BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 13/05/2002

MÖBIUS ORGANIZATION

L'OBIETTIVO DI NON AVERE OBIETTIVI

di Attilio Pagano

La formazione alla prova della complessità organizzativa: la formazione-intervento

Per il successo di un progetto formativo è importante definire e distinguere gli obiettivi organizzativi e gli obiettivi di apprendimento. Per questo si possono seguire alcune “regole di produzione” basate sul riconoscimento delle caratteristiche degli obiettivi ben formati.

La metodologia della formazione-intervento contribuisce a vincere le resistenze al cambiamento organizzativo perché i soggetti che sono coinvolti nel cambiamento stesso partecipano alla definizione di obiettivi ben formati.

Il riconoscimento della natura complessa delle organizzazioni richiede un pensiero in grado di spostarsi in diverse cornici percettive e logiche. La sola strumentazione manageriale e formativa ispirata a principi di causalità lineare si mostra inadeguata. Con la formazione-intervento è possibile assumere anche una prospettiva paradossale, come l’obiettivo di non avere obiettivi.

Obiettivi organizzativi e obiettivi di apprendimento

Nel pensiero e nella prassi dei formatori ricorrono alcuni concetti, sui quali può essere utile tornare con la mente per cercarne i presupposti, le ragioni, le implicazioni.

Vorrei qui proporre un ragionamento su uno di questi concetti:

-          vanno identificati e distinti gli obiettivi organizzativi e gli obiettivi di apprendimento.

Gli obiettivi organizzativi di un progetto formativo sono l’insieme delle prestazioni verificabili, dei comportamenti osservabili che ci si aspetta come esito dell’attuazione del progetto stesso.

Gli obiettivi di apprendimento sono una delle condizioni abilitative delle persone coinvolte nel raggiungimento degli obiettivi organizzativi: quella relativa alle competenze acquisibili. C’è, infatti, da tenere in considerazione anche la condizione che riguarda la possibilità di esercitare le competenze eventualmente acquisite.

La distinzione tra obiettivi organizzativi e obiettivi di apprendimento si giustifica per diversi motivi:

1.      da un lato permette di definire le finalità di un progetto, dall’altro di riconoscere le condizioni relative al sistema delle competenze necessarie o vantaggiose per conseguire quelle finalità. Confondere, sovrapporre i due piani, costituirebbe un ostacolo in più sulla strada del miglioramento e del cambiamento organizzativo;

2.      sarebbe ingenuo pensare che il raggiungimento di un obiettivo organizzativo possa direttamente e linearmente dipendere dall’acquisizione di competenze. La distinzione tra obiettivi organizzativi e obiettivi di apprendimento rafforza il concetto che la formazione è “una” delle leve organizzative, non “la” soluzione. Ciò, ovviamente, non ha il senso di alleggerire le responsabilità della formazione, ma semmai di stimolare il committente a riconoscere la natura multidimensionale dell’organizzazione e dei processi di cambiamento organizzativo;

3.      per individuare le finalità, sono necessari e utili alcuni precisi ruoli organizzativi e le relative sensibilità. Invece, per individuare le competenze necessarie, possono essere necessari e utili altri ruoli  e altre sensibilità. Gli obiettivi organizzativi devono essere tutti individuati dal responsabile dell’organizzazione che promuove l’azione formativa (qui committente) insieme al responsabile del progetto formativo (qui formatore). Si tratta di individuare le criticità da superare, le opportunità da cogliere, le caratteristiche globali o locali che segneranno il cambiamento avvenuto. Invece gli obiettivi di apprendimento potrebbero anche non essere individuati dal committente o con il suo concorso. In molti casi, anzi, è proprio esclusiva responsabilità professionale del formatore individuare quali percorsi di apprendimento è opportuno proporre alle persone che saranno coinvolte nella realizzazione degli obiettivi organizzativi;

4.      solo con la distinzione tra obiettivi organizzativi e di apprendimento, è possibile tenere conto della diversità dei ruoli coinvolti nella realizzazione di un progetto di cambiamento organizzativo. La cosiddetta eterogeneità dell’aula non è sempre vantaggiosa. Ci sono situazioni in cui conviene progettare percorsi di apprendimento mirati e differenziati per ruoli diversi (dirigenti e manager di primo livello, capi intermedi e quadri, collaboratori). In questi casi, l’unità del progetto formativo può essere mantenuta solo dalla precisa individuazione dell’obiettivo organizzativo a cui dovranno convergere i differenti percorsi di apprendimento.

  Le implicazioni per la valutazione

La distinzione tra obiettivi organizzativi e obiettivi di apprendimento ha effetti significativi anche per la valutazione dell’efficacia dell’intervento. Intanto ‘costringe’ a chiedersi che cosa si vuole valutare: l’apprendimento o il cambiamento organizzativo? Da un lato, per fare un esempio, si può insegnare a dirigere o a partecipare a team di progetto e si può verificare il mutamento indotto con la formazione sul sistema delle competenze (valutazione che andrebbe almeno articolata nelle diverse tecniche, specifiche per gli aspetti cognitivi e per quelli comportamentali). Dall’altro lato, restando nello stesso esempio, si possono affidare incarichi di progettazione a team appositamente costituiti e si può verificare il mutamento indotto con la formazione su alcune caratteristiche della prestazione (a esempio, innovatività, tempestività, affidabilità dei progetti ecc.).

Il discorso qui tocca, come è evidente, il tema delle competenze potenziali e di quelle espresse, riconoscendo per queste ultime il peso decisivo della qualità del contesto organizzativo.

Si può anche dire che la identificazione degli obiettivi organizzativi e la conseguente verifica è condizione per la comprensione della formazione come uno dei componenti di più ampi progetti di empowerment, per i quali il cambiamento non dipende solo dalla competenza acquisita ma anche dalla modifica delle relazioni organizzative.

Se, dunque, si vuole valutare il cambiamento organizzativo che cosa si deve guardare? E quali diventano i confini dell’azione formativa? E quale deve essere il mandato (e il coinvolgimento) della committenza? Ancora una volta si chiama in causa il tema dell’empowerment e del rapporto con chi il potere ce l’ha già e può vivere come minacciante ogni intervento che implichi una sua distribuzione diversa, una sua rimodulazione.

 

Obiettivi organizzativi e di apprendimento come “obiettivi ben formati”

Abbiamo visto che sono molte e importanti le ragioni che sostengono la necessità di distinguere obiettivi organizzativi e di apprendimento. Ciò nonostante, si assiste spesso nella pratica quotidiana delle organizzazioni a richieste di formazione in cui le due diverse tipologie di obiettivo vengono confuse. Il committente dichiara di avere bisogno di un corso per far apprendere a qualcuno certe conoscenze o capacità (comunicare, gestire e partecipare a riunioni efficaci, lavorare per progetti e obiettivi ecc.). In questo modo, egli va direttamente sul piano degli obiettivi di apprendimento, non chiarendo, forse nemmeno a se stesso, l’obiettivo organizzativo, il motivo per cui qualcuno nell’organizzazione dovrebbe avere, o migliorare, certe conoscenze e capacità .

In queste circostanze, al formatore può essere utile ricorrere ad alcuni concetti sulla “buona formazione” degli obiettivi. Questo significa che il formatore dovrà negoziare e rinegoziare con il committente la definizione dell’obiettivo fino a che abbia raggiunto una soddisfacente corrispondenza con alcune caratteristiche di un obiettivo ben formato:

1.      innanzitutto, l’obiettivo organizzativo dovrà risultare realistico, cioè adeguato alle risorse disponibili. Tra queste, come è noto ai formatori, la risorsa più spesso oggetto di controversie è il tempo (spesso riferito solo al tempo d’aula, ma si dovrebbe considerare più in generale il tempo necessario all’intero processo di appropriazione, rielaborazione ed esercizio delle nuove competenze). Oltre al tempo, in realtà, diventano cruciali altre risorse come i luoghi e le attrezzature. Ma io vorrei richiamare soprattutto l’attenzione sulla necessità di tarare l’obiettivo organizzativo alla effettiva disponibilità di spazi organizzativi come, a esempio, l’ampiezza della discrezionalità di ruolo, le possibilità di accesso alle informazioni pertinenti e a quote crescenti di responsabilità ecc.;

2.      una volta definito l’obiettivo in termini realistici, bisognerà verificare che esso sia riferito  direttamente al comportamento dei partecipanti alla formazione e dei loro manager, e non fatto dipendere da circostanze esterne (come una eventuale modifica legislativa o una crisi dei concorrenti). La dipendenza dalla nostra diretta responsabilità a fare o non fare alcune cose evita di formulare obiettivi “magici” ed è condizione necessaria per formulare obiettivi operativi;

3.      verificare che l’obiettivo sia in equilibrio con i valori condivisi dalle persone che saranno impegnate della sua realizzazione. Questa è una condizione decisiva per sostenere la motivazione delle persone a assumere non solo i comportamenti prescritti ma anche quelli discrezionali che potranno risultare necessari e vantaggiosi per il conseguimento dell’obiettivo;

4.      il formatore dovrebbe orientare la discussione con il committente, al chiarimento del motivo che lo spinge a chiedere un intervento di formazione sulle competenze indicate. Si tratterà di proporre al committente una “catena di perché”, ovvero, a esempio, “perché vuole che queste persone imparino a gestire e partecipare a riunioni efficaci”? Immaginiamo che la risposta sia “perché vogliamo dare più importanza al lavoro in team”. Allora si dovrà chiedere “perché volete dare più importanza al lavoro in team”? E così via, concatenando i perché fino a fare emergere un motivo che abbia le caratteristiche di un obiettivo organizzativo cioè un comportamento o una prestazione verificabile;

5.      un ulteriore passo sarà chiedersi come potremo sapere di avere raggiunto l’obiettivo e quali saranno gli indicatori che converrà controllare per sapere che la situazione è passata da una condizione insoddisfacente a una soddisfacente. Ciò si concretizza nella formulazione di un obiettivo specificato: chi farà che cosa, quando, come, dove ecc. Curare questo aspetto porta anche  a chiedersi come questi indicatori verranno controllati e con quali conseguenze per il sistema premiante e sanzionatorio.

Considerazioni del tutto simili possono essere fatte sulla formulazione degli obiettivi di apprendimento, che dovrebbero essere:

-          realistici. Ciò implica, quantomeno, un riferimento alle competenze già possedute dalle persone che parteciperanno alla formazione;

-          dipendenti dal comportamento delle persone. Questo sembra un suggerimento quasi pleonastico. Come potrebbe l’apprendimento non dipendere dal comportamento delle persone? Tuttavia, il richiamo non è del tutto inutile, soprattutto per i progettisti di formazione che talvolta riferiscono l’efficacia della formazione alla forza intrinseca del progetto, quasi questo fosse un discorso da analizzare in termini di capacità persuasoria;

-          in equilibrio con i valori. Le persone metteranno energia in un processo di apprendimento se non lo percepiranno come incompatibile con le proprie convinzioni più profonde, con i propri ‘quadranti’ valoriali. Perché questa affermazione abbia un qualche effetto pratico, si dovrebbe almeno avere chiaro l’orientamento valoriale della proposta formativa, cioè quali siano gli assunti fondamentali a cui ci si riferisce (regole o relazioni; contenuti o ruoli; compatibilità o sfruttamento risorse ecc.);

-          specificati. Quali conoscenze, quali abilità, quali atteggiamenti ci si aspetta di sviluppare con la formazione e come si pensa di verificarne l’apprendimento.

Il richiamo alle caratteristiche di obiettivi organizzativi e di apprendimento ben formati può contribuire  a ridurre la distanza tra esperienza formativa e esperienza organizzativa e ad affrontare le resistenze al cambiamento.

L’aula (o le altre diverse forme di apprendimento formalizzato riconducibili alle famiglie dell’e-learning e della formazione a distanza) non vengono prima del cambiamento, ma vi si ‘intrecciano’. Questa è la metodologia della formazione intervento: “nel corso dell’intervento formativo, che fiancheggia un intervento organizzativo, si rilevano e si valutano i comportamenti agiti e le decisioni prese” [2] .

In questo modo, la formazione intervento aumenta la possibilità per le persone di costruire il senso delle proposte (o anche sfide) di apprendimento a cui si trovano esposte nel momento in cui sono coinvolte nella realizzazione di obiettivi organizzativi.

Complessità e paradosso: l’obiettivo di non avere obiettivi

I sistemi più semplici hanno parti poco interdipendenti e poco differenziate, le cui interazioni sono descrivibili secondo evidenti relazioni causa – effetto di tipo lineare con poche retroazioni. Per agire in sistemi di questo tipo è possibile (forse perfino conveniente) adottare un pensiero saldamente ancorato a principi logici che escludono il paradosso e l’ambiguità.

Una ipotetica impresa ben strutturata su un piano razionalizzato di divisione del lavoro, che produca beni con tecnologie che lasciano poco spazio alla discrezionalità, in un ambiente stabile e dunque prevedibile per un ampio orizzonte temporale; un’impresa così, forse non è un sistema semplice, ma certamente è un sistema più semplice delle imprese che oggi sopravvivono e, magari, si sviluppano.

In realtà, il sistema delle imprese (livello macro) e quello della singola impresa (micro) sono sistemi a elevata interdipendenza. È impossibile descriverli con un diagramma ordinato di relazioni lineari. Essi sono caratterizzati da un intrico di percorsi circolari e retroagenti. E sono anche sistemi in cui le singole componenti raggiungono elevati livelli di specializzazione, come se fossero organismi evoluti nella capacità di occupare nicchie, di valorizzare risorse locali, di massimizzare l’efficienza secondo strategie sempre diverse in funzione delle caratteristiche locali dell’ambiente.

Sono, in una parola, sistemi complessi. In quanto tali non possono essere gestiti da una intelligenza che presuma di potere prevedere, pianificare, controllare, regolare da una posizione esterna (generalmente superiore) e che si ponga con il sistema in una relazione lineare, di causalità diretta, svincolata o indifferente alle retroazioni che dal sistema inevitabilmente verranno.

In questo quadro, l’imprenditore non può restare illimitatamente il centro causale dell’azione organizzativa. Egli, a un certo punto, deve mettersi in gioco adottando un pensiero che, per funzionare (cioè per essere guida a una interpretazione e a un’azione efficaci) deve accettare la dimensione del paradosso (para doxa, oltre l’opinione comune) e dell’ambiguità.

Sulla base di queste considerazioni può apparire che la definizione di un obiettivo organizzativo nella progettazione formativa, tanto più di un obiettivo ben formato, potrebbe rafforzare l’illusione della prevedibilità dei fenomeni organizzativi. E dunque si dovrebbe pensare che anche i vantaggi conseguibili con la distinzione e  la buona formulazione di obiettivi organizzativi e di apprendimento non sarebbero che illusori, in quanto applicazione di un pensiero ordinato e lineare all’interpretazione e all’azione in sistemi complessi.

Il problema della formazione efficace diventa così simile a quello del Project Management. Che senso ha, alla luce della consapevolezza della complessità e imprevedibilità organizzativa, impegnarsi nell’adozione degli strumenti di pianificazione e controllo? Non converrebbe riconoscerne la incapacità intrinseca, l’impotenza, e orientarsi solo a governare i processi spontanei ed emergenti di adattamento?

Nella gestione delle imprese e delle organizzazioni, non varrebbe più nulla un pensiero basato su modelli e teorie perché fondati sull’illusoria ripetibilità e predicibilità delle situazioni, e al contrario si dovrebbe cercare solo nella ‘narrazione’ la consapevolezza del governare.

E, dunque, anche per la formazione, perché sprecare energie per la definizione degli obiettivi organizzativi, quando ciò che, in fin dei conti, è importante è ‘soltanto’ lasciare che le persone apprendano e fare in modo che questi apprendimenti individuali entrino nella catena di generazione di valore come apprendimento organizzativo? Senza un progetto anticipato, senza sapere prima apprendimento di che cosa, senza chiudersi alla possibilità di infinite altre diverse soluzioni ai problemi, di infinite altre cose da apprendere .

Una ipotesi di gestione organizzativa e di formazione tutta orientata verso obiettivi predefiniti sembra, quindi, fallace. Ma il capovolgimento di cultura manageriale non dovrebbe “semplicemente”condurre a un ripudio degli obiettivi. La gestione della complessità richiede soluzioni meno ovvie, meno semplici.

Mi pare che ciò che dobbiamo fare è pervenire a una forma di pensiero ‘oscillatorio’ [3] , in grado di

a)      dare ordine e guida finché rimaniamo a un dato livello di lettura dei fenomeni. Potrebbe essere questo livello quello in cui noi come manager, come formatori ecc. siamo di fronte a problemi che in qualche modo riusciamo a cogliere come esterni a noi stessi. Sono i nostri problemi, certo, ma noi non siamo parte del problema;

b)      ma quando ci posizioniamo a un altro livello di lettura dei fenomeni, il pensiero deve dislocarsi a una diversa comprensione, abbandonando i modelli di causalità lineare. A questo diverso livello può corrispondere la situazione in cui noi come manager, come formatori ecc. non siamo più di fronte al nostro problema, ma vi siamo dentro. Per provare a capirlo, e per provare ad agire per risolverlo, dobbiamo cogliere con pensiero logico e con intuizione la natura sistemica del problema di cui noi siamo una parte. Dobbiamo ‘vedere’ le relazioni di concausa, le circolarità negative e positive nel cui gioco noi stessi siamo coinvolti e, quindi, dobbiamo cessare di provare a guidare e condurre e, dedicarci alla esplorazione dei mondi possibili, alla libertà dell’apprendere senza progetto, perfino senza obiettivi.

Di fronte alla complessità organizzativa, il manager e il formatore devono imparare a essere a volte ingegneri e a volte bricoleur. Ingegneri, quando è dominabile l’orizzonte del prevedibile, quando la motivazione è l’efficienza nella realizzazione di un’idea o di un obiettivo di apprendimento definito. Bricoleur, quando il controllo sugli eventi sacrifica troppe possibilità, quando la ricerca dell’efficienza compromette l’efficacia, perché a furia di voler fare una cosa nel modo migliore, si impedisce la possibilità di fare cose diverse, magari più significative e più durature.

Guardiamo ora una delle famose figure ambigue, quelle che possono essere viste in due modi diversi. A esempio quella del papero / coniglio.

 

Può darsi che al primo sguardo, una persona veda il papero, ma non il coniglio, o viceversa. Si può facilmente sperimentare come sia  impossibile vedere contemporaneamente il papero e il coniglio. È, però, possibile passare dal papero al coniglio (salto di “cornice” percettiva), se ci si pone davanti a questa figura da una prospettiva più ampia, da una prospettiva in cui sia possibile percepire la natura ambigua della figura [4] . Come dire che io non posso pensare contemporaneamente a due cose, ma posso pensare a una terza cosa che le contenga entrambe. Il pensiero di questa terza cosa è un salto di “cornice” logica.

Allo stesso modo, io non posso pensare come ingegnere e nello stesso momento come bricoleur. Per essere a volte ingegnere e a volte bricoleur, mi serve un terzo pensiero che si pone a un ordine logico superiore e che comprende il pensiero-ingegnere e il pensiero-bricoleur.

Il pensiero ‘oscillatorio’ è quel pensiero che ci consente di salire e scendere la successione delle diverse “cornici”.  Utilizzando le parti ‘dure’ della strumentazione manageriale (a esempio, le tecniche di Project Management o i principi per la buona formulazione degli obiettivi della formazione) quando siamo in una cornice e cessando di utilizzarle quando siamo in un’altra.

L’ipotesi di abbandonare certi strumenti, ha senso se li si conosce e se li si sa usare. Si dovrebbe, infatti, scegliere di non usarli (o non affidarcisi completamente) quando, assunta una prospettiva diversa di fronte ai problemi gestionali per effetto di un salto di “cornice”, ci si accorge della loro limitatezza. Il cambio di paradigma manageriale se non è una scelta consapevole, non sarebbe che una scorciatoia. Con il rischio di rinunciare a conoscere e a usare strumenti che, per quanto lineari, potrebbero rivelarsi efficaci per problemi effettivamente “semplici”.

Si pone così un problema: quando passare da una “cornice” all’altra, da un’abilità gestionale all’altra? In un certo senso la domanda è mal fatta. Infatti, la risposta cambia in funzione del momento in cui ce la facciamo. Se ce la facciamo mentre vediamo le cose da ingegneri, ci daremo risposta da ingegneri (regole, prevedibilità ecc.). Se ce la facciamo mentre vediamo le cose da bricoleur, ce ne daremo una da bricoleur (emergenze incontrollabili). Nessuna risposta è sempre valida, entrambe sono vere (para doxa).

E dunque, a un certo livello di comprensione dei problemi organizzativi sarà vantaggioso usare maggiore rigore nella definizione degli obiettivi organizzativi e di apprendimento. A un altro livello questi vantaggi potrebbero rivelarsi addirittura condizioni limitanti, puntigliosità controproducenti.

Io non credo che il riconoscimento di questi livelli sia da affidare al caso o all’umore del momento. Chi ha esperienza di team building sa che nelle fasi iniziali della vita di un gruppo, la esplicitazione e la condivisione di un metodo di lavoro è una condizione essenziale perché i membri si sentano parte del gruppo stesso. Sono questi i momenti in cui la coesione è significativamente collegata alla esistenza di una procedura formale su come si sta insieme, ci si ascolta, si condividono gli sforzi. Ma ci sono anche momenti in cui il gruppo non ha più bisogno dei richiami al regolamento per funzionare bene, per assicurare a tutti ascolto e soddisfazione. Le cose funzionano perché funzionano. La coesione viene dallo stare insieme e dal fare insieme, non dalla rassicurante esistenza di un accordo formale. Si può anzi verificare che eventuali richiami al regolamento in fasi avanzate della vita di un gruppo di lavoro sono chiari indicatori di una difficoltà del gruppo stesso a evolvere dall’interdipendenza all’integrazione [5] .

Anche un’organizzazione vive diversi gradi di maturità. Il manager e il formatore dovrebbero scegliere una strategia e uno stile da ingegnere o da bricoleur sulla base di una comprensione del grado di maturità dell’organizzazione. Anzi, ed è ancora più difficile, dovrebbero passare da una strategia all’altra con riferimento ai diversi gradi di maturità delle diverse parti dell’organizzazione. Dove contano efficienza e rigore, manager e formatore possono usare gli strumenti di una scienza manageriale lineare, ‘semplice’. Dove, invece, contano efficacia, soddisfazione delle persone e  degli stakeolders, essi dovrebbero adottare un pensiero manageriale complesso in grado di governare senza guidare, lasciando emergere apprendimenti, progetti e soluzioni.

Questo salto di “cornice” presuppone una comprensione dei diversi assunti impliciti sull’esperienza organizzativa (a esempio le attribuzioni di senso date dal management e quelle date dai collaboratori), evitando di imporne uno sugli altri. Prendiamo la distinzione che Renato Di Gregorio [6] fa tra finalità e obiettivo di un gruppo di progetto. “l’obiettivo di un progetto va ben definito, lo abbiamo già detto (…). Spesso l’obiettivo viene confuso con le finalità. A esempio: progettare un giornale interno per migliorare la comunicazione interna; progettare il giornale è l’obiettivo, migliorare la comunicazione interna è la finalità. In qualche caso il gruppo di progetto è portato a dire che il proprio obiettivo è migliorare la comunicazione interna. Migliorare la comunicazione interna è probabilmente l’obiettivo del vertice di un’organizzazione, non del gruppo di progetto”.

Al di là delle differenze terminologiche, io vedo una assonanza con la tesi qui sostenuta. Il vertice dell’organizzazione, infatti, non cessa di esistere quando il gruppo di progetto autodetermina la realizzazione del “giornale interno” come uno strumento per “migliorare la comunicazione interna”, che è la finalità del vertice stesso. Non cessa di esistere, ma muta la sua collocazione dal dirigere al lasciare emergere. Inoltre, se, da questa diversa collocazione, si vede come parte in gioco, può pervenire a una visione più complessa dell’agire organizzativo.

Come dire che, per raggiungere le sue finalità, assume l’obiettivo di non avere obiettivi o, quantomeno, di non averli per tutti e in ogni momento.

La formazione-intervento ha proprio la caratteristica di consentire di governare i processi di miglioramento organizzativo perseguendo finalità dichiarate, ma senza porre obiettivi tutti predeterminati. Senza rinunciare a conoscere le caratteristiche e i vantaggi della buona formulazione degli obiettivi, costringe a un pensiero complesso e a continui salti di cornice. In questo modo si configura come una metodologia per l’apprendimento individuale e organizzativo coerente con la natura complessa delle organizzazioni.



[1] Attilio Pagano, consulente e formatore free lance, attiliopagano@magnetika.it

[2] Renato Di Gregorio, La formazione-intervento nelle organizzazioni, pag. 38,  Guerini e Associati, Milano, 1994.

[3] Anche se può apparire irriverente, vorrei accostare a questa immagine la seguente citazione: “… ogni volta che cominciamo a insistere troppo sull’‘operazionalismo’ o sulla logica simbolica o su uno qualunque di questi essenzialissimi sistemi di rotaie, perdiamo in parte la nostra capacità di pensare in modo nuovo. Naturalmente la perdiamo anche ogni volta che ci ribelliamo contro la sterile rigidità del pensiero e dell’esposizione formali e lasciamo che le nostre idee corrano a briglia sciolta. Secondo me i progressi del pensiero scientifico derivano da una combinazione di pensiero vago e di pensiero rigoroso, e questa combinazione è lo strumento più prezioso della scienza”. Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, pag. 110, Adelphi, Milano, 1977.

[4] Marianella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe Pescara-Milano, 2000

[5] G.P. Quaglino, S. Casagrande, A.Castellano,  Gruppo di lavoro. Lavoro di gruppo, Cortina, Milano, 1992

[6] Renato Di Gregorio, Progettare per apprendere nella pubblica amministrazione, pag. 91, Guerini e Associati, Milano, 2000.


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