BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 01/01/1998

 

LA FORMAZIONE MANAGERIALE COME INCUBAZIONE DEL PENSIERO UNICO
Pierfranco Pellizzetti

Nonostante le tecnologie elettroniche, le parole serbano la fragilità e la deperibilità dei loro tradizionali supporti cartacei: ingialliscono e si accartocciano. Dopo una stagione di protervia pervasiva, va indebolendosi la presa egemonica di un vocabolario che evidenza l'ineluttabile allargarsi dello spazio sociale all'intera dimensione planetaria: globalizzazione,mondializzazione... 0 meglio, passata l'accettazione supina, si inizia a smontarne il senso e si scopre che questi fenomeni sono molto meno naturali ed oggettivi di quanto apparissero. Cresce il sospetto che l'apparente "descrizione" sia -in realtà- pura "ideologia". Ignazio Ramonet, direttore di Le Monde Diplomatique, ha sloganizzato questa intuizione con una formula: pensiero unico. Il suo ragionamento al riguardo, insieme ai saggi di Fabio Giovannini e Giovanna Ricoveri, è stato recentemente pubblicato da Strategia della Lumaca ("Il pensiero unico e i veri padroni del mondo", 1996). Come tutte le ideologie, anche questa si innesta su alcuni dati reali: i formidabili rivolgimenti scientifici e tecnologici nel settore dell'informazione e la smaterializzazione dell'economia che ha dato vita ad una geofinanza che agisce nel cyberspazio con sovrumana potenza e determina lo scivolamento del potere dai luoghi e dai modi della politica democratica. Ha un bel dire l'aedo del nuovo corso, George Soros, che "i mercati votano ogni giorno". Gli aventi diritto a questo elettorato attivo si concentrano in circoli ristrettissimi e -per di più- se lo accaparrano Arbitrariamente, senza il minimo obbligo/scrupolo di rispondere a chicchessia. Tanto da far esclamare un moderato come Raymond Barre: "decisamente non si può abbandonare il mondo nelle mani di trentenni irresponsabili che pensano solo a far quattrini". Come tutte le ideologie, anche questa nega di essere tale ("ideologia della fine delle ideologie") e tenta di convincerci, in nome del realismo e del pragmatismo, della naturalità del mercato (e della sua pervasività economica e culturale) proponendo la sostituzione della veneranda formula del progetto illuministico (liberté, egalité, fraternité) con quella del killer capitalismo: globalité, marché, monnaie (Giulio Tremonti). Dunque, quando andiamo ad esplorare la realtà liberando lo sguardo da lenti e filtri deformanti, si evidenze subito la "falsa coscienza" del pensiero unico. Lo osservava Alain Touraine su El Paìs del 29 dicembre scorso: "le economie continuano a essere nazionali ... il mondo sembra incamminarsi verso una trilateralizzazione -America del Nord, Giappone, U.E.- più che verso una globalizzazione ... stiamo rivivendo su scala più ampia quello che all'inizio del secolo Hilferding chiamò imperialismo economico, vale a dire, il predominio del capitale finanziario internazionale sul capitalismo nazionale". In effetti, la tanto conclamata interdipendenza del mondo è una mistificazione se, parlando dal cuore del sistema, Paul Kruger può segnalarci che "gli Stati Uniti hanno ancora, al 90%, un'economia che produce beni a uso interno" (Foreign Affairs, marzo/aprile 1994). Ad oggi solo il 2% dei movimenti di capitale corrisponde agli scambi di beni e servizi. Il resto è produzione di denaro a mezzo denaro: l'immensa forza d'urto della finanza; la portata inaudita del potere dei fondi di investimento, prevalentemente anglosassoni e giapponesi (ad esempio, i tre principali fondi pensionistici americani controllano da soli 500 miliardi di dollari). Quindi se -come riteniamo- il pensiero unico della globalizzazione è operazione ideologica, conviene recuperare le vecchie ricette ermeneutiche che, per "vederci chiaro", consigliano di aggirare i paraventi concettuali e battere la pista che risale agli interessi occultati di chi effettivamente "ci guadagna". E chi realmente ci guadagna, chi "ci ingrassa" dietro le downsizing (flessibilizzazioni organizzativi, vulgo riduzioni degli organici), la transnazionalizzazione delle imprese e l'emarginazione di sempre più vaste schiere di cittadini sono -ce lo dice Giovanna Ricoveri- i ceti finanziario-manageriali. Attorno a loro ruotano fasce di chierici, indottrinati dal nuovo catechismo mercantilistico, che fanno da massa di supporto all'egemonia del pensiero unico e massa di manovra operativa a queste strategie che nascono -appunto- nella riorganizzazione delle imprese. La cultura alta e quella di sinistra non hanno avuto antenne percettive della profonda opera di manipolazione della media cultura d'impresa in cui, da decenni, sono impegnati i Top aziendali e quella (vasta) fascia di formatori e consulenti disponibili a spendersi in chiave imbonitoria. Credo che l'ideologia mediocre del pensiero unico come modernizzazione regressiva si sia formata e abbia fatto proseliti nei laboratori di "cultura manageriale": una visione ottimisticamente teleologica e gravemente semplificatoria che assembla pezzetti di Hayek con luoghi comuni efficientistici, impastati da tecnicalità pseudopsicologesi. Da qui l'enfasi sulla comunicazione al posto dell'informazione e del controllo, l'equiparazione oscurantista del Il capire" al "vedere": il massacro delle attitudini critiche. Un inciso per gli studiosi di Quentin Skinner: se tra il XII e il XIII secolo i retori delle scuole giuridiche italiane, insegnando materie pratiche come la stesura di lettere ufficiali (ars dictaminí) e public speaking (ars aregendi), fecero da glorioso incubatore dell'ideologia delle virtù repubblicane (Le origini del pensiero politico modero, Vol.I, Il Mulino, 1989), così le sessioni di formazione nelle organizzazioni produttive di tutto il mondo industrializzato hanno affinato e diffuso l'ideologia (meno gloriosa) del pensiero unico. L'identico cammino, dalla pratica alla visione del mondo (seppure con esiti tanto diversi). Da questi laboratori saltan fuori i "nuovi padroni del mondo", che poi sono solo dei maldestri e irresponsabili pasticcioni (ma anche dei tarantolati dall'avidità acquisitiva), che confondono il consenso con l'indifferenza e che pensano di tenere a bada le masse degli esclusi dai loro giochini con dosi massiccio e instupidenti di tittytiment. La grande Disneyworld cibernetica denunciata da Zbigniew Brzezinski: anche l'ideologia del pensiero unico ha i suoi fumi oppiacei. La lotta contro questa cultura e questi nuovi padroni -concordo con Touraine- deve fare aggio su interessi e ceti antagonistici: gli imprenditori, gli innovatosi, i gruppi di professionale in lotta con le gilde manageriali per il comando tecnocratico e il superamento delle logiche gerarchiche. Con un preciso campo di azione sociale diretto: i crescenti strati di proletariato marginale in formazione nelle aree dei servizi dequalificati e della micro-impresa sommersa. La parola d'ordine ce l'ha già fornita Amartya K. Sen: "la libertà individuale come impegno sociale". Cioé, il superamento della classica (e in qualche misura distorcente) divisione di Berlin tra "libertà negativa" e "libertà positiva" in una visione unificante: non c'è autonomia vera se non c'è reale possibilità di scelta, la libertà non va solo tutelata ma anche promossa. Torniamo -dunque- all'assunto iniziale: segni nel cielo e altri prodigi sembrano annunciare la fine dell'epoca del pensiero unico. Al riguardo, è degno di menzione che l'ultimo libro del Direttore di Confindustria, Innocenzo Cipolletta ("Le responsabilità dei ricchi", Laterza, 1997), appaia nella stessa collana (il Nocciolo) che ha editato anche l'ultimo saggio di Sen, faccia costante riferimento al pensiero (assai critico nei confronti del mercantilismo liberista) dell'economista~filosofo angloindiano, ribadisca che un modello economico perde legittimità se non si coniuga con un modello sociale: "la ricchezza si giustifica -nel lungo termine~ sulla base di problemi che ha risolto e di povertà che ha ridotto"(pag.76). Potremmo divertirci ad osservare che, ancora una volta, l'analisi non diventa progetto sicché Confindustria e le sue teste pensanti tendono a ragionare in termini di denuncia e/o testimonianza, mai di strategia (e così si autoconfinano in un ricorrente limbo di impotenza, più o meno ringhiosa, certamente impolitica). Ciò che conta è che il messaggio proveniente da questa Confindustria (non particolarmente attenta alle problematiche del consenso) è un forte segno dei tempi. Stanno venendo alla luce i risvolti aberranti di un filone di riflessione che -sottotraccia- ci accompagna dalla seconda metà degli anni '70 (dopo gli shock energetici che convinsero alcuni strateghí del mondo a lanciare una vasta operazione di smaterializzazione e finanziarizzazione dell'economia di cui il pensiero unico ne è il catechismo) e che fa da filo conduttore di tanti apparenti novismi: il dibattito se il "costo della democrazia" sia compatibile con lo sviluppo economico. Checché ne abbiano pensato questi terribili semplificatori, il plurisecolare progetto illuministico (avviato in quelle prime elaborazioni di repubblicanesimo civile del XII secolo) è penetrato nelle fibre delle nostre società troppo profondamente per essere colpito a morte dai catechismi manageriali. 

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