BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 23/07/2001

Gestire le appartenenze

di Attilio Pagano

Chi non ha sentito descrivere i problemi di una organizzazione come anche legati a un deficit di senso di appartenenza?

Eppure dovrebbe essere facile riconoscere che l’appartenenza a un gruppo, a un’organizzazione, non è mai esclusiva. Normalmente le persone svolgono contemporaneamente ruoli diversi e, dovendo rispondere a diversi sistemi di aspettative di ruolo, si trovano in situazioni di doppia o multipla appartenenza.

Sono frequenti i casi di ruoli e appartenenze che si moltiplicano anche scavalcando i limiti dell’organizzazione per cui o con cui si collabora.

Tempo di vita e di lavoro si intrecciano e, per un numero sempre maggiore di professioni e di attività, i relativi confini sono sempre più sfumati e variabili. Sembrerebbe, dunque, che il problema, più che in termini di deficit di senso di appartenenza dovrebbe essere descritto come eccesso di appartenenze, o, meglio, come deficit di capacità di gestire le doppie o multiple appartenenze.

Situazioni problematiche associate a questa incapacità di gestire le doppie appartenenze possono emergere con particolare evidenza in realtà organizzative speciali, vuoi per la tipologia di business o per la natura dei legami organizzativi e interorganizzativi.

Recentemente ho ricevuto l’incarico di avviare attività di consulenza e formazione per due diverse organizzazioni di questo tipo, diciamo così, non comune, e nelle quali ho potuto riscontrare come queste difficoltà a gestire le doppie appartenenze abbiano assunto una forma estrema. Sono forse casi limite, ma credo che siano comunque utili per intravvedere alcune conseguenze di processi, come il decentramento organizzativo e la riorganizzazione per progetti, che riguardano un gran numero di organizzazioni certamente più ordinarie dal punto di vista della tipologia di business.

I casi che ho potuto osservare sono:

1. le società della Cgil Lombardia che erogano servizi fiscali;

2. il Fondo Lombardo per la Formazione dell’Ente Lombardo Bilaterale dell’Artigianato.

1. Le società dei servizi fiscali del sindacato

Tra le prestazioni associative del sindacato vi è la erogazione a lavoratori e pensionati iscritti e non iscritti di servizi per la ricezione di modelli precompilati per la dichiarazione dei redditi, l'assistenza, la compilazione e la presentazione di dichiarazioni relative agli obblighi fiscali e ad altre prestazioni richieste o erogate dallo Stato e dalla pubblica amministrazione.

Per l’erogazione di tali servizi, le organizzazioni lombarde della Cgil (Confederazione regionale, Camere del Lavoro e Sindacato Pensionati) hanno costituito il "Centro Autorizzato di Assistenza Fiscale (CAAF) Cgil Lombardia Srl", che esercita attività di assistenza fiscale con autorizzazione ministeriale.

Da un punto di vista operativo, il Caaf agisce tramite convenzioni con società (i Centri di Servizio Fiscale, Csf) costituite dalle Camere del Lavoro, le organizzazioni circa-provinciali della Cgil. Queste società sono state costituite come Srl e, pur restando legate all’associazione sindacale attraverso la presenza nei rispettivi consigli di amministrazione di dirigenti delle organizzazioni sindacali che costituiscono la compagine sociale, sono dirette da personale incaricato che non ha alcuna carica elettiva nell’associazione. Anche gli operatori di front office e back office sono dipendenti delle società (CAAF e CSF) e non hanno incarichi organizzativi nell’associazione sindacale.

Ciò nonostante, non è difficile immaginare come possano presentarsi criticità relative alla esistenza di un doppio legame organizzativo per il personale (sia dirigenti che operatori) di queste società.

Come in tutte le organizzazioni che erogano servizi, anche nel sistema di imprese Caaf e CSF le persone hanno il compito di interpretare la parte discrezionale del loro ruolo per gestire la dimensione relazionale della soddisfazione al cliente. Qui la particolarità sta nel fatto che pur essendo dipendenti delle società CAAF o CSF, devono soddisfare anche le esigenze dell’associazione sindacale che ha costituito queste stesse società.

Ciò porta i dipendenti dei CSF a doversi riferire a organizzazioni che, per quanto siano collegate, rispondono a logiche organizzative diverse e hanno stili manageriali diversi. Da un lato enfasi sull’efficienza, dall’altro sul "senso e l’appartenenza"; da un lato il richiamo al rigore delle procedure, dall’altro all’informalità. E via di questo passo.

Come ‘risolvono’ questa situazione gli operatori dei CSF? Nel modo più classico. In piena inconsapevolezza essi lasciano insoddisfatte le aspettative di almeno un ruolo contiguo (a esempio, l’utente del servizio, oppure il loro responsabile nella società di servizi, oppure il segretario dell’associazione sindacale). Quale sarà il ruolo contiguo che verrà lasciato insoddisfatto nelle sue aspettative dipende da fattori individuali, come le diverse personali propensioni alla "legittimità" delle richieste piuttosto che alle "sanzioni" organizzative; oppure, più semplicemente, dalla storia individuale che vede posizionarsi in modo molto diverso operatori con un passato di sindacalisti da operatori giovani assunti direttamente dai CSF.

Ciò che conta è che resta nella relazione di ruolo una dimensione di insoddisfazione che non solo produce una disfunzionalità nel sistema organizzativo nel suo insieme, ma anche una latente "insoddisfazione di ruolo" degli operatori stessi, intesi come individui. Insoddisfazione che, in misura più o meno dichiarata, si riflette nella relazione con gli utenti / clienti riducendo la loro "qualità percepita".

2. Il Fondo Lombardo per la Formazione dell’Ente Lombardo Bilaterale dell’Artigianato.

Il Fondo Lombardo Bilaterale per la Formazione nell’Artigianato -FLF- è stato costituito, come libera associazione, dalle Parti Sociali dell’Artigianato della Lombardia e cioè le Associazioni regionali di imprese artigiane: CONFARTIGIANATO, CNA., CLAAI, CASA. e le Organizzazioni regionali sindacali dei lavoratori: CGIL, CISL, UIL.

Gli scopi statutari del Fondo sono la realizzazione di attività formative in convenzione con le Istituzioni ed altri enti; il raccordo e la collaborazione con la Regione per promuovere una programmazione delle attività più coerente con le reali esigenze delle imprese artigiane e dei lavoratori.

Gli organi di gestione sono:

- il Presidente (Presidente e Vice Presidente operano con firma congiunta per le materie oggetto di deliberazione da parte del Consiglio di Amministrazione);
- il Consiglio di Amministrazione: è composto da 12 membri in rappresentanza paritetica delle Parti Sociali Regionali (6 per le Associazioni Artigiane e 6 per le Organizzazioni Sindacali);
- l’Assemblea è composta da 24 membri in rappresentanza paritetica delle Parti Sociali Regionali (12 per le Associazioni Artigiane e 12 per le Organizzazioni Sindacali).

È stata inoltre costituita una struttura operativa guidata da un responsabile nominato dal CdA e che non ne fa parte.

Il CdA è chiamato a dirigere il fondo fornendo a questa struttura operativa e in particolare al suo dirigente un quadro di riferimento delle strategie generali, delle modalità di impiego delle risorse e delle priorità.

Il CdA, che dovrebbe agire come gruppo di lavoro, si è trovato talvolta bloccato dal fatto che i suoi componenti si percepiscono prevalentemente come rappresentanti delle rispettive associazioni. In questo modo è infatti possibile che la loro azione individuale nel CdA non sia orientata alla realizzazione degli scopi del FLF.

 

Alcuni spunti di riflessione dai due casi

I due casi brevemente descritti potrebbero apparire molto lontani dalla realtà di organizzazioni di lavoro impegnate in più comuni aree di business. È però possibile, a mio parere, proporre qualche accostamento.

Il caso Caaf Cgil e Csf propone problemi di coesistenza tra culture, stili manageriali e valori di riferimento analoghi a quelli che potrebbero presentarsi a seguito di processi di decentramento organizzativo, in cui più che una esternalizzazione di funzioni (il passaggio dal ‘make’ al ‘buy’), da una comune matrice organizzativa si siano costituite nuove compagini sociali che restano legate da un rapporto operativo ma non necessariamente da una comune cultura, da un sistema di valori condivisi. A esempio una organizzazione potrebbe trovarsi più orientata all’efficacia e l’altra di più all’efficienza. Oppure, come è il caso di quegli Istituti di Credito coinvolti da processi di fusioni, in una organizzazione la cultura prevalente è quella della stima della solvibilità delle imprese a cui concedere un credito, mentre nell’altra la cultura prevalente è quella della valutazione del business plan e della condivisione del rischio d’impresa con il cliente.

Il caso FLF si propone come esempio degli ostacoli alla cooperazione e all’assunzione di obiettivi comuni che si presentano quando le persone che partecipano a un gruppo di lavoro (a esempio a un gruppo di progetto) si sentono più rappresentanti della funzione organizzativa o della divisione di provenienza, che non membri del gruppo stesso.

Sono questi i casi che potrebbero essere definiti come di sviluppo organizzativo ‘ingenuo’, in cui un passaggio dalla tradizionale struttura funzionale o per divisioni, a una struttura a matrice viene guidato agendo solo su alcune leve organizzative, perdendo di vista la natura multidimensionale del fenomeno organizzativo.

Cambiano le richieste fatte alle persone, ma non cambiano i comportamenti manageriali o i processi operativi.

Va anche tenuto presente che ai processi di sviluppo organizzativo generalmente viene associata una riduzione della definizione dei ruoli, nel senso di una minore determinazione dei compiti prescritti e dei confini degli ambiti di responsabilità. Ciò trascina una ulteriore moltiplicazione delle appartenenze.

In questi casi, proprio come nel caso del FLF, le scelte da cui dipende la operatività del gruppo di lavoro (sia a livello delle scelte strategiche che a quello della gestione della routine) prendono la forma di dilemmi personali, spesso con le caratteristiche dell’indecidibilità. Se le persone che sono ‘ufficialmente’ investite di una doppia appartenenza (ad esempio,alla funzione e al gruppo di progetto) non sono preparate a rappresentarsi organizzativamente, e anche psicologicamente, come ‘più ampie’ della somma delle singole appartenenze, rischiano di trovarsi in una situazione in cui ogni decisione che prendono viene vissuta come un tradimento di una delle due identità. È un po’ come la situazione del bambino a cui viene chiesto se vuole più bene alla mamma o al papà.

Quando si è chiamati a operare con doppie appartenenze, si usa talvolta l’espressione delle giacche da indossare. Quando sono in contesto dovrei mettere la prima giacca, quando sono in un altro contesto, la seconda. In questo modo è sempre possibile che l’azione che svolgo in un contesto possa entrare in contrasto con gli interessi che presiedono alla mia appartenenza all’altro contesto. Del resto è facile verificare come la soluzione di indossare sempre una di queste giacche indifferentemente dal contesto, alla lunga non procuri né efficacia, né soddisfazione personale. Esiste però un’altra possibilità che è quella di indossare una terza giacca che non coincida con nessuna delle due giacche originarie ma, in qualche modo, le contenga entrambe. Da un punto di vista della sviluppo organizzativo, e preparandoci a uscire dalla metafora, questa giacca si confeziona con strumenti di maggiore potere, delega, comprensione complessiva dei processi ecc.

La definizione di sviluppo organizzativo ingenuo sembra appropriata anche considerando il fatto che, quando si lascia che le scelte organizzative si scarichino sugli individui, sembra che ci si dimentichi che gli individui sono diversi e non sono spontaneamente in grado di cooperare (a maggior ragione perché bloccati nei dilemmi della doppia appartenenza). Quindi è molto probabile che ciascuno tenti di "risolvere" a modo proprio il problema della doppia appartenenza, innescando nel sistema rinforzi che amplificano la disfunzionalità complessiva. In questo modo, il desiderato sviluppo organizzativo viene guidato verso il fallimento. In questi casi è possibile rilevare:

- deresponsabilizzazione. Le persone trovano buone ragioni per non assumersi le responsabilità che derivano dalla appartenenza a più di una rete di relazioni di ruolo e decidono di non impegnarsi per soddisfare le aspettative dei diversi ruoli contigui. Adottando un principio di esclusione, esse si dispongono soltanto alle richieste dei ruoli che giudicano importanti. Non cercano criteri per cui le richieste di ruoli diversi risultino compatibili. E alla fine c’è sempre qualcuno nell’organizzazione, o tra i suoi interlocutori esterni, le cui legittime aspettative restano insoddisfatte;

- ridelega. Può accadere che alle persone che vivono doppie o multiple appartenenze vengano attribuiti spazi di discrezionalità e di autonomia (a esempio, sul modo di interpretare la partecipazione a un gruppo di lavoro interfunzionale) e che esse non utilizzino questi spazi. La causa di questo comportamento apparentemente assurdo può risiedere nella percezione, non importa quanto ‘fondata’, che questi spazi siano in realtà apparenti perché relativi ad aspetti formali e non sostanziali. Oppure può essere legata a un comportamento non coerente dell’organizzazione che da un lato assegna spazi di discrezionalità e dall’altro non sostiene le persone che dovrebbero occuparli con la preparazione e/o il riconoscimento e/o il sostegno emotivo.

Per una di queste manifestazioni di sviluppo organizzativo ingenuo, è possibile che le persone restituiscano la delega ricevuta adottando un comportamento rigidamente aderente a un modello prescritto. Non è necessario che questo modello ‘esista’. Ancora una volta, è sufficiente che sia percepito come esistente. (per restare sullo stesso esempio precedente, le persone possono interpretare il loro ruolo nel gruppo di lavoro come semplici rappresentanti della loro funzione, o del loro capo, o di ciò che ritengono siano le aspettative del loro capo, a scapito delle aspettative degli altri membri del gruppo);

- pessimismo. L’atteggiamento verso il futuro si caratterizza con espressioni dell’impossibilità del miglioramento e dell’inutilità dello sforzo personale verso il miglioramento. Le persone che non sono sostenute nelle loro doppie appartenenze e che sviluppano un sentimento di indecidibilità rappresentano se stesse e l’organizzazione come guidate dagli eventi esterni o da una volontà quasi impersonale. " o sto di qui, o sto di là"; "o do retta a uno, o la do all’altro"; "mi dicano loro che cosa dovrei fare". Questo l’ideale terreno di coltura delle profezie negative che si autoadempiono.

 

Non solo casi limite. Quotidiane e ordinarie doppie appartenenze.

Per trovare una eco di queste considerazioni, non c’è bisogno di uscire dalle aree di business più comuni né di guardare ai grandi processi di riorganizzazione. Basterebbe infatti considerare la situazione di ordinaria doppia appartenenza in cui si trovano i "professional".

Come noto, vengono così definiti i lavoratori per cui il carattere distintivo e individuale dato dalla loro competenza è il fattore determinante, se non del contratto formale, certamente di quello psicologico.

Per molti di essi, la soddisfazione sul lavoro è legata al riconoscimento e alla crescita della propria specifica e individuale competenza professionale, al punto che taluni si mostrano anche disposti a derogare dalle condizioni retributive e normative, se ciò rappresentasse la forma per avere più chances nel proprio personale progetto di realizzazione.

Una caratteristica importante di queste persone è il senso di appartenenza che esse hanno sviluppato, oltre che per l’azienda, anche per la famiglia professionale a cui appartengono. Le manifestazioni di questo senso di appartenenza possono essere molto diverse, dall’aderire a associazioni tecnico professionali, all’abbonamento a riviste specializzate, alla partecipazione a una delle comunità virtuali disponibili con internet (gruppi di discussione, forum tematici), alla partecipazione a corsi di formazione e/o universitari, alla corrispondenza con altre persone con analoghi interessi, ecc. La sensibilità alle diverse forme in cui questa appartenenza può manifestarsi dovrebbe essere una caratteristica di un management attento.

Il disconoscimento di questi fenomeni, al contrario, comporta nella esperienza di questi lavoratori una rottura del patto implicito. Essi potrebbero percepire la loro specifica individualità indipendentemente, anzi nonostante, le stratificazioni organizzative (categorie contrattuali, organigrammi, gerarchie) ma non indipendentemente dall’appartenenza alla famiglia professionale. Da qui alla richiesta che questa venga riconosciuta il passo non solo è breve ma è anche comprensibilmente inevitabile.

Tra i processi organizzativi a cui i professional manifestano maggiore sensibilità, vi è la comunicazione interna.

Metodi e strumenti di comunicazione (a esempio gli house organ), che siano generici e indifferenziati per quanto riguarda i contenuti e i destinatari, falliscono nel loro scopo di creare coesione intorno ai valori aziendali proprio perché sono non riescono a ‘parlare’ (e ancor più a ‘far parlare’) i professional, o comunque tutti coloro che si sentono differenti, perché specifici.

Più in generale è evidente che i metodi di gestione più o meno consapevoli della conoscenza (acquisizione e generazione di nuove conoscenze, condivisione, utilizzo) possono solo avvantaggiarsi dal riconoscimento ai lavoratori professional delle loro doppie e multiple appartenenze (ma in realtà questo argomento potrebbe essere esteso a ogni lavoratore in quanto, per definizione, appartenente a più sistemi di relazioni di ruolo, a più gruppi, dentro e fuori i confini dell’organizzazione). In altre parole, costringere le persone di un’organizzazione (o credere di farlo, ma comunque agendo in questa direzione) a sentirsi appartenenti solo a quell’organizzazione e nei modi "giusti", è una forma di limitazione delle potenzialità di accesso a un patrimonio di conoscenze più ampio; è una riduzione di un patrimonio che, per quanto intangibile,contribuisce alla creazione di valore.

Il disconoscimento delle doppie appartenenze inoltre riduce il numero di strumenti impiegabili nel sistema incentivante. È facilmente verificabile che quando questo viene eccessivamente semplificato e ricondotto alla sola variabile retributiva i suoi effetti nel sostegno all’impegno e alla motivazione sono ridotti e limitati nel tempo. Ne consegue che dovrebbe essere anche considerata la possibilità di personalizzare il sistema incentivante cercandone le coerenze con la distribuzione degli interessi delle persone nella pluralità delle loro appartenenze. Potranno apparire banali, ma credo che forme di riconoscimento come gli abbonamenti a riviste specializzate (a discrezione degli interessati), siano più efficaci dell’equivalente costo economico di aumento della retribuzione. Se poi queste forme di incentivo assumono il carattere di un pieno riconoscimento della specificità di chi appartiene anche a una famiglia professionale, meglio ancora. Per esempio, la partecipazione a comitati e gruppi di studio degli organismi a cui l’impresa aderisce (associazioni tecniche e di settore, comitati di normazione, consulte) è spesso per questi professional, una manifestazione del riconoscimento della loro appartenenza alla famiglia professionale, dal momento che questa partecipazione non viene affidata a rappresentanti dell’impresa (funzione che potrebbe essere svolta da un dirigente qualsiasi).

Ancora, un Responsabile aziendale per la prevenzione e la sicurezza (quella figura la cui nomina da parte del datore di lavoro è prevista dal D.Lgs. 626/94, a meno che non decida di svolgerne le funzioni in prima persona), come è molto probabile, vive sentimenti di appartenenza tanto all’azienda che alla sua famiglia professionale (esiste anche una specifica associazione). È possibile che per questa persona la pubblicazione sul bollettino aziendale, o sul sito internet, di un suo intervento, magari a fianco di quello di una riconosciuta autorità esterna, costituisca una forma di riconoscimento più efficace di quelle tradizionali.

 

Passare dall’operatore "o" all’operatore "e".

Uno dei corollari del paradigma fordista è il grande potere attribuito all’operatore logico "o". O sei progettista, o sei esecutore o sei controllore. O sei uomo d’azienda (uomo-azienda), o sei membro della tua famiglia professionale. O sei un dipendente fedele (e quindi affidabile) o sei un attivista sindacale (quindi inaffidabile e infedele), e via di questo passo esclusione dopo esclusione.

Un modo per immaginare un futuro diverso potrebbe essere quello di attribuire (restituire?) un po’ di potere all’operatore logico "e", l’operatore dell’inclusione e della tolleranza (che non significa anche perdita della capacità di distinguere tra valori).

Che cosa comporterebbe per un’organizzazione consentire alle persone che ne fanno parte di sentirsene membri, partecipi appunto, anche diventando, o continuando a essere, membri di altri gruppi?

In fondo le leve di sviluppo organizzativo più "semplici" che i manuali riportano più frequentemente (job enlargment, job rotation, job enrichment) agendo sula grado di divisione del lavoro non fanno che sostituire qualche piccola "o" con qualche piccola "e".

Forse il problema della controversa efficacia di questi strumenti nel dare senso e soddisfazione al lavoro sta nel fatto che non toccano le grandi "o".

Almeno due mi sembrano i possibili livelli di intervento, con cui lavorare per questo cambio di operatore logico:

1. interventi a livello personale (formazione). Dal punto di vista psicologico il cambiamento e lo sviluppo di ruolo possono essere letti come passaggio a una maggiore "tenuta" dell’ansia, in quanto i comportamenti ammessi (al contrario di quelli prescritti) consentono, ma non garantiscono. Se da un punto di vista personale vi è la necessità di tollerare l’incertezza e l’ignoto, da un punto di vista organizzativo, si impone la necessità di tollerare, anzi di valorizzare, l’errore.

I processi di riduzione della predeterminazione del ruolo, se non sono sostenuti dallo sviluppo delle relative competenze, possono dare luogo a problemi legati all’ambiguità e al conflitto di ruolo.

Si ha ambiguità di ruolo quando i ruoli contigui non forniscono (perché non le hanno o perché le trattengono) le informazioni che il ruolo focale ritiene necessarie. Non è possibile eliminare l’ambiguità, soprattutto man mano che si riduce il peso delle componenti prescritte del lavoro, ma è possibile e necessario gestirla perché non sia causa di sofferenza personale e di disfunzionalità organizzativa.

Si ha conflitto di ruolo quando le attese dei ruoli contigui sono contraddittorie (incompatibilità di ruolo); oppure quando un individuo occupa simultaneamente due ruoli (sempre!) che possono dare luogo ad aspettative contrastanti da parte dei ruoli contigui (talvolta).

Le strategie di comportamento per fronteggiare queste situazioni variano da persona a persona in funzione delle diverse propensioni alla legittimità delle attese dei ruoli contigui e alle sanzioni organizzative.

In genere chi percepisce il conflitto di ruolo tende a ignorare o negare le legittime aspettative di almeno uno dei ruoli contigui.

La soluzione del conflitto di ruolo sta nella capacità di integrare le doppie appartenenze.

La formazione per lo sviluppo delle competenze di ruolo è centrata sulle capacità di ascolto, comunicazione e negoziazione con i ruoli che generano il conflitto;

2. interventi a livello organizzativo. Sono possibili due le linee d’azione:

a) Ammettere una quota di ridondanza organizzativa maggiore che nel passato, attraverso la riduzione della rigida predeterminazione dei confini dei ruoli. Ciò va fatto anche nonostante le richieste in senso contrario che possono venire dalle persone coinvolte. Ovviamente non si tratta di non tenere conto di queste richieste, ma di interpretarle, negoziarle e principalmente di sostenere le sforzo che le persone devono fare per adattarsi al mutamento dello ‘scambio’ con l’organizzazione.

b) usare in modo coordinato tutte le leve organizzative. Dare coerenza ai diversi ambiti di gestione, soprattutto a quelli relativi alle risorse umane.

A esempio, se si abbassano i confini dei ruoli e il peso delle componenti prescritte (cioè se si accettano ridondanza e doppie appartenenze) non è coerente continuare ad adottare metodi di valutazione, e la conseguente attivazione del sistema premiante, centrati sulle prestazioni relative ai compiti prescritti.

Infine

Che cosa succede quando diciamo "io sono fatto così e non posso farci niente"?

L’esclusione dalla nostra autorappresentazione delle nostre tante possibilità è l’ostacolo principale al cambiamento individuale e, in una certa misura, anche organizzativo. Pensiamo alla ragione più profonda per cui alcuni manager non delegano: non è per la loro mancanza di fiducia negli altri, ma è per la loro mancanza di fiducia in se stessi, in ciò che potrebbero essere e che dovrebbero diventare per lasciare spazi autentici di crescita ai destinatari della delega.

Forse, come per tante altri aspetti della vita delle persone e delle organizzazioni, diverrà più facile accettare e valorizzare le doppie appartenenze degli altri, quando avremo appreso a riconoscere e ad accettare le nostre.

Pagina precedente

Indice dei contributi