LA STATISTICA E
L'ORGANIZZAZIONE
di Andrea Montefusco
Sogni di cambiamento del pensare tecnico in azienda: i vincoli e le possibilità delle applicazioni reali nel tentativo della costruzione di un punto di vista sistemico e transdisciplinare.
Le Premesse
Uno dei punti fermi nelle aziende tecniche odierne, in particolare se "agganciate" a qualche Sistema di Certificazione della Qualità (es. ISO 9000)
é il tentativo "forte"di utilizzare un approccio metodologico
"scientifico", un tentativo di razionalizzare ogni problema tecnico e di trovare
così risposte sempre migliori alla domanda centrale di ogni organizzazione (estensibile
ormai anche a chi "produce" servizi): controllare i propri processi. Sembrerebbe
allora semplice impostare la questione e risolverla. Se le competenze necessarie sono
quelle metodologiche, ad esempio conoscenze delle tecniche statistiche, sembreremmo di
fronte a 2 possibilità: tali competenze sono presenti in nella nostra organizzazione in
maniera sufficiente, cioé permettendone l'utilizzo, la diffusione ulteriore e sempre
maggiori sviluppi applicativi; non abbiamo tali competenze o comunque il grado di
assimilazione e diffusione non sono sufficienti né ad un utilizzo reale, né tantomeno ad
una loro diffusione.
Ovvie le strade: nel caso A si lavora per il miglioramento, per un'introduzione capillare,
per il ripensamento critico (ma siamo già nel futuro...) . Nel caso B si
"fa
formazione". Formazione Statistica: una questione da progettisti? Esiste un pensiero
"razionalista" e "positivista" che permea profondamente la realtà
delle Scuole Tecniche (intendo qui comprendere anche le Università, quali il Politecnico
di Milano, da cui provengo) che ci ha abituati a cercare di porre ad ogni problema la
"parola fine" ed istintivamente a utilizzare un punto di vista
"progettuale". La formazione diventa allora una questione semplice. Si parte dai
dati ottenuti da analisi: cosa serve per svolgere al meglio un certo compito ciò che
esiste e ciò che "manca" e si definisce la soluzione che tipicamente sarà un
tentativo di "riempimento" della mancanza di competenze. Riflessioni sul
"riempimento" (fase 3).Ovvie le strade: nel caso A si lavora per il
miglioramento, per un'introduzione capillare, per il ripensamento critico (ma siamo già
nel futuro...) . Nel caso B si "fa formazione". Formazione Statistica: una
questione da progettisti? Esiste un pensiero "razionalista" e
"positivista" che permea profondamente la realtà delle Scuole Tecniche (intendo
qui comprendere anche le Università, quali il Politecnico di Milano, da cui provengo) che
ci ha abituati a cercare di porre ad ogni problema la "parola fine" ed
istintivamente a utilizzare un punto di vista "progettuale". La formazione
diventa allora una questione semplice. Si parte dai dati ottenuti da analisi: cosa serve
per svolgere al meglio un certo compito ciò che esiste e ciò che "manca" e si
definisce la soluzione che tipicamente sarà un tentativo di "riempimento" della
mancanza di competenze. Riflessioni sul "riempimento" (fase 3).Nella visione
"dell'azienda tecnica" (ma non solo) formare significa lavorare "su ciò
che manca",
Nella visione "dell'azienda tecnica" (ma non solo) formare significa lavorare
"su ciò che manca", molto spesso con intensi momenti d'aula. Vorrei allora,
senza addentrarmi in un meraviglioso dedalo di possibili interpretazioni e riflessioni,
quindi necessariamente con aspetti di pesante semplificazione, raccontare alcune pensieri,
maturati soprattutto rivisitando quanto vissuto durante l'esperienza personale non solo
nelle aule ma anche negli spazi dell'applicazione. L'Immagine delle Parole "Abbiamo
il concetto senza l'emozione, abbiamo la parola senza l'immagine"
[p.51,L'Organizzazione condivisa. Comunicazione, Invenzione, etica, A.G. Gargani], dice
Aldo Giorgio Gargani, ispirandosi e commentando una frase di Kafka. Io credo che ciò sia
profondamente vero quando nelle organizzazioni si pronunciano frasi del tipo
"dobbiamo formare tutti i nostri operatori all'uso della statistica" o ancora
"tutti i nostri tecnici dovranno essere in grado di usare la statistica", oppure
"i corsi di statistica devono essere pratici, immediatamente utilizzabili".
Nella visione "dell'azienda tecnica" (ma non solo) formare significa lavorare
"su ciò che manca", molto spesso con intensi momenti d'aula. Vorrei allora,
senza addentrarmi in un meraviglioso dedalo di possibili interpretazioni e riflessioni,
quindi necessariamente con aspetti di pesante semplificazione, raccontare alcune pensieri,
maturati soprattutto rivisitando quanto vissuto durante l'esperienza personale non solo
nelle aule ma anche negli spazi dell'applicazione. L'Immagine delle Parole "Abbiamo
il concetto senza l'emozione, abbiamo la parola senza l'immagine"
[p.51,L'Organizzazione condivisa. Comunicazione, Invenzione, etica, A.G. Gargani], dice
Aldo Giorgio Gargani, ispirandosi e commentando una frase di Kafka. Io credo che ciò sia
profondamente vero quando nelle organizzazioni si pronunciano frasi del tipo
"dobbiamo formare tutti i nostri operatori all'uso della statistica" o ancora
"tutti i nostri tecnici dovranno essere in grado di usare la statistica", oppure
"i corsi di statistica devono essere pratici, immediatamente utilizzabili".
Se avessimo l'immagine di queste parole ci renderemmo conto del loro peso, se ne avessimo
l'emozione o per meglio dire, se non la nascondessimo a noi stessi, avremmo sicuramente "paura". La formazione come "omologazione". Non ci accorgiamo, quando
proponiamo un programma formativo, lo organizziamo, ci impegnamo nella realizzazione, del
"processo di omologazione" che esso può rappresentare per "gli
studenti". Sia che la partecipazione sia "coatta" ("tu vieni perché,
in quanto parte della tale funzione e in quanto svolgi il tale lavoro, hai bisogno di
queste nozioni") sia "libera" ("se vuoi puoi venire") il
personale a cui la formazione é potenzialmente diretta percepisce un senso di
inadeguatezza al proprio compito e più in generale la percezione che in qualche modo
quella partecipazione sia necessaria per essere "omologati" come persone
disponibili ad apprendere ed aggiornate su ciò che l'organizzazione ritiene importante.
Questo punto di vista riduzionista, che ci influenza spesso anche quando andiamo in aula
come formatori, é quanto di più lontano si possa pensare per ottenere lo scopo, e tanto
più quanto la persona (lo "studente") ha già un lungo vissuto nel suo posto di
lavoro e/o nell'azienda. Se ci fermassimo un attimo a riflettere, ci renderemmo conto che
non siamo quasi mai di fronte alla possibilità di raccontare una materia tecnica
asetticamente, ma che nel descriverla richiamiamo costantemente la realtà del lavoro
quotidiano e costringiamo gli "studenti" a un confronto con essa, e quindi con
come hanno inteso e giocato la loro professione sino ad un momento prima. Senza entrare in
tentativi di spiegare cosa accade, credo sia immediato però richiamare alla memoria la
forte ribellione di alcune persone che forse non accettano che chi pretende di formarli
pretende in qualche modo di ottenere un'adeguamento ad un modello della professione (o
ruolo) che la persona svolge. Ed effettivamente tende a farlo, molto spesso, da un punto
di partenza che potremmo considerare pregiudiziale, cioé senza considerare che la
"mancanza" dello "studente" che costituisce in parte la difficoltà di
dialogo con il "docente" non può essere considerata come fatto oggettivo, ma ha
valore se e solo se é posta in relazione con la precendente (e attuale) esperienza
professionale dello "studente". [ "Il pregiudizio 2", M. Sclavi,
Pluriverso, nr.5, pp.91-95] In questo modo la conoscenza o l'ignoranza della statistica
diventa un rispettabile vissuto, fatto non solo di lezioni e studi avuti o mancati, ma di
piccole scelte professionali, di indirizzi aziendali precenti, di attitudine, di odio, di
amore per la propria bellezza (professionale!). In questo modo la formazione é uno
scambio costruttivista, in cui il "docente" non dà nulla per dogmatico, ma
apprende da modelli diversi altri possibili sistemi e strumenti, scambia punti di vista e
cultura. La paura del pensiero Se ci fermassimo ad ascoltare i nostri "studenti"
sia in aula che nelle applicazioni, sentiremmo molte volte esprimere la paura del pensare
senzainterruzione, che poi in azienda "tecnica" si traduce nella paura del dover
modificare senza interruzione il nostro punto di vista, quello che fino ad oggi ritenevamo
"oggettivo e privilegiato", da cui guardiamo sistemi, macchine, processi e
persone con ottica razionalista, per porre ai problemi la parola "fine". Se
siamo buoni formatori, suscitiamo (in noi stessi, oltre che negli altri) il desiderio di
pensare e poiché, ascoltando Gargani, "quando pensiamo noi pensiamo le possibilità
dimenticate o trascurate di una cosa quale si trova ed esiste nell'esperienza ordinaria e
normale; la pensiamo e allora ricordiamo le sue possibilità [ ...] noi pensiamo una cosa
reale nell'intreccio delle sue relazioni con la sua irrealtà, che é lo sfondo silenzioso
delle sue possibilità che la circondano di domande da ogni parte" [ A.G. Gargani,
Sguardo e destino, Laterza, 1988] . Questo ci mette a contatto con la nostra libertà, ci
fa sentire continuamente il peso di scegliere tra tanti possibili strade tecniche, che poi
sono fortemente legate con i percorsi della nostra vita. Ci fa anche sentire il peso della
complessità, che temiamo spesso di non poter dominare e che in gran parte é la
"complessità delle relazioni sociali" destinate ad aumentare ogni volta che
scopriamo nuove possibilità tecniche [ G. De Michelis, A che gioco giochiamo? Lingauggio,
organizzazione, informatica. Guerini e Associati, 1995] L'emozione e la paura L'emozione
più grande, dice Gargani, é quella che proviamo quando dalla comprensione il nostro
pensiero passa all'incomprensione [ A.G. Gargani, Il testo del tempo, Laterza] e potremmo
forse anche dire che quella emozione spesso comporta una certa paura, la paura di una
breccia che anziché restringersi si allarga [ G. Varchetta, La solidarietà
Organizzativa] aumentando sì le possibilità, ma anche i vincoli, in una circolarità
molto spesso indipanabile. Se non c'é incompresione si potrebbe quasi dire che non esiste
pensiero ma essendo più morbidi possiamo dire che non ci sono nuove possibilità, che il
sentiero é solo da percorrere, non c'é rotta da scoprire. Questo non può e non deve
essere visto negativamente: il mantenimento é importante, ci permette di agire e di
"risparmiare energia psichica" [ F. Avallone, Workshop Il Benchmarking della
Formazione, Novedrate, 10-11 ottobre 1996, relazione invitata] . Ma solitamente lo scopo
della formazione non é l'equilibrio, ma la generazione di nuove possibilità: si badi
bene, anche quando parliamo di quello sino a oggi chiamato "addestramento",
cioé la formazione all'esecuzione di un compito ben codificato. La differenza é poca dal
punto di vista interiore: il nostro "studente" si dovrà confrontare con nuove
possibilità, elaborerà nuovi simboli, rivisiterà il suo passato, cercherà di
comprendere cosa già in lui esiste. L'inizio é un pò provocatorio, ma non ho scelta:
sono solo all'inizio del tentativo di leggere con spirito diverso il libro che ogni giorno
io, i colleghi che come me hanno il compito di diffondere (?) "cose nuove"
nell'organizzazione, e "gli altri colleghi", scriviamo.
Bibliografia
Avallone F., (1996), La Formazione del Futuro Il Benchmarking della Formazione, Atti
del convegno AIF
Sclavi M., (1996) Pregiudizio 2. Stili cognitivi e stili di convivenza, Pluriverso, nr. 5,
ETAS Libri,
Milano
Varchetta G., (1993), La Solidarietà Organizzativa, Guerini e Associati, Milano
Munari A., (1993), Il sapere ritrovato. Conoscenza, Apprendimento, Formazione, Guerini & Associati,
Milano
Gargani A.G., (1992), Il testo del tempo, Laterza, Bari