
ogni economia di rapina.
Saper storicizzare.
Un altro aspetto meno profondo ma importante del nostro lavoro formativo è
l'insegnare ad acquisire una capacità raffinata di inserire la propria
storia personale in storie più vaste.
Anche in questo caso si possono costruire storie artefatte ad usum delfini,
fatte cioè non per istruire e formare ma per convincere e deformare,
per far credere agli esseri umani di essere diversi da quello che sono, fare
cioè propaganda.
Noi invece preferiamo preparare ad una critica storica metodica (nessuno ha
la pretesa di insegnare una storia vera ma di insegnare un metodo di critica
corretto).
E' molto bello avere una visione ampia di quello che si sta facendo, sapere
come una certa politica aziendale si inserisce in un certo contesto tecnologico,
economico, sociale, culturale: sapere perché sta avvenendo quello che
avviene e che senso ha il nostro contributo e magari il nostro sacrificio.
La soggettività come valore.
Se vediamo l'essere umano come puro valore oggettivo (diceva Stalin che l'individuo
è solo il quoziente della massa di un milione diviso un milione e che
l'io è una pura finzione grammaticale) possiamo facilmente immaginare
di sottometterlo, schiavizzarlo, deturparlo, eliminarlo fisicamente anche, se
serve.
Questo è esattamente l'opposto di quello che nasce dal lavoro della to
gnothi sautòn:
Per noi ogni essere umano ha un valore prezioso come soggetto, fondato nella
sua biologia e nella sua vita soggetttiva, (consapevolmente narratizzata e storicizzata),
e l'io è una profonda e preziosa realtà a cui concorrono la nostra
capacità di raccontarci una storia vera e la nostra capacità di
essere radicati nella nostra realtà biologica.
La soggettività biologica.
"Il nostro respiro è il ritmo della nostra vita" , ma non solo
naturalmente il respiro: l'essere vivi, il semplice fatto di essere vivi è
una appassionante avventura.
Il considerarci, noi esseri viventi, semplicemente delle macchine è falso
e distorce profondamente la nostra capacità di esistere e di agire.
Nei nostri corsi si insegna profondamente a "starsi a sentire", ad
imparare cioè ad ascoltare con rispetto e amore il pulsare della vita
in noi, a rilassarsi profondamente non per "essere più efficienti"
ma per essere più noi stessi e quindi più creativi, più
energici, più capaci di finalizzare consapevolmente tutte le nostre forze.
C'è una differenza enorme tra l'essere efficienti per ansia, per senso
di inferiorità, per angoscia e l'essere efficienti perché questo
è il modo naturale di esprimere la nostra vitalità biologica,
così come vissuta nella nostra consapevole narratizzazione.
Al centro di tutto sta l'io e la sua capacità di identificarsi sia con
il corpo vivo che con la sua storia criticamente narratizzata e inserita nella
storia più ampia degli altri esseri umani.
Il potenziamento del respiro, lo sviluppo di capacità motorie, la liberazione
delle potenzialità spontanee del nostro essere sono solo gradini, e piacevoli
gradini, verso una vita più intensa, più piena e più utile.
Un po' di sano pessimismo.
Naturalmente non vogliamo e non ci sogniamo di dare al nostro lavoro alcun valore
di assolutezza, di infallibilità, di definitività. Proprio perché
ben consapevoli di noi stessi sappiamo quanto difficile sia la narratizzazione,
la storicizzazione, la percezione soggettiva della nostra vita biologica e quindi
il raggiungimento di un adeguato, efficiente ed operativo equilibrio dell'io
ma siamo d'altra parte convinti che il trascurare questi aspetti sia nella scelta
che nella formazione degli esseri umani (le risorse umane!) sia imperdonabilmente
peggio e simile al voler far andare un auto spingendola a mano (o costringendo
altri a spingerla) invece di avviare il motore.
Note:
1 Julian Jaynes, The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind, Houghton Mifflin Company, 1976, trad. it. Adelphi.