BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 20/11/2000

A PROPOSITO DI SVILUPPO ORGANIZZATIVO E RELAZIONI SINDACALI

di Attilio Pagano

Da qualche tempo rifletto sul rapporto tra sviluppo organizzativo e relazioni sindacali. O, se vogliamo, tra i comportamenti, e i corrispondenti assunti sull’uomo e il lavoro, che sembrano quelli ‘giusti’ quando ci si riferisce allo sviluppo organizzativo e quelli (perché diversi?) che sembrano ‘giusti’ quando ci si riferisce alle relazioni sindacali.

Sono periodicamente spinto a tornare a questo tema, forse perché ho sviluppato una certa personale sensibilità a riconoscere una situazione ricorrente nei convegni, nei corsi di formazione, nei "laboratori" per manager di organizzazione, risorse umane e affini.

In questa situazione tipica c’è un protagonista, o un testimone, che racconta agli altri partecipanti una storia di cambiamento organizzativo. Immaginiamo che racconti la sua storia, quella della sua organizzazione o quella in cui lui ha svolto una parte. Potrebbe essere un imprenditore, un responsabile di funzione, un consulente, un formatore. Egli probabilmente descriverà l’organizzazione (quasi sempre un’impresa) e attirerà l’attenzione su una o poche dimensioni organizzative che dovevano essere modificate (il modello strutturale, i processi di lavoro ecc.).

Il suo argomentare, se non anche il suo tono, presentano un atto creativo, suggerendoci che un progetto di innovazione è intrinsecamente imprenditoriale, perché trasformare l’esistente è un modo di creare quel che non c’era. In qualche modo intravediamo in questa narrazione uno slancio.

Poi succede qualcosa. Nel racconto entra in scena una routine obbligata. L’argomentare e il tono sottolineano il cambiamento. La situazione ricorrente che già mi aspettavo, è ora di nuovo presente nel non si può non dirlo, perché non si poteva non farlo: "abbiamo avuto i nostri incontri con il sindacato"; "gli abbiamo illustrato il nostro progetto"; "abbiamo registrato le posizione positiva, collaborativa (oppure ostile, diffidente) del sindacato".

Non si poteva non dirlo, e, nel dirlo, ricorrono gli "ovviamente…", gli "è scontato che…", e così via.

A me questa tipica situazione lascia sempre un qualcosa di stonato. Mi chiedo: che senso ha dire che le persone, tutte le persone, dell’organizzazione "sono importanti"; che il management deve "orientarsi al cliente interno" e chiedere a tutti di coltivare questo orientamento; che bisogna dare spazio alla più ampia sovrapposizione tra "obiettivi organizzativi e individuali", e poi trascurare, addirittura negare, una delle forme con cui quelle stesse persone danno voce alle loro aspettative?

In una concezione più completa, e direi sistemica, delle organizzazioni, dovrebbe essere riconosciuto che l’espressione delle aspettative dei lavoratori attraverso l’associazione o il sostegno al sindacato, o semplicemente attraverso la costituzione di un organismo di rappresentanza collettiva, è uno dei modi per identificare e promuovere una ampia integrazione tra obiettivi individuali e organizzativi. Probabilmente questo riconoscimento si lega a quello del fatto che l’efficacia organizzativa non va cercata tenendo come riferimento unico il successo dei prodotti / servizi offerti.

Le organizzazioni (anche quelle profit) sono sempre multifunzionali e hanno molteplici obiettivi. La ricerca dell’efficacia fondata su un output a scapito di altri, alla lunga, conduce a un vicolo cieco.

Come le organizzazioni, anche le persone hanno molteplici obiettivi. Non dovrebbe esserci bisogno di illustrare, o evocare, la piramide di Maslow per argomentare la complessità dei bisogni e delle spinte motivazionali che, anche nei contesti organizzativi, sostengono i nostri comportamenti o giustificano alcune nostre emozioni positive (soddisfazione, senso di realizzazione) o negative (frustrazione, ansia).

Ma, poiché la relazione tra individuo e organizzazione è asimmetrica (per esempio per l’ineguale accesso alle informazioni pertinenti, o per la diversa possibilità di influire sugli eventi), si può ritenere come prevedibile, o almeno plausibile, che siano gli scopi dell’individuo a dover cedere, e gli altri a prevalere.

In questo senso le persone, certo non tutte, possono vedere nell’associazione o nel sostegno al sindacato un modo per cercare soddisfazione a una gamma di bisogni più ampia di quella soddisfatta dalla relazione di lavoro così come è.

Il sindacato ha, o dovrebbe avere, un interesse a raccogliere questa "domanda", ma non lo ha forse anche l’organizzazione, l’impresa?

Sono disponibili informazioni su casi, forse non numerosi ma significativi, di direzioni aziendali che hanno promosso interventi di crescita della persone. In questi casi quasi mai si è cercato nel sindacato un partner coinvolto e consapevole. Nella migliore delle ipotesi (migliore da mio punto di vista, s’intende), si è cercato di acquisirlo alla realizzazione di un progetto già definito. Di farne, come dire, un alleato strumentale e non un partner strategico. Si dirà che non poteva essere questo il compito delle direzioni aziendali e che, semmai, dovrebbe essere lo stesso sindacato a sviluppare una spontanea e creativa capacità di iniziativa per "sfidare" le imprese a realizzare meglio la molteplicità dei bisogni organizzativi, comprendendo tra essi quella parte di bisogni individuali che nel lavoro organizzato possono essere soddisfatti.

Vero, ma anche vero che il sindacato è anche un sistema che fa parte (divenendone sottosistema) di un più ampio sistema di relazioni. Da questo punto di vista, si potrebbe sostenere che il sindacato è ciò che le imprese ‘vogliono’ che sia, salvo poi lamentarsene, più o meno direttamente, quando ne parlano nei loro racconti come di un ostacolo, una routine obbligata, un passaggio di cui non si può non parlare perché non si può non subirlo.

Allora le mie domande diventano: Perché le cose sono così? E chi ha detto che le cose debbano restare così?

Qualche idea mi viene in mente.

Le politiche delle risorse umane sono tradizionalmente divise in politiche union (relazioni industriali gestite con il sindacato) e non-union (relazioni di lavoro non gestite con il sindacato). Questa divisione, creatasi in coerenza con un’idea del lavoro e dell’organizzazione del lavoro centrate sulla divisione tra lavori esecutivi e lavori di progettazione e controllo, sembra oggi alquanto anacronistica e potrebbe essere superata da una concezione più unitaria.

Le persone che nelle direzioni organizzazione e risorse umane si occupano di relazioni sindacali spesso non sono le stesse persone che si occupano anche di sviluppo organizzativo. Alle prime si richiede una preparazione più normativa che psicologico-organizzativa, e soprattutto un’attitudine orientata più al "pensiero vincolo", che al "pensiero opportunità".

Fare interagire più strettamente queste diverse persone potrebbe essere l’innesco di una più unitaria concezione delle politiche sulle risorse umane.

Le relazioni sindacali sono un fenomeno discontinuo nel tempo. Si accendono quando c’è una scadenza o un’emergenza. Vi si ricorre solo per riparare, mai per costruire. Pensarle come un processo permanente potrebbe essere il modo per legarle in modo costruttivo agli altri dinamiche (a esempio il "clima organizzativo").

Le relazioni sindacali sono viste solo come occasione per disciplinare i comportamenti dell’altra parte, secondo una logica esclusivamente difensiva. Da qui l’enfasi sugli esiti normativi. In realtà la vita sociale (anche quella organizzativa) è un gioco continuo di influenzamenti reciproci, di cui solo una parte avviene attraverso la individuazione di norme e sanzioni. Provare a inserire argomenti non solo normativi, ma anche, per dirla in ‘sindacalese’, liberanti, può essere il modo di promuovere forme di influenzamento forse anche più efficaci. A esempio, si potrebbero affrontare nel confronto con la rappresentanza di interessi collettivi temi come il riconoscimento del ruolo delle famiglie professionali (non gli inquadramenti) attraverso una specificazione degli obiettivi e degli strumenti della comunicazione organizzativa.

Con questa rappresentazione, quasi ideale, delle relazioni sindacali, non vorrei dare l’impressione di disconoscere la differenza di interessi tra impresa e lavoratori. Al contrario, io credo che un modo per arricchire e aggiornare le relazioni sindacali possa essere proprio quello di affidare a esse il compito di ricostruire il più ampio ventaglio dei diversi interessi, scopi e bisogni, tanto dal punto di vista organizzativo che da quello individuale.

A esempio, dal punto di vista organizzativo, si può pensare che gli scopi non riguardino solo produzione e produttività, ma anche promozione dell’immagine, dell’accettazione sociale, dell’ambiente naturale. Mentre dal punto di vista individuale, si può pensare che le persone (almeno una parte rilevante di esse) siano orientate non solo a "un giusto compenso per lavoro dignitoso", ma anche a una più ampia soddisfazione dei bisogni psico-relazionali, a un lavoro stimolante, a una prospettiva di crescita.

La individuazione di queste ampie e ‘multiple’ forme degli scopi organizzativi e individuali può favorire la individuazione di quelle aree di potenziale sovrapposizione, soprattutto se ciò che guiderà l’azione sarà un criterio di compatibilità più che di identità.

Questa prospettiva di integrazione tra obiettivi individuali e organizzativi, anche attraverso le relazioni sindacali, può costituire una base per iniziative di sviluppo organizzativo in cui il coinvolgimento delle forme di rappresentanza collettiva dei lavoratori non sia una fastidiosa routine obbligata.

Ma il problema è che le relazioni sindacali reali oggi hanno caratteristiche del tutto diverse da quelle qui prospettate:

· eccessiva enfasi sugli aspetti normativi;

· clima di diffidenza e bassa fiducia reciproca;

· logiche negoziali chiuse in giochi del tipo "io vinco – tu perdi";

· stili negoziali funzionali soltanto a far pesare, o a fare apparire, rapporti di forza dominanti;

· rituali e procedure rigide che impediscono le ricerca di soluzioni non previste inizialmente;

· incapacità di ascoltare le posizioni dell’interlocutore.

In una prospettiva di sviluppo organizzativo, queste caratteristiche rendono le relazioni sindacali disfunzionali, non solo per il fatto che esse non sostengono l’integrazione tra individuo e organizzazione (il che sarebbe il minore dei mali, o al massimo uno spreco di risorse, dal momento che questa integrazione può essere promossa anche con altre leve manageriali); ma soprattutto per la potenziale capacità di questo tipo di relazioni nel frenare e contrastare l’integrazione tra individuo e organizzazione, agendo esclusivamente sugli aspetti di conflittualità e di incompatibilità.

Si può pensare di risolvere il problema eliminandolo, cioè non avendo o non consentendo relazioni sindacali. Ma questo atteggiamento, come è facile verificare, produce spesso l’effetto contrario: spinge le persone verso le caratteristiche più negative del confronto sindacale tradizionale, forzandole a ricercare la legittimazione a essere al tavolo negoziale quasi come un obiettivo valido in sé.

La soluzione del problema sta nella presa di coscienza da parte del management e delle rappresentanze sindacali che è vantaggioso affrontare ricercare la maggiore integrazione possibile tra individuo e organizzazione.

Il management ne ricaverebbe vantaggi sul piano dell’efficacia organizzativa e della competitività.

Le rappresentanze su quello di una più completa soddisfazione dei bisogni dei loro rappresentati.

Si potrebbe obiettare che le relazioni sindacali, essendo per natura intrinsecamente collettive e massificanti, non possono che fallire questo obiettivo che invece è sensibile alla personalizzazione del rapporto di lavoro.

Proprio per questo è opportuno sostenere una conversione che non è solo relativa alle tecniche e agli strumenti, ma è soprattutto culturale. Qui, è evidente, entra in gioco la formazione.

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