BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 07/07/2003

LA COMUNITA' PER LA GESTIONE DEL NUOVO

di Ugo Lombardini

Se è diverso da me, è sbagliato

E’ la prima reazione a qualcosa di nuovo:un’idea, un comportamento, un progetto, qualsiasi cosa che non abbia caratteristiche immediatamente riconoscibili viene rigettato.

Se ci si deve “occupare” del diverso, per esempio perché l’Azienda lo richiede, allora si cerca di omologarlo: di ricondurlo cioè a ciò che si conosce, magari introducendo semplificazioni e adattamenti.

E così facendo si snatura, molto spesso, il diverso. Ma che importa: è stato ricondotto (o ridotto ?) al conosciuto, cioè non è più un diverso. E’ vero, in questo processo ha perso tutto ciò che lo caratterizzava, tutto ciò che lo rendeva, appunto, diverso, ma....tanto era sbagliato ! Adesso, quello che rimane è la parte “giusta”, quella che coincide perfettamente con i nostri schemi mentali e procedurali.

Non viene nemmeno in mente che, forse, la sua parte “diversa” potesse essere il suo contributo al nostro accrescimento.

Tanto meno viene da pensare che la nostra crescita sarebbe dovuta essere, in realtà, un co-crescita, nostra e del diverso, con accrescimento reciproco.

Per esempio....

Proviamo a immaginarci in un’Azienda, alle prese con la gestione di progetti complessi.

Sono progetti che conosciamo a fondo per l’esperienza sviluppata nel corso di anni: sappiamo cosa fare e quando farlo. Abbiamo, è vero, dei margini di incertezza ma l’abbiamo accettata e, al momento buono, sapremo come gestirla.

Ma un giorno arriva un progetto nuovo.

Uno di quelli che non si sa da che parte prendere. Non abbiamo una visione chiara del processo.

E’ uno di quei progetti da scoprire strada facendo. Non si può immaginarne l’evoluzione. E quel che è peggio, non ci si rende conto delle possibili (o meglio, probabili) criticità.

Paradossalmente, è proprio l’esperienza ad alimentare questa sensazione sgradevole di “mancanza della terra sotto i piedi”: ne abbiamo sempre fatto uso e ora ci ha abbandonato.

Il sistema individuo incomincia a funzionare....

E’ in questi momenti che l’individuo incomincia a dare il meglio di sé.

Finora si è trovato in una sorta di stato di equilibrio: incarichi difficili ma conoscenze ed esperienza su cui contare.

Ora questo stato “tranquillo” ha ricevuto uno scossone: bisogna fare qualcosa per venirne fuori....e bene. E’ una sensazione paragonabile all’istinto di sopravvivenza: devo fare qualcosa per risolvere la situazione, per vincere.

E allora si scatena la creatività.

La sfida del cambiamento è iniziata

Come gestirla ?

La teoria della complessità ci viene in aiuto. Essa ci dice che i sistemi complessi (l’individuo, l’Azienda, le comunità, ecc.) reagiscono agli stimoli in modo da continuare a sopravvivere nelle mutate condizioni e, per far questo, usano la creatività per creare nuovi modelli organizzativi che meglio si adattino al nuovo contesto.

Non gli si può imporre niente, ai sistemi viventi (o complessi). Devono fare tutto loro.

Ma che cosa c’entrano il progetto nuovo che l’Azienda deve gestire, la sfida del cambiamento e la teoria dei sistemi complessi ?

Una Comunità di Pratica

Il progetto nuovo da gestire (lo scossone al sistema) genera la necessità di cambiamento che l’Azienda e gli individui devono sostenere.

La teoria della complessità ci aiuta a fare le cose giuste per evitare che si inneschi la spirale del rifiuto e dell’abbandono del cambiamento. Con la conseguente “morte” del sistema (l’Azienda).

Creare una Comunità di Pratica che lavori sul nuovo progetto è la soluzione per generare la conoscenza nuova che non esiste ancora e di cui l’Azienda ha bisogno.

Definiamo “Comunità di Pratica” un gruppo di persone che si uniscono con lo scopo di condividere conoscenze ed esperienze e imparare dagli altri membri del gruppo relativamente a qualche aspetto della vita professionale.

In realtà si assiste tutti i giorni alla nascita e all’evoluzione di Comunità Di Pratica in ambiti non strettamente, o per niente, legati all’ambito professionale ma, in questo documento, la discussione sarà focalizzata su gruppi che nascono in ambito lavorativo aziendale.

Per brevità, ci riferiremo, d’ora in poi, alla Comunità utilizzando l’acronimo CoP, mutuato dall’equivalente anglosassone “Community of Practice” largamente diffuso in letteratura.

La CoP può nascere spontaneamente, per iniziativa dei suoi membri (almeno di alcuni di loro....quelli che poi saranno ricordati come il “nucleo storico” della CoP).

Oppure può essere costituita dal Management aziendale.

In entrambi i casi ci sono alcune “precauzioni” che il sistema azienda dovrebbe adottare per facilitare la nascita e la vitalità della CoP.

Cosa fare e cosa non fare

Il Management aziendale dovrebbe rinunciare a gestire. Esplicitare in modo forte il committment del top management e investire qualcuno (persona o entità organizzativa) del mandato di creare e sostenere una CoP può generare sentimenti di rigetto da parte dei potenziali Membri.

Una Comunità è un sistema complesso, un sistema vivente che persegue la propria sopravvivenza. Non c’è alcun modo di forzarlo ad evolvere in una certa direzione o a reagire in un modo controllato. L’unica cosa fattibile è influenzare le condizioni ambientali in cui si esplica la sua attività (la sua vita) e sollecitarlo affinché sviluppi un comportamento piuttosto che un altro. In ogni caso è estremamente difficile prevederne con accuratezza l’evoluzione nel lungo periodo, se non in termini macro (ciclo di vita tipico dei sistemi viventi).

Si dovrebbe evitare di imporre alla CoP obiettivi troppo stringenti e, soprattutto, di carattere economico (ritorno delle attività, ecc.). Questo non fa altro che focalizzare le attività della CoP verso il soddisfacimento delle richieste aziendali e inibisce la creazione di nuova conoscenza.

Si potrebbe dire che la “gestione” (se di gestione si può parlare) dovrebbe avere l’obiettivo del sostentamento e della longevità della comunità e non del suo profitto.

Questo d’altra parte è vero anche nel caso aziendale, come la storia delle società longeve dimostra (basti pensare alla Stora con i suoi 700 anni di vita).

Anche l’eccessivo utilizzo (o disponibilità) di tecnologia può essere dannoso, specialmente nelle prime fasi di vita. I membri hanno quasi sempre a disposizione tutto quanto serve per scambiarsi conoscenze ed esperienze: e-mail, telefono, meeting, chat, newsgroup. Se poi è disponibile in azienda una piattaforma di condivisione (learning management system, web-base live collaboration system) tanto meglio: ma il suo utilizzo deve essere qualcosa di già assimilato nella normale operatività quotidiana dei membri. Essi devono concentrarsi (liberamente) sui contenuti.

Può invece essere di aiuto un sistema di rappresentazione della conoscenza che complementi le funzionalità offerte da e-mail, chat, newsgroup, ecc.. I sistemi citati non sono infatti in grado di gestire una rappresentazione delle mappe mentali degli individui. L’utilizzo di un siffatto tool deve comunque essere molto semplice ed immediato.

Il ruolo del management dovrebbe essere quello di facilitatore del processo di creazione e sostentamento della CoP:

·        curare di citare la CoP e i suoi risultati tutte le volte in cui vengono diffuse informazioni relative alle attività interne dell’organizzazione (bollettini, journals, circolari, ecc.)

·        contribuire alla massima disseminazione delle informazioni relative agli scopi e ai membri

·        incoraggiare i dipendenti a partecipare attivamente a CoP già costituite o a crearne di nuove, introducendo tempi e spazi liberi durante le normali attività lavorative (si ricordi il caso della 3M)

·        mettere a disposizione l’infrastruttura tecnologica necessaria (non in eccesso): e-mail, chat, newsgroup, ecc..

·        creare un clima di fiducia in cui le persone vengono “lasciate fare” e non controllate

·        evitare misure coercitive chiaramente derivanti da attività di controllo (restrizioni nell’uso di strumenti e infrastrutture aziendali, nell’accesso al web, ecc.)

La comunità come struttura aziendale

Immaginiamo ora la fertilizzazione che le attività e i risultati della CoP possono indurre nel resto dell’azienda:

·        diffusione dei risultati raggiunti

·        best practices elaborate e lessons learned

·        elevata motivazione delle persone che hanno partecipato e che contribuiscono a creare nuove comunità

·        sentimento di essere “uno dei nostri” che permette di affrontare sfide nuove

·        orientamento individuale e organizzativo a crescere insieme

·        scambi con altre CoP (cross-fertilizzazione)

La personalità dell’Azienda (perché anche lei ne ha una sua propria) diventa quella della living company e siccome l’atto del vivere è un atto di apprendimento, scopriamo di aver creato la learning company.

Ma....

....un giorno arriva un progetto nuovo.

Uno di quelli che non si sa da che parte prendere. Non abbiamo una visione chiara del processo.

E’ uno di quei progetti da scoprire strada facendo. Non si può immaginarne l’evoluzione. E quel che è peggio, non ci si rende conto delle possibili (o meglio, probabili) criticità.

Avevamo incominciato così, qualche diecina di righe più su.

Ma adesso siamo “uno dei nostri”, quelli che hanno inglobato il diverso e che hanno alle spalle la vita della Comunità di Pratica.

Non è solo questione di avere esperienza di quel tipo di progetti e, quindi, sapere come gestirli.

E’ molto di più.

E’ la certezza di riuscire ad affrontare e assimilare questo nuovo “diverso” senza distruggerlo ma, anzi, sfruttandolo per crescere insieme.

E’ la certezza di poter contare sugli altri e sul processo di condivisione delle conoscenze e delle esperienze: la sensazione rassicurante di far parte di una comunità vivente.

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