BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 15/01/2002

MÖBIUS ORGANIZATION

RINFORZI PER PASSARE DALLA FORMAZIONE A RUOLO ALLA FORMAZIONE SISTEMICA

di Attilio Pagano

Da una ampia letteratura e da una pluridecennale esperienza organizzativa si è affermata un’idea della formazione come di quella attività in grado di colmare i gap prestazionali che possono presentarsi con l’analisi degli scostamenti tra le competenze richieste dalla posizione organizzativa e quelle possedute dalle persone. Questo modello di analisi degli scostamenti si fonda su due presupposti.

Il primo presupposto attribuisce alla posizione organizzativa un profilo di competenze necessarie e sufficienti. La individuazione di queste competenze può essere effettuata indagando le intenzioni organizzative di quei manager che non solo hanno un’idea della prestazione attesa dalle diverse parti dell’organizzazione, ma addirittura “sanno” ciò che le persone collocate in queste parti devono sapere e sapere fare per assicurare queste prestazioni. Può darsi che questi manager siano stati nella loro storia professionale dei bravi esecutori di alcune di queste prestazioni, forse anche di tante, perfino di tutte. Può darsi che abbiano consolidato grazie a ripetute esperienze di successo la convinzione che le cose che loro hanno fatto e il modo in cui le hanno fatte siano quelli giusti. Può anche darsi che di queste esperienze, tali manager, non siano stati i protagonisti diretti ma dei testimoni, cioè che abbiano assistito a storie di grande successo. Proprio il successo conseguito da performers eccezionali può sostenere l’idea che  le  cose che essi hanno fatto erano le cose “giuste” e che il modo in cui erano state fatte era il “modo giusto”. In ogni caso questi manager ritengono di poter trarre da queste esperienze dirette o indirette le informazioni necessarie per disegnare il profilo di competenze richiesto dai diversi ruoli.

Il secondo presupposto riguarda il rapporto tra competenze possedute e prestazione. Qui sembra emergere un’idea di questo rapporto come diretto e lineare. Chi “sa” fare una cosa (competenza), la fa (prestazione). La cosa da fare e la competenza necessaria a farla sono considerate come isolate da qualsiasi relazione con il contesto in cui possono rientrare, a esempio, altre persone (magari potenzialmente sempre diverse per definizione come i clienti o gli utenti di un servizio), altre risorse strumentali, altre culture.

Con alcune considerazioni, si può mostrare la fragilità di questi presupposti.

Da un lato abbiamo la sottovalutazione del fatto che quando un manager sostiene di “sapere” quali sono le competenze necessarie a svolgere un ruolo, in realtà non dichiara altro che ciò che a lui sembra evidente. Egli trae conclusioni, e quanto impegnative per il futuro della sua organizzazione, dalla confusione della mappa con il territorio, dove la mappa è la loro rappresentazione mentale delle competenze che qualcuno, anche egli stesso, doveva possedere per realizzare le prestazioni di successo; e il territorio è il sistema complesso di relazioni intrapsichiche, interpersonali e organizzative da cui sono scaturiti esiti, a posteriori, giudicati come di successo. Questa confusione tra mappa e territorio può anche essere la causa dello sconcerto con cui spesso si assiste al fallimento dei tentativi di riproduzione delle storie di successo, salvo poi cavarsela chiamando in causa differenze di personalità, di carattere (“i giovani di oggi non sono come quelli di una volta”, bella scoperta).

Dall’altro lato, abbiamo la negazione della non semplicità della relazione tra competenze possedute e prestazione. Con gli anni ottanta, hanno iniziato ad avere una maggiore importanza proposte di formazione orientate allo sviluppo di comportamenti organizzativi (comunicazione, team building, leadership ecc.). Anche in questi casi si è spesso visto che, nonostante non fosse possibile predeterminare il contenuto particolare della prestazione attesa, l’idea di fondo era quella di prescrivere dei comportamenti (il profilo del “bravo comunicatore”, del “bravo negoziatore” ecc.). In realtà, l’approccio secondo il modello della “gap analysis ” nel campo dei comportamenti organizzativi trascina un paradosso intrinseco nel tentativo di separare il rapporto tra competenze e prestazioni dall’organizzazione specifica in cui queste competenze dovrebbero essere applicate per realizzare le prestazioni attese. Ammesso e non concesso che si possa misurare il grado di leadership di una persona, ammesso e non concesso che sia descrivibile il risultato di leadership attesa, non si può certo credere che, per la leadership, esista una relazione diretta tra competenze e prestazione indipendente da caratteristiche organizzative, come a esempio l’organizzazione del lavoro, le tecnologie di comunicazione, la distribuzione dei poteri.

Ma, più che un problema epistemologico, qui si pone un problema organizzativo e di interesse per la realizzazione di strategie organizzative durevoli. Il modello dell’analisi degli scostamenti tra competenze attese e competenze disponibili guarda al passato o, forse, soltanto una rappresentazione del passato, con i suoi inevitabili contenuti emotivi di piacere o dispiacere associati alle esperienze provate, con buona pace della dichiarata “razionalità” del metodo.

Il problema è dunque valutare se il metodo di analisi dei bisogni formativi a partire dagli scostamenti tra competenze attese e possedute si mostri adeguato all’esigenza delle organizzazioni di affrontare il futuro in uno scenario, come quello che si sta imponendo, in cui la stabilità e la prevedibilità non sono certo caratteristiche a cui conviene riferirsi.

Oggi si può guardare alla vasta esperienza di formazione per colmare le carenze di competenze con uno sguardo critico e più consapevole, anche perché i criteri per tenere insieme il lavoro organizzato sono meno rigidi, meno riferiti a una razionalità astratta. Ciò è stato reso possibile, o forse implicitamente ‘imposto’, anche dalla pervasività della dimensione del servizio nelle attività economiche. La dimensione del servizio toglie sempre più spazio alle scorciatoie della standardizzazione. Parallelamente, la lenta, ma costante, crescita della domanda di qualità (che arriva a toccare in molti settori aspetti fino a poco tempo fa relegati alle diseconomie da esternalizzare come la sostenibilità ambientale o la dimensione etica dell’imprenditorialità) porta sempre più numerose organizzazioni ad abbandonare i modelli costruiti sulla base di assunti semplificatori del rapporto tra persone e lavoro. Così come oggi nessun imprenditore direbbe “gli americani possono comprare l’auto che vogliono, purché sia una Ford modello T di colore nero”, nessun imprenditore (e, forse, nessun sindacalista) direbbe più che l’aspirazione delle persone al lavoro non è altro che “un giusto compenso, per una giusta giornata di lavoro”. Quel mondo, nonostante il rimpianto dei nostalgici della semplicità (presunta) che lo caratterizzava, è passato. E con esso sono passate le razionalistiche illusioni di una ottimizzazione della divisione del lavoro.

Se non bastasse l’orientamento del mercato alla personalizzazione più che alla standardizzazione; se non bastasse la crescente consapevolezza dei consumatori sul contenuto di qualità diretta e indiretta dei prodotti e servizi che acquistano; si considerino allora le conseguenze che la diffusione delle tecnologie della comunicazione ha sull’idea di ruolo organizzativo.

La idea di ruolo organizzativo si allontana dai modelli della precisa giustapposizione dei compiti anche nella misura in cui si allontana dalla divisione e giustapposizione dell’accesso alle risorse informative. La rete modifica fino a eliminare i confini tra organizzazioni e ambiente. Ma agisce anche sui confini tra i ruoli organizzativi mostrando come ciò che appariva come ‘naturale’ e necessario non era altro che una possibile modalità tra le tante. Efficienza ed efficacia organizzativa non sono più, anche grazie alle potenzialità della connessione informativa, linearmente legati a divisione del lavoro, divisione dei saperi, divisione dei ruoli di comando e di esecuzione.

In questo scenario la formazione non può più disporsi soltanto come formazione a ruolo.

La chiave del successo delle organizzazioni che vogliono durare nel tempo diventa la capacità delle persone di interagire superando le rigide definizioni dei confini di ruolo e sviluppando una cooperazione basata sulla consapevolezza che i confini organizzativi, tanto quelli che separerebbero l’organizzazione dal suo contesto quanto quelli che separerebbero le diverse parti dell’organizzazione, sono costruzioni artificiali e il loro posizionamento riflette modelli culturali relativi, non assoluti. Forse un limite a questa relativizzazione dei confini si può mettere proprio al livello in cui non troviamo più l’organizzazione o la sua parte e nemmeno il ruolo, ma la persona.

Dunque, se i limiti di questo “ruolo” sono sempre variabili, mutevoli, non predeterminabili, la formazione a ruolo non ha più senso (almeno dal punto di vista dell’efficacia della formazione stessa). E se non sono determinabili i limiti, figuriamoci le competenze necessarie allo svolgimento del ruolo.

Eppure, giustamente, le direzioni aziendali vorrebbero sapere per che cosa investire le risorse della formazione, per quali miglioramenti prevedibili.

Questa richiesta non va elusa, ma va elaborata. Il punto è spostare il focus della richiesta dalla posizione organizzativa (visione elementare, riduzionistica) alla natura multidimensionale dell’organizzazione (visione sistemica). Il miglioramento atteso non dovrebbe quindi essere riferito all’adesione della persona al ruolo, né, tantomeno, all’apprendimento cognitivo dei contenuti relativi alle competenze di ruolo, ma alla  sviluppo di consapevolezze situazionali nell’esercizio tanto delle competenze specialistiche di mestiere, come di quelle gestionali; tanto nell’orientamento alla soddisfazione del cliente (esterno o interno che sia) più che al rispetto delle procedure, come in quello alla costante revisione critica degli obiettivi.

In questo senso l’intenzione che sta dietro la formazione non dovrebbe riguardare solo lo sviluppo delle competenze possedute ma anche di quelle esercitabili. Le competenze sono esercitabili non solo per caratteristiche dell’individuo, ma anche, a volte soprattutto, della situazione (sia nell’accezione organizzativa in senso stretto, che in quella sociale, sia in quella psicologica). La formazione dovrebbe agire quindi anche sul piano della consapevolezza della maggiore o minore esercitabilità delle competenze (anche di quelle acquisite o sviluppate con la formazione stessa). Questa consapevolezza è una metacompetenza, perché il suo apprendimento si riflette sull’apprendimento di altre competenze.

Tra gli obiettivi formativi trasversali si comprende come diventi sempre più centrale la tematica della capacità di distinguere le situazioni in cui è necessario (perché vantaggioso) un apprendimento che sia un adattamento a un contesto accettato come valido, dalle situazioni in cui è necessario (perché più vantaggioso) un apprendimento che metta in discussione il contesto stesso.

Per fare un esempio, se è vero che la formazione all’impiego di certe procedure come il controllo di gestione o, più complessivamente, quelle previste dai programmi ERP, possono aumentare l’efficienza e l’efficacia dell’azione organizzativa in una certa direzione, è anche vero che a volte è necessario chiedersi se quella direzione sia quella giusta. In altre parole, la formazione può preparare le persone a tenere dritto il timone della nave, ma qualcuno dovrebbe anche verificare dove porta la rotta.

Su questa dimensione situazionale della esercitabilità delle competenze agiscono il livello intrapsichico personale, quello relazionale gruppale e quello organizzativo.

Per una organizzazione che non si orienti più all’astratto compimento dei profili di competenze dei ruoli, è importante disporre di leve di azione anche sulle condizioni della esercitabilità delle competenze.

È evidente che per obiettivi così complessi la semplice azione formativa, per quanto consapevolmente ricca in teoria e i pratiche dell’apprendimento, non può bastare. Sono necessarie a fianco e insieme all’azione formativa altre azioni. Tra le tante possibili, andrebbero comprese le seguenti:

·        L’adozione di una metodologia di analisi non limitata agli scostamenti tra competenze attese e competenze possedute dalle persone.

·        La realizzazione di progetti che implichino sviluppo di ruolo

·        Il sostegno al superamento delle difficoltà e di disagi personali.

·        Il sostegno alla generazione di comunità di interessi in apprendimento permanente.

Solo perché questa argomentazione parte dalla formazione, è possibile definire provvisoriamente queste azioni come rinforzi alla formazione stessa. Va precisato, infatti, che una rappresentazione del sistema di azioni con la formazione al centro della mappa (fig. 1) non implica la considerazione delle altre azioni come in posizione “ancillare”.


 


Fig. 1 – Azioni di rinforzo alla formazione

Anzi, una rappresentazione più corretta vedrebbe tutte le azioni disposte in posizioni equivalenti e legate da un legame che potremmo definire, con una immagine tratta dalla chimica organica, di “risonanza”, in quanto la caratteristica prevalente è quella del sistema nel suo complesso, più che dai legami parziali tra i componenti (fig. 2).

 


Fig. 2 – Rappresentazione sistemica delle azioni

Tuttavia per semplicità analitica e per favorire una rappresentazione mentale che sia preludio all’azione, potrebbe tornare comodo adattare il modello a seconda delle situazioni specifiche spostando il focus d’attenzione a volte sulla formazione, a volte sulle altre azioni. L’attribuzione di una temporanea ideale posizione centrale può anche aiutare a verificare la coerenza delle altre azioni a contorno (fig. 3).

 


Fig. 3 – Esempio di uno spostamento di focus

L’integrazione della formazione con queste altre azioni organizzative di “rinforzo” consente di innescare un processo di evoluzione della formazione stessa da formazione a ruolo a formazione sistemica. Alcune considerazioni sulle azioni di rinforzo alla formazione qui considerate.

L’adozione di una metodologia di analisi non limitata agli scostamenti tra competenze attese e competenze possedute dalle persone.

I bisogni formativi possono essere rilevati con una metodologia di indagine articolata, nella quale, oltre a una valutazione dei fabbisogni di conoscenze e abilità ritenuti necessari a svolgere un ruolo, si dia un rilevo adeguato all’analisi organizzativa anche attraverso l’analisi del clima. L’analisi deve essere ripetuta dopo l’attuazione dell’intervento formativo, per valutare in modo specifico il cambiamento che la formazione è riuscita a indurre non solo sul piano delle competenze possedute, ma anche, e forse soprattutto, su quello degli spazi che l’agire organizzativo sa concedere alle persone per l’esercizio innovativo di queste competenze e altre eventuali non previste dalla sola gap analysis.

Un altro vantaggio indotto che potrebbe venire dalla disponibilità di una rilevazione più complessa dell’efficacia della formazione è la possibilità di orientare e sostenere gli investimenti nello sviluppo delle risorse umane. Troppo spesso gli investimenti in formazione sono stati vincolati da una pratica estemporanea o episodica (l’innamoramento del committente o del formatore per un argomento o per un docente). L’episodicità di tanti interventi formativi può anche essere causa di una “profezia che si autoadempie” sulla immutabilità delle persone e delle organizzazioni.

Al contrario, il valutare la formazione come una fondamentale, ma non esclusiva, leva dello sviluppo organizzativo, e il riferirne l’efficacia non all’acquisizione di un astratto profilo di competenze, ma allo sviluppo di competenze esercitabili ed esercitate, sono condizioni necessarie per dare continuità alla formazione.

La reiterazione delle indagini organizzative di clima contribuisce anche a restituire feed back che sono fondamentali momenti di motivazione. Essi, infatti, restituendo alle persone la misura del cambiamento ottenuto grazie ai loro sforzi, attribuiscono senso e significato alla fatica dell’apprendere. Inoltre, integrare le indagini sui bisogni formativi con analisi organizzative di clima svolte prima e dopo gli interventi formativi permette di verificare, oltre alla consistenza del cambiamento, anche la sua direzione. Cioè induce una riflessione condivisa da più ampio numero di persone dell’organizzazione non solo sul che cosa e il  come cambiare, ma anche sul perché.

La realizzazione di progetti che implichino sviluppo di ruolo

La progettazione formativa andrebbe sempre orientata alla realizzazione di obiettivi organizzativi oltre che di apprendimento. Ciò significa individuare campi di azione, processi di lavoro, in cui lo sviluppo delle conoscenze può generare benefici.

La formazione a ruolo presuppone che questi benefici siano tutti anticipatamente definiti nella mente del progettista della formazione o del committente. Immaginare il miglioramento come la realizzazione di condizioni già chiare nella mente di un progettista può risultare limitativo. All’innovazione non dovrebbe essere preclusa la possibilità della scoperta. Bisognerebbe sempre considerare che può esistere una cosa migliore da fare, o un modo migliore per farla, non previsto, non noto. La formazione dovrebbe quindi sostenere la capacità delle persone di interagire non solo per realizzare i miglioramenti già intravisti, ma anche, se non soprattutto, per scoprire quelli possibili e non ancora evidenti.

Ciò implica la necessità di uscire dai confini di ruolo. La formazione non è più a ruolo, ma è per lo sviluppo personale e organizzativo (formazione sistemica).

Per dare una chance a questa forma di innovazione non prevista, è importante che contestualmente alla formazione vengano prese e sostenute alcune decisioni:

·        Affidare obiettivi alle persone e ai gruppi in formazione durante la formazione stessa (non dopo) coinvolgendole in project works . La formazione diventa non solo sede di apprendimento, ma anche di riflessione sul senso, e rielaborazione delle esperienze.

·        Affidare risorse per la realizzazione degli obiettivi. La formazione assume così anche il significato di un complemento sul piano delle competenze a processi di empowerment che altrimenti potrebbero diventare ansiogeni (e non è detto che, almeno per qualcuno, non lo diventino anche con la formazione. Da qui l’esigenza di una disponibilità di coaching individuale).

Queste decisioni non sono di per sé sufficienti. Deve essere cura del responsabile del progetto formativo e di sviluppo favorire la esistenza di alcune condizioni:

·        Sostegno del management che deve essere coinvolto e reso partecipe della incertezza e della indeterminatezza dei risultati.

·        Capacità di reggere nuovi spazi di ambiguità e di conflitto di ruolo.

·        Coerenza e tempestività del sistema di riconoscimento (feed back) anche per proteggere i partecipanti da pressioni della gerarchia.

·        Visibilità dei risultati. La comunicazione interna, nella sua accezione più ampia, va impiegata per diffondere le esperienze.

Le persone in formazione, appropriandosi in maniera più completa del processo di lavoro, e accedendo a risorse che nel disegno originario della definizione dei ruoli erano destinate ad altre parti dell’organizzazione, possono generare connessioni inedite e realizzare nei fatti un superamento della definizione di ruolo. Ciò implica la necessità di inserire nei percorsi formativi occasioni di apprendimento per sviluppare le capacità di sostenere spazi di ambiguità di ruolo e di conflitto di ruolo.

Il sostegno al superamento delle difficoltà e di disagi personali.

Può accadere che tra l’apprendimento individuale e l’esercitabilità delle competenze apprese non ci siano solo ostacoli di tipo organizzativo. Le difficoltà potrebbero in questi casi venire da situazioni di disagio personale. In questi casi, un sostegno individuale può costituire un efficace rinforzo alla formazione e al superamento di situazione che rendono più difficile l’esercizio di competenze. Tali situazioni possono presentarsi in seguito a fusioni o acquisizioni societarie, con cambiamenti di incarico, di sede, di membri del gruppo di lavoro.

Se all’aumento del carico di responsabilità e alle maggiori competenze non corrisponde una adeguata tenuta emotiva da parte dell’individuo è facile che si sviluppino ansie e paure. Coacher esperti possono ottenere importanti risultati nel facilitare l’espressione delle competenze apprese attraverso azioni di sostegno individuale che si realizzano anche con brevi cicli di colloqui di una o due ore.

Il sostegno alla generazione di comunità di interessi in apprendimento permanente.

Il problema qui si presenta con due facce. Da un lato c’è l’aspetto della formazione continua, dall’altro quello della possibilità per ognuno di condividere stabilmente con altre persone occasioni di formazione continua. 

Riguardo alla formazione continua, possiamo constatare che l’apprendimento prosegue, in ogni caso, anche oltre i limiti spaziali e temporali della formazione. A volte esso si sviluppa indipendentemente, se non nonostante, la formazione. Le persone sono esposte continuamente a occasioni di apprendimento cognitivo e comportamentale. Poi, possono “decidere” di coglierle o meno.

Le persone, comunicando, si scambiano informazioni, conoscenze, soluzioni, esperienze. Le persone, comunicando e osservando, distinguono i comportamenti adeguati a un contesto da quelli non adeguati e possono “decidere” quali fare propri. Questi scambi possono dare luogo a rielaborazioni più o meno consapevoli, più o meno profonde. Tutto ciò accade comunque.

In tema di formazione continua, dunque, il problema non è creare qualche cosa di nuovo, ma di dare forma esplicita, intenzionalità, efficacia e verificabilità a qualcosa che avverrebbe spontaneamente.

Da un punto di vista operativo si può precisare questo problema chiedendosi: come?

Si potrebbe cominciare a cercare una risposta considerando proprio le persone, la loro preparazione a stare in questi processi, diventandone attori invece che oggetti agiti.

Per fare questo, può non essere sufficiente limitarsi ad avvertire le persone dell’inevitabilità del fenomeno. Per ognuno di noi, vantaggi maggiori derivano dall’aver sperimentato situazioni in cui un atteggiamento aperto e orientato alla condivisione di informazioni e conoscenze, e/o la osservazione degli effetti di comportamenti diversi, siano stati fattori di successo e fonti di soddisfazione. La creazione di queste situazioni esperenziali dovrebbe essere un obiettivo della formazione. In questo modo è possibile che le persone amplino le possibilità e le motivazioni di scelta riguardo alle occasioni di apprendimento che la vita, anche organizzativa, offre.

Successivamente, si potrebbe guardare al numero e alla tipologia di interlocutori con cui ognuno stabilisce (o potrebbe, o dovrebbe, stabilire) le relazioni di scambio. In un’organizzazione reale, difficilmente una persona interagisce con tutti gli altri membri, tutti i fornitori, tutti i clienti ecc. A impedire questo intreccio completo di connessioni intervengono vincoli formali e l’esistenza dei gruppi informali. Idealmente sarebbe molto utile confrontare i processi di apprendimento spontaneo con un sociogramma. Si potrebbe scoprire, per esempio, che certi problemi si ripresentano e restano irrisolti, o risolti male, perché le persone che se ne occupano sono troppo simili tra loro (tipicamente per appartenere allo stesso gruppo o famiglia professionale).

Dunque, un modo per dare più efficacia e intenzionalità ai processi di apprendimento non formalizzati in progetti formativi, può proprio essere quello di creare connessioni non spontanee, o meglio ancora, favorire connessioni che spontaneamente sarebbero ostacolate da barriere di spazio e tempo.

Qui troviamo la seconda faccia del problema che riguarda la possibilità di condividere stabilmente occasioni di formazione continua. Mentre l’apprendimento è un processo che, come si è detto, comunque accade, ciò che non accade, perlomeno non accade spontaneamente sempre, è che le occasioni di rielaborazione si accompagnino alla comparsa di una forma di fissazione delle relazioni tra le persone, di un reciproco riconoscersi componenti una comunità i cui membri siano legati da un interesse comune.

In questo senso le tecnologie della informazione e della comunicazione attualmente disponibili diventano una risorsa importante per l’apprendimento continuo e per la nascita e lo sviluppo di comunità d’interessi.

L’importanza dello scambio di conoscenze tra membri di una comunità stabile, ovviamente, non nasce perché oggi con la rete è possibile realizzare con persone, interne e/o esterne all’organizzazione, forme di connessione sincrone (chat, classi virtuali)  o asincrone (e-mail, gruppi di discussione, forum). L’esistenza di questi strumenti è una opportunità in più. Il vantaggio oggi reso disponibile è che, a differenza di altre forme di comunicazione, queste consentono di abbattere barriere che altrimenti condizionerebbero la rete reale di connessioni.

Il percorso formativo, integrando aula e partecipazione alle attività della comunità di interessi, può così, più facilmente, sviluppare nelle persone la capacità di apprendere ad apprendere che è oggi una delle caratteristiche importanti delle organizzazioni e che può essere anche fonte di soddisfazione lavorativa.

Una possibile forma di integrazione tra formazione e utilizzo di tecnologie della comunicazione potrebbe prevedere:

·         I partecipanti ai corsi sono abilitati (con username  e password personale) ad accedere a un repertorio di risorse usufruibili on line.

·         Tra queste risorse alcune sono gestite ed alimentate direttamente dagli stessi partecipanti e dai docenti  incontrati nel percorso formativo.

·         Con lo scambio di mail, la partecipazione a forum tematici, la guida a percorsi di ricerca tra le risorse della rete, i partecipanti alla formazione hanno l’opportunità di consolidare l’apprendimento in un’attività che prosegue oltre l’aula.

·         In questo modo si facilita lo sviluppo del gruppo di persone  verso caratteristiche più stabili di una comunità in apprendimento continuo.

·         Le competenze apprese vengono rielaborate alla luce dell’esperienza e di tutto questo processo resta una memoria organizzativa che diviene la base per ulteriori sviluppi.

Spesso questo disegno si scontra con una realtà in cui le persone restano passive, non danno contributi al gruppo, inaridiscono i processi di apprendimento mediati dalle tecnologie della comunicazione. Il problema non sta nello strumento, ma nel modo talvolta troppo generico e affidato a esortazioni e prediche, più che a problemi da risolvere, decisioni da prendere, scadenze da rispettare. In ogni caso è indispensabile che le persone a cui si offrono le tecnologie della comunicazione come mezzo per sostenere l’apprendimento continuo di gruppi con interessi comuni abbiano lavorato prima (magari con la formazione d’aula) per lo sviluppo di competenze tecniche, ma soprattutto relazionali e valoriali.

Talvolta, da parte di alcuni, si dice che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione snaturano la comunicazione interpersonale, togliendole la dimensione affettiva e la ricchezza della comunicazione analogica. Indubbiamente queste osservazioni riflettono qualcosa di reale, ma va evitato, anche su questo tema, un approccio ideologico e dominato dall’operatore “o”: o comunicazione interpersonale diretta o comunicazione mediata dalle tecnologie.

Forse, più ‘laicamente’, la difficoltà non sta nel mezzo, ma in come viene usato, in come si è preparati a usarlo.

Va anche detto che sarebbe riduttivo pensare alla possibilità di utilizzare le tecnologie della informazione e della comunicazione solo come veicolo di connessione tra le persone. Con gli strumenti a disposizione delle comunità di interessi, i processi di apprendimento si arricchiscono di almeno due dimensioni: la multimedialità e l’ipertestualità.

Conclusione

La formazione d’aula per avvalersi di questi rinforzi deve farsi carico di preparare le persone che ne saranno gli attori. La formazione sistemica non è più il contenitore dei processi di apprendimento sui contenuti del lavoro (come lo è la formazione a ruolo), ma soprattutto della preparazione delle persone ad avvalersi dei benefici che possono cogliere con l’attivazione di quel sistema di azioni che qui sono state definite rinforzi.

Agire in modo sistemico e coordinato su queste leve, più che su modifiche contenutistiche o metodologiche della formazione, sembra essere la strada più promettente per dare alla formazione un adeguato rilievo nei processi di cambiamento e sviluppo organizzativo.

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