BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 25/02/2002

Organizzazioni ed emozioni

di Elena Nascimbene

Sembra che le relazioni che caratterizzano l'ambito professionale debbano essere anestetizzate e che tutta l'affettività e le emozioni vadano giocate - quando va bene - nella sfera intima. Quanti esempi ciascuno di noi potrebbe fare a tal proposito.
E' vero, però, che questo orientamento almeno a livello teorico è un po' stato messo in discussione recentemente: basti pensare al successo che ha riscosso nella letteratura manageriale il bel volume di Goleman " L' intelligenza emotiva" 1. E come sempre viene dall'America e si sta affermando anche da noi una nuova ventata di attenzione alle emozioni che trova anche in alcuni programmi di formazione un'articolazione operativa.
Per anni, però, si è ritenuto che appena entrati in ufficio - soprattutto se in ruoli di responsabilità - ci si dovesse, ancor prima di togliere il cappotto, spogliare della propria affettività, lasciare ogni preoccupazione e vestire un abito esclusivamente "professionale".
Come se le persone potessero dividersi a metà, potessero scindersi, separarsi, divenire delle parti, secondo il contesto e a dir la verità la pressione sociale e la cultura organizzativa dominante per decenni sono state così forti che in molti casi questa scissione si è veramente prodotta.
E questa scissione ha prodotto anche parecchi danni nella qualità delle relazioni interpersonali nelle organizzazioni, cioè nel modo in cui le persone stanno insieme nell'ambito lavorativo. Peccato che dal modo in cui le persone stanno insieme nell'ambito lavorativo dipenda anche la qualità del lavoro. Ma questo, forse, se pur lentamente lo si sta cominciando a comprendere.
Come pure si sta lentamente cominciando a comprendere che tutta l'ansia e l'angoscia che sono presenti all'interno delle organizzazioni devono poter trovare un modo per raccontarsi e quindi per essere affrontate pena l'incapacità/impossibilità di portare a termine il compito.
Mi ha colpito non molto tempo fa la lettura sul Corriere della Sera di un articolo dal titolo " Cercasi Direttore della Felicità".
Si trattava di questo. Un'azienda di medie dimensioni, situata vicino a Milano, ricercava una figura manageriale, da inserire nella Direzione Risorse Umane, per occuparsi del benessere dei dipendenti.
Si potrebbe anche liquidare l'iniziativa come un attacco strumentale di paternalismo, ma forse la notizia dovrebbe far riflettere più seriamente su come in taluni casi ci si cominci a porre il problema di prendere in considerazione la persona inserita nell'organizzazione come una persona intera.
E, in quanto persona intera, portatrice di bisogni, di emozioni, di interrogativi cui è necessario tentare di dare una risposta nel contesto organizzativo.
Del resto, nella complessità delle nostre nuove relazioni sociali è sempre più evidente l'emergere di un nuovo protagonismo del soggetto che chiede di esprimersi in quanto tale, senza negare la dimensione del gruppo che pure resta di fondamentale importanza.
In fondo non si parlerebbe tanto della necessità delle organizzazioni di attrezzarsi ad ascoltare i propri dipendenti se non si fosse compresa l'importanza delle emozioni.
Che cosa è l'ascolto per lo più infatti se non l'ascolto di emozioni? Ecco che diventa di grande rilevanza la capacità empatica del capo nel colloquio con il proprio collaboratore di ascoltare e di ascoltare le sue emozioni, quelle espresse e molto di più quelle che fanno fatica a trovare le parole per essere dette.
Infatti, spesso è nel colloquio profondo che le emozioni che stentano a uscire possono trovare un contenitore che sappia elaborarle e rispecchiarle per dare loro una voce e un senso. C'è un grande bisogno nelle organizzazioni di trovare un senso e un senso condiviso al proprio agire quotidiano.
Si parla tanto di senso di appartenenza. Ma che cosa è questo se non soprattutto l'emozione di riconoscere di essere "visti" dalla propria organizzazione, di essere compresi nella propria unicità , di essere valorizzati?
Il paradigma della complessità sociale si arricchisce e si interpreta solo se si coglie il paradigma della complessità individuale e in questo senso se si vuole svelare un po' di verità bisogna partire da quell'impasto di razionalità e di emozioni che il soggetto presenta e rivendica spesso in modo confuso e contraddittorio, anche perché manca ancora nella nostra cultura sociale un'educazione ai sentimenti.
D'altra parte, le organizzazioni sempre più si trovano confrontate con questioni che impongono una capacità di leggere i fenomeni della complessità soggettiva.
Basti pensare al tema fondamentale del cambiamento.
Bisogna necessariamente anche entrare in contatto con le emozioni profonde e le paure che il cambiamento può suscitare se si vuole tentare di traghettare le organizzazioni verso nuovi modelli, nuovi ruoli, nuove sfide.
Non basta scrivere nei documenti le nuove strategie e le nuove regole perché queste vengano condivise e fatte proprie dalle persone che le devono interpretare.
Non si può parlare solo alla testa, ma bisogna trovare il modo di rivolgersi anche all'emotività delle persone, alle loro passioni perché l'agire professionale è dettato fortemente anche da questa componente e non si può più fingere che non esista.


Note:
1
Daniel Goleman "Intelligenza emotiva" (Rizzoli 1997, ed. origin. 1995).

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